domenica 26 aprile 2009

18 – E’ morta una Poltrona Spinosa

Sovareto 23-1-2005 domenica.

Stamattina ho passato alcune ore in giardino a raccogliere e passare al setaccio della terra, per scartare le pietre, che sono numerose nel mio giardino. L’ ho mescolata con concime organico, ho riempito alcuni vasi e piantato delle talee.
La mamma, che mi vedeva lavorare appoggiata al parapetto della sua veranda, mi ha detto tranquillamente che forse era morto uno dei suoi "cuscini di suocera".

Aggiungi immagineEchinocactus grusonii o Poltrona Spinosa

Speravo di aver capito male. Non può morire così una pianta che si guarda con compiacimento da oltre un decennio, una pianta che è difficile da riprodurre, che cresce lentamente.
Forse avevo capito male e continuai nel mio giardinaggio.
Finito il lavoro andai nella veranda della mamma a verificare.
La grossa palla spinosa, che manteneva ancora il colore verde e le spine gialle adunche, non sarebbe sembrata morta se non fosse apparsa un po’ inclinata, a differenza dell'altro "cuscino" accanto. Lo spinsi lateralmente col manico delle cesoie che avevo ancora in mano, come a volerlo raddrizzare, e mi accorsi che alla base era molliccio. Lo pressai dal basso verso l'alto e l'involucro spinoso si staccò, come un coperchio si solleva dalla pentola, lasciando scoprire un tronco centrale ricoperto da una polpa gelatinosa.

La parte esterna spinosa, afflosciata a terra, mostra la putredine interna.


Ancora nel vaso il cuore della pianta, da cui si è staccato il manto spinoso

Peccato! Non so dire quanti anni siano passati da quando lo comprammo in un minuscolo vasetto, del diametro di pochi centimetri!
La mamma mi chiese se era morto e le feci vedere la poltiglia che era diventata. Non fece alcuna osservazione. Non gliene importava niente! Disse solo che bisognava buttare la pianta morta e riutilizzare la ciotola che l'ha contenuta per tanti anni.
Io le spiegai che le piante grasse muoiono se ricevono molta acqua, specialmente in inverno, e che bisogna togliere il sottovaso per permettere all'acqua sovrabbondante di scivolar via dai fori. In questo inverno la stagione è stata particolarmente piovosa come non si era mai visto prima.
Anch'io ho trovato nel mio giardino alcune piante grasse morte per l'eccessiva pioggia e mi sono amareggiata, ma non quanto per il grosso "cuscino di suocera". Le mie piante morte erano di specie comuni e ne ho altri esemplari. Sono state per me un campanello di allarme per mettere in salvo tutte le mie grosse piante che tengo nei vasi all'aperto nei balconi. Oltre ad alcuni Cuscini di suocera, ho dei grossi Ferocactus e Cappelli di prete, comprati tanti anni fa e cresciuti meravigliosamente sotto il mio sguardo affettuoso e mostrati con orgoglio a quanti si fossero affacciati al mio balcone.
Vedendo che la pioggia, sempre avara in Sicilia, quest'anno si mostra abbastanza generosa, un giorno trascinai le grosse ciotole non senza fatica, aiutandomi con una corda per trasferirle dal balcone alla veranda, al riparo dalla pioggia, dopo averle liberate del sottovaso pieno di acqua piovana. Dopo un periodo di bel tempo, poiché le ciotole erano numerose in veranda e mi davano intralcio, le ho riportate al balcone. Quando prevedo la pioggia, riparo i vasi con un vecchio grosso ombrellone da spiaggia.
A tavola dalla mamma, per il consueto pranzo domenicale, chiedo perché non sia dispiaciuta della morte della pianta quanto lo sono io. Mi risponde che non vale la pena dispiacersi per una pianta e che ne ricomprerà un'altra.
Dopo pranzo prendo la macchina fotografica e scatto alcune foto a ciò che appare ora del cuscino di suocera, prima del totale disfacimento.
Per quanto riguarda il nome della pianta, il mio libro la chiama "Poltrona spinosa". Il suo nome scientifico è "Echinocactus grusonii", il luogo d'origine il Messico centrale.
Da oggi in poi la chiamerò col nome di "Poltrona spinosa" e non più "Cuscino di suocera", nome dispregiativo certamente per la suocera, non per la pianta. Se avrò la fortuna di diventare anch'io suocera non vorrei essere immaginata seduta sulle spine della mia pianta preferita.

Nietta


giovedì 23 aprile 2009

22 - Mosina è tornata dalle sue avventurose vacanze

Sciacca 23 maggio 2005 lunedì

Mosina, la tartarughina salvata dall’acqua in cui era caduta, annegata e risuscitata, è tornata dalle sue avventurose vacanze durate 13 giorni. Era scappata il 10 maggio scorso e ormai mi ero rassegnata alla sua perdita. Oggi l'ho trovata per caso vicino alla mia casa e per quanto mi lambicchi il cervello non riesco a spiegarmi come abbia fatto a scavalcare il muretto di cemento armato che separa la villetta di mia madre dalla mia. Il muretto è alto 50 cm ed è sormontato da una rete metallica a maglie larghe alta un metro e mezzo. L'unica spiegazione potrebbe essere che si sia arrampicata sui tronchi obliqui delle piante rampicanti appoggiate al muretto, che abbia raggiunto la rete e sia passata da una maglia di quest'ultima. Raggiunto il mio porticato, si è buttata dentro una piccola aiola limitata da un muretto, che non è riuscita a scavalcare. L'ho trovata in quest'aiola, tra le piante grasse spinose. Non l'ho cercata: il caso mi ha spinto verso quell'aiola per estirpare una piantina indesiderata.
Se potesse parlare, quante cose ci racconterebbe di questi suoi tredici giorni di fuga! Forse ho sbagliato a parlare di vacanze. Scavalcato il muro di cemento, non ha incontrato altro che cemento, quello della strada e quello del porticato. Caduta nell'aiola, non ha trovato altro che cactus spinosi, senza un filo d'erba né acqua.
O forse ha trascorso gran parte della fuga nel giardino della mamma, in piena libertà, mangiando le lattughe da me piantate, e solo negli ultimi giorni ha sofferto la fame e la sete nell'arido cemento. Chissa!
Sono contenta che sia viva e in buona salute. L'ho rimessa nel piccolo recinto insieme alla sua compagnetta, dopo però aver rafforzato il perimetro della recinzione, per scoraggiare un'altra pericolosa fuga.

Nietta


domenica 19 aprile 2009

22 - Spenchi

Sciacca 8 aprile 2005

Si chiama così il cane di Mario, mio nipote, trovato cucciolo abbandonato nel bosco di Ficuzza vicino a Palermo. Il pullman, che trasportava alcune classi di bambini in gita scolastica, si era fermato a Ficuzza e il cucciolo era stato raccolto da un alunno di Mario. Era una morbida palla color latte con sfumature miele e faceva tenerezza. Il bambino che l’aveva trovato era risoluto a portarlo con sé e Mario glielo permise, pensando che avrebbe avuto problemi a collocarlo in un’altra famiglia se i genitori del bambino si fossero opposti a tenerlo in casa. Gli precisò che acconsentiva ad affidargli il cucciolo e se i genitori gli avessero negato il consenso, Mario se ne sarebbe preso cura. La sua bontà non gli consentiva che venisse abbandonato per la seconda volta.
Si sa che in un momento di tenerezza può nascere uno slancio affettivo, specialmente nei bambini che non riflettono sulle conseguenze.
I timori di Mario si avverarono quando il pullman dei gitanti fece ritorno a Sciacca.
I genitori del suo alunno non vollero tenere il cane in casa e glielo riportarono. Mario, che al pari del suo alunno si era intenerito per il suo abbandono, decise di tenerlo con sé.
Nei primi mesi di vita lo affidò alla suocera che lo curò con amore, nutrendolo con un biberon da neonati.


Quando fu più grandicello lo portò nel giardino della sua casa, recintato da un’alta rete metallica.
Sono passati due anni e il cane è ormai adulto, ma ancora giocherellone e vivace. Il suo mantello è diventato color miele con chiazze bianche. E’ un bel bastardo, alto poco meno di un pastore tedesco e ha un occhio castano e uno celeste. Mario e la moglie Io trattano come se fosse un figlio.

Spenchi saluta festosamente la sua padrona

Purtroppo, per motivi di lavoro, Mario e la moglie vivono a Palermo e tornano a casa nei fine settimana. Spenchi sta solo tutto il giorno. Io, che abito accanto, lo vedo malinconico accucciato davanti al cancello in attesa dell’arrivo dei loro padroni, i quali, quando fanno ritornano a casa, lo colmano di tante carezze e affettuosità, che il cane si sente ripagato per la solitudine sofferta nella maggior parte della settimana. Talvolta mi capita di sentire le scambievoli effusioni tra cane e padroni e io ne provo piacere.
Nei giorni in cui il cane resta solo, il papà di Mario viene in giardino due volte al giorno per portargli il cibo e controllare la casa.
Stamattina, preoccupato per aver sentito dei rumori nella casa disabitata, venne a bussare alla mia porta perché insieme a Maria Elena andassi a vedere se fossero entrati dei ladri. Dietro il cancello il cane abbaiava non tanto a me, che mi vede spesso e mi conosce, ma a Maria Elena, che ha visto raramente e non riconosce come una della famiglia. Varcato il cancello Spenchi si avventò contro di lei mordendole il braccio.
Per fortuna Maria Elena indossava un cappotto di piumino e i denti del cane non riuscirono a bucare il braccio. Ma lasciarono tre segni viola sulla pelle, senza che fosse uscito del sangue, uno strappo alla camicia e due buchi sulla manica del piumino. Il papà di Mario lo rimproverò aspramente e il cane sembrò capire l’errore. Mentre percorrevamo la stradella che conduce alla casa accarezzavamo il cane per fargli capire che non gli eravamo ostili.
Entrati in casa e controllato che nessun ladro fosse entrato e che i rumori provenivano da una porta lasciata aperta e mossa dal vento, uscimmo fuori e trovammo il cane accucciato dietro il portone ad attenderci. Teneva la testa china e tutte e quattro le zampe erano colpite da uno strano tremore. Guaiva sommessamente mostrando di avere capito l’errore commesso con Maria Elena. Teneva la testa bassa e la coda tra le gambe, quasi aspettandosi una punizione o forse per desiderio di essere perdonato. Maria Elena gli accarezzò la testa ripetutamente chiamandolo per nome. Spenchi smise di tremare, si alzò incoraggiato e scodinzolò la coda accompagnandoci contento fino al cancello. Tutti e tre lo accarezzammo emozionati per la sensibilità mostrata dall’animale.
Nietta

21 - Falce e rastrello

Sciacca 10 marzo 2005 giovedì

Stamattina io e Maria Elena Elena ci siamo alzate prima del solito, alle 5,30, e siamo uscite in anticipo per fare rifornimento di benzina e bere un caffé al bar.
La primavera si avverte anche dalla luce dell'alba. Nei mesi scorsi uscivamo col buio.
Ho fatto amicizia con un cane solitario. La prima volta che mi accorsi di lui, in piazza Saverio Friscia, non capivo perchè fosse fuori a quell'ora senza il padrone. La piazza è quasi sempre deserta all'alba e il cane gironzolava nei paraggi.
Non pensai che fosse un randagio, perché il suo aspetto mostrava buona salute. Solo ora, dopo averlo notato ogni mattina in quest'ultimi giorni, ho capito che si tratta di un cane senza padrone.
Lo chiamai e si avvicinò a me, mansueto, scodinzolando la coda e chiedendo con lo sguardo una carezza. Io e Maria Elena eravamo appena uscite dal chiosco del bar per il caffé e il cane ci seguì fino alla fermata dell'autobus.
Per associazione di idee, pensai alla triste fine di quel cane randagio di Sovareto, di cui avevo scritto la storia. Rivedevo nella memoria come mi apparve l’ultima volta che lo incontrai, il corpo sgangherato, la pelle flaccida che aveva perso il pelo, gli occhi senza sguardo, e pensai ai sensi di colpa che mi avevano punto per non averlo aiutato quando ero ancora in tempo.
Maria Elena mi fece osservare che il cane color miele di Piazza Saverio Friscia non avrebbe fatto la stessa fine. In piazza e nell’ adiacente Viale della Vittoria ci sono una paninoteca, addossata al recinto della Villa Comunale, dei bar, un supermercato, una salumeria. Ci saranno ogni giorno avanzi sufficienti per la sua alimentazione. Mi sentii rincuorata per la sua sorte.

Tornata a casa, il pensiero dell'imminente risveglio delle tartarughe mi ha ispirato l'idea, pensata da tanto tempo, di creare per loro un habitat migliore nel giardino della mamma, che è circondato da un muro, da cui sarebbero protette dagli animali randagi e anche dalla curiosità di bambini malintenzionati di passaggio.

Ho staccato dal muro, a cui era appesa, la mia bella falce e, calzati gli stivali di gomma, mi son messa a estirpare l'erba, bagnata dalla pioggia notturna, aiutandomi con la falce e le mani.
E' la seconda volta che faccio questo lavoro nella mia vita e ho provato lo stesso benessere della prima, due anni fa. Ricordo l'emozione di aver sentito l'odore della terra bagnata, dei finocchi selvatici, quando venivano tagliati, dell'acetosella e dei cardi spontanei . Ricordo che la mia falce risparmiava le belle piante di acanto, che quest'anno sono più numerose e rigogliose per le piogge abbondanti dell'autunno e dell'inverno. Da quando ho imparato a riconoscere l'acanto attraverso un bel servizio televisivo su questa pianta, che cresce spontanea a Siracusa, che gli artisti greci presero a modello per decorare i capitelli corinzi dei templi, io lo guardo crescere nel mio giardino con compiacimento.
Stamattina ho lavorato con la schiena china fino alle otto e un quarto: ho liberato un rettangolo di terra dall'acetosella e dall’avena selvatica, ho spianato col rastrello qualche lieve ondulazione, tolto le pietre, che ho ammassato a ridosso del muro di cinta. Un'ora e mezzo di lavoro in tutto.
Mi sono sentita più sciolta e leggera, certa di aver bruciato un po' di calorie e, spero, anche un po' di colesterolo. Questo lavoro ha fatto bene al corpo e anche allo spirito. "Mens sana in corpore sano" , ci hanno detto i latini, ma bisogna provare per credere. Mi sento bene nel corpo e nello spirito, quasi in simbiosi con i tre regni della Natura.
Il sole sta salendo nel cielo: si prospetta una bella giornata di luce.
Nietta

sabato 18 aprile 2009



(Cliccare sulle foto per ingrandirle)

Sciacca 14 luglio 2003

Vacanze selvagge

Avevo lasciato la mia casa di Ribera per vivere a Sciacca una nuova vita con Giovanni, quando i miei genitori, insieme allo zio Vincenzo, comprarono due piccoli appezzamenti di terreno a Verdura, in riva al mare per trascorrervi l’estate. Il proprietario terriero ci aveva venduto, a un prezzo a noi conveniente, la striscia in riva al mare perché improduttiva. Tutto il suo terreno era coltivato a vigneto e uliveto, anche la striscia a noi venduta; ma questa era danneggiata dall’acqua del mare, che entrando durante le mareggiate, lasciava la salsedine. A lui interessava la terra dal punto di vista agricolo; a noi da quello dei vacanzieri. Tutta la costa di Verdura è tuttora coltivata a frutteti e la spiaggia pietrosa e selvaggia non è mai stata presa in considerazione come zona turistica. Da lunedì a sabato non si vedevano bagnanti. Un po’ di gente si vedeva solo la domenica, quando le altre spiagge venivano prese d’assalto e a Verdura si poteva trovare tanto spazio sia in acqua per il bagno, che sulla spiaggia per prendere il sole.

Verdura 1980

La strada che costeggia la riva, battuta per lo più dai mezzi agricoli dei contadini, è polverosa e a un livello più alto rispetto alla spiaggia. Il livello si abbassa poco prima di arrivare al nostro appezzamento e fino alla foce del fiume Verdura. La zona prende il nome dal fiume che l’attraversa. La massa dei vacanzieri non gradisce Verdura perché deserta, scomoda. Non una casa, non un luogo dove stare all’ombra; non sabbia dove possano giocare i bambini, ma pietre tonde e levigate dalle onde, pietre di tutte le dimensioni, grandi, medie, piccole, piccolissime; bianchissime, come cotte dal sole, ma anche colorate e variegate come il marmo. Una sola costruzione troneggia sulla costa in quel punto più alta sul livello del mare: una robusta torre a pianta quadrata, fatta costruire dall’imperatore Carlo V intorno al 1530, per avvistare i pirati saraceni che infestavano il Mediterraneo. Ora la torre appartiene ad una famiglia che ne ha modificato l’interno, adibendolo ad abitazione per il periodo delle vacanze estive. Io ho visitato l’interno. Le mura molto spesse non fanno penetrare la calura estiva, una scala esterna porta al primo piano, dove c’è un’unica stanza grande quadrata adibita a soggiorno e cucina. Una scala interna porta al piano superiore, dove ci sono le camere da letto.
L’interno non è comodo, ma molto suggestivo, perché diverso dalle normali abitazioni e soprattutto per la posizione alta sul livello del mare, da cui si può ammirare una vista superba. A ovest si vede il profilo di Sciacca, che si affaccia sul mare. Pare di toccarla con un dito. A est si vede il borgo di Seccagrande, oltre il fiume Verdura, luogo di villeggiatura preferito dagli abitanti di Ribera. A nord il profilo frastagliato di Caltabellotta, che si innalza fino a quasi mille metri sul livello del mare. Tale profilo continua fino a formare secondo la mia fantasia la sagoma di un gigante disteso.

Sagoma del Gigante addormentato

Fin da bambina mi pareva di vedere nella linea dei monti un gigante addormentato. In lontananza vedevo la fronte, il naso aquilino, la bocca e il mento. La linea continuava diritta formando la lunghezza del corpo fino ad un innalzamento in cui mi sembrava di vedere i piedi uniti.

Verdura 1980 - Sullo sfondo Caltabellotta

Caltabellotta e le alture circostanti viste dal mare sembravano azzurrine per la lontananza. Il nucleo dell’antico paese si vedeva spiccare bianco come se fosse racchiuso nella conca di una mano.
Di fronte alla torre c’era un vecchio magazzino sospeso sull’orlo della costa, che le onde ogni anno erodevano fino a far crollare la parete che si affacciava sul mare. Il magazzino, che era rimasto con tre pareti, lasciava vedere l’interno con le volte e gli archi.

A qualche metro dal magazzino si ergeva un silos cilindrico, una volta dipinto di rosso, ora scolorito dal tempo, sormontato da un tetto scuro a forma di cappello cinese.

Dei pioli di ferro orizzontali incassati nel muro formavano una scala stretta su cui ci si poteva arrampicare fino al tetto.
A tutti noi piaceva Verdura, soprattutto da quando eravamo proprietari di un pezzo di terra tutto nostro, che subito facemmo recintare con un muro per sottrarci alla vista indiscreta dei rari passanti. Il terreno confinava con un condotto di acqua sorgiva, che attraversava i campi e si versava in mare. In un angolo mio padre e mio zio sistemarono un tetto di canne per creare una zona d’ombra e posero un lungo tavolo rustico per il pranzo. Ai quattro lati del tavolo furono sistemate delle panche rustiche e così iniziò la villeggiatura più bella della nostra vita. Si portò pure una cucina a gas portatile per cucinare il minestrone e un rustico barbecue costruito da un fabbro per arrostire la carne o il pesce.

1980 - Il silos, ora demolito, di fronte alla Torre

Torre di Verdura in un mio dipinto a olio su tela del 1987 - I magazzini accanto sono stati demoliti


Nel tardo pomeriggio, dopo cena, si raccoglievano in una cassetta le stoviglie lavate nell’acqua corrente del condotto e, sistematele nel bagagliaio dell’auto, si riportavano a casa a Ribera. L’indomani mattina si ritornava a Verdura.
Niente radio, o televisione, o telefono, o rubinetti per lavarci; non c’era nulla che ci ricordasse gli agi della civiltà moderna. C’erano soltanto la terra sotto i nostri piedi, il cielo azzurro sulla nostra testa e il mare, ora azzurro, ora verde, ora grigio, a seconda della luminosità del cielo.
Il tempo sembrava essersi fermato alla preistoria.
L’abbigliamento era ridotto all’indispensabile: costume da bagno e copricostume. Dopo pranzo si portavano i piatti da lavare, spesso in riva al mare: si immergevano nelle onde e poi si sciacquavano nell’acqua sorgiva del condotto. Di pomeriggio gli adulti di solito facevano un pisolino distesi su dei materassini a terra; io e i cugini invece esploravamo la costa in cerca di patelle, che in abbondanza si vedevano attaccate agli scogli sott’acqua. Il corpo della patella è una ventosa. Se il mollusco viene sfiorato dalla mano, avverte il pericolo e si attacca tenacemente allo scoglio ed è impossibile staccarlo. Io imparai a coglierlo di sorpresa infilando la lama del coltello rapidamente di sorpresa tra la ventosa e lo scoglio. Le mangiavamo crude, dopo averle sgusciate.
Poi scoprimmo i ricci di mare. Muniti di maschera subacquea, pinne e respiratore nuotavamo sott’acqua tenendo la canna del respiratore fuori, cercando i fondali bassi con i ricci. Avvistatili, ci calavamo nel fondo in apnea e con una forchetta staccavamo i ricci, che mettevamo in un sacco di rete. Era un godimento la pesca dei ricci perché ci permetteva di guardare i fondali bellissimi nella loro varietà, di incontrare pesci singoli o a gruppi. Mi piacevano i fondali coperti di alghe chiare simili alle lattughe tenere; invece quelli coperti di alghe scure ondeggianti come i capelli di una medusa, mi incutevano paura. Immaginavo che potessero nascondere strane creature o chissà quali insidie. Io evitavo sempre i fondali con le alghe scure. Mia cugina invece li cercava perché a suo dire esse nascondevano i ricci più grossi. La vedevo allargare le alghe con le mani e prendere i ricci, che erano davvero più grossi di quelli attaccati agli scogli. Una volta, nuotando tranquillamente su un fondale poco profondo, mi trovai sull’orlo di un precipizio. Il fondale si abbassava all’improvviso apparendo scuro per la profondità. Provai un senso di sgomento e rapidamente tornai indietro, segnalandomi il posto per non tornarci mai più. La maggiore quantità di ricci si raccoglievano in una zona di mare a metà distanza tra la Torre e il nostro terreno. Il punto preciso della spiaggia da cui tuffarci era uno scoglio a forma di poltrona che si intravedeva sotto la superficie. Il fondale all’inizio era un po’ profondo, poi saliva gradatamente fino a un metro e mezzo circa sott’acqua. Lì lo spettacolo era impressionante: i ricci coprivano come un immenso tappeto nero una vasta distesa sottomarina. Non potevamo posare i piedi sul fondo per timore di pungerci sugli aculei. Ne staccavamo con la forchetta tanti contemporaneamente e riempivamo i nostri sacchi a rete, che portavamo a riva. Spaccavamo il guscio con i coltelli o meglio con le forbici e ci apparivano le uova gialle o arancioni raggruppate in forma di stella marina. Che squisitezza! Che scorpacciate! Non potevamo mangiarli tutti, erano troppi.. Alcuni sacchi li portavamo ai familiari che aspettavano i frutti della nostra pesca. Imparammo a distinguere le femmine dai maschi. Questi ultimi hanno gli aculei più lunghi e sembrano più grandi. Apertili e visto che non c’erano uova, capimmo che erano maschi e li lasciammo stare in pace in fondo al mare. I maschi erano pochissimi rispetto alle femmine.
Le nostre giornate trascorrevano intense, a diretto contatto con la natura. A volte lo zio Vincenzo proponeva di esplorare i viottoli di campagna prima del bagno. Le sorprese non mancavano nelle nostre passeggiate. I viottoli erano limitati da rigogliose piante di more, generose di frutti maturi, che raccoglievamo e portavamo direttamente alla bocca. Spesso attraversavamo la pineta. Gli agricoltori del luogo chiamavano impropriamente pineta due filari di pini che si ergevano ai lati di una strada che costeggiava il condotto dell’acqua. Sotto i pini si godeva l’ombra e la frescura. Talvolta si incontravano delle famiglie accampate sotto gli alberi con tende o roulottes con le quali scambiavamo qualche parola.
Un’altra scoperta delle nostre passeggiate furono le chioccioline in letargo, attaccate agli steli delle erbe secche o sulle foglie dei cardi selvatici. Ne raccoglievamo tante e le mangiavamo a cena con l’intingolo di acqua, limone e aglio.
Ogni sera tornavamo a casa, fisicamente stanchi per le nuotate, le passeggiate, le scorpacciate di aria e di sole, ma soddisfatti di quanto la natura ci offriva ogni giorno, senza chiedere niente in cambio.

Dopo alcuni anni le cose cambiarono. Mio padre e mio zio decisero di costruire, ognuno nel proprio terreno, una grande stanza da soggiorno con angolo cottura e un bagno. Così nacquero due casette, una accanto all’altra, senza alcuna licenza edilizia. Io non abitavo più a Ribera con i miei genitori, ma a Sciacca. Mio fratello, che si era sposato cinque mesi prima di me, si era stabilito prima ad Augusta, poi a Siracusa, dove tuttora vive. Ma durante le vacanze estive il luogo di riunione di tutta la famiglia era la nuova casetta di Verdura, con una sola stanza grande, ma con tanto spazio intorno. La sera i miei genitori con mio fratello e mia cognata ritornavano nella casa di Ribera, distante dieci chilometri dal mare, per continuare la serata e per dormirvi la notte. Io ritornavo nella mia casa di Sciacca, distante pure dieci chilometri dal mare, ma in direzione opposta, dove mi aspettava Giovanni. Lui era sempre impegnato con il suo lavoro di avvocato e non poteva passare le giornate a Verdura. Lo faceva soltanto la domenica. Io lasciavo Vedura soltanto per trascorrere all’estero una vacanza di due settimane con lui, nel mese di agosto.
Anche se a Verdura c’era una casa con alcune comodità (la corrente elettrica e quindi il frigorifero e alcuni elettrodomestici) le vacanze continuarono ad avere il sapore selvaggio degli anni precedenti.
Con la nascita di tre bambini, due da me, uno da mio fratello, i miei genitori pensarono che era venuto il momento di ingrandire la casa per evitare di viaggiare ogni giorno e per vivere stabilmente al mare durante l’estate. Si aggiunsero quattro camerette da letto e un altro bagno. Anche i miei zii fecero la stessa cosa, per poter ospitare i loro due figli, anche loro sposati.
Ci ritrovavamo ogni anno a Verdura tutti quanti: nonni, zii, cugini, nipotini.

Da sinistra: Mio nipote Giuseppe, i miei figli Ignazio e Maria Elena in una foto del 1981

La più piccina è Renée



Ricordi di Verdura 25 anni dopo .....

Sciacca 23 marzo 2004 martedì

Lettera a Nella

Oggi la giornata mi sembra strana perché piove, fa un po' di freddo ed io sto a casa senza far nulla. Mi pare strano non far nulla! Sono uscita stamattina con mia madre solo per andare in banca a versare gli assegni che ieri abbiamo ricevuto nello studio del notaio per la vendita del terreno e della casa di Verdura.
Se da un canto la vendita mi è dispiaciuta perché mi pare di aver buttato via un periodo bello della mia vita trascorsa insieme ai miei familiari, dall'altro la ragione mi convince che era inevitabile e che quel luogo, che per tutti noi è stato caro e che sarà trasformato da "Sir Rocco Rorte & Family" in un villaggio turistico, sarebbe stato ugualmente distrutto dalla erosione del mare che da tempo fa vedere i suoi effetti.
Non si può tornare indietro e le fasi della vita sono irripetibili. Restano solo i bei ricordi, le foto, i filmati, conservati nel cassetto. Non soltanto i luoghi, che son fatti di pietre, cambiano, ma anche noi con essi.
Potrei oggi immergermi sott'acqua per ore a pescare ricci con maschera e pinne, come facevo una volta? Non ne avrei più la forza fisica, nè la voglia.
Potrei esplorare i bei fondali di Verdura e incontrarvi i pesci, le attinie, le meduse, le stelle marine, le patelle attaccate agli scogli? Certo che no.
E che dire delle lunghe remate sulla tavola del surf per esplorare la costa più lontano? E delle passeggiate a piedi in cerca di more lungo i sentieri di campagna e di chioccioline attaccate ai cardi selvatici?

Maria Elena dopo una corsa sugli sci

E delle corse dei bambini sulla superficie del mare con gli sci nautici?
E poi, diventati ragazzi, sul Wind surf?

Ignazio sul Wind surf

I bei ricordi del passato mi emozionano, ma non vorrei che si potesse tornare indietro.
Nietta


giovedì 16 aprile 2009

06 - Quando morirà Rossini?

Sciacca 23 giugno 2003

Ecco un’altra storia vera, ma non ancora conclusa.

Prima parte

Alcuni anni or sono, nel silenzio della notte tutti a letto, prima di prendere sonno sentimmo il miagolio incessante di un gattino provenire da fuori. Da alcuni anni non avevamo gatti in casa, né desideravamo allevarne per i danni che arrecano alle cose. Le poltrone di pelle graffiate, le coperte di lana danneggiate e qualche strappo ai lenzuoli, ecc. ne sono ancora un ricordo. Morta l’ultima gatta all’età di tredici anni, avevo deciso che nessun gatto sarebbe entrato nella mia casa.
Sentimmo quel miagolio notturno fino a quando non ci addormentammo. L’indomani, al risveglio, risentimmo il miagolio. Giovanni, che ora non è più tra i vivi, fu il primo ad uscire di casa e lo vide. Ci chiamò per mostrarci la bestiola che aveva pianto tutta la notte. Era una gattina nera di alcuni mesi che si era allontanata dalla sua mamma e non aveva saputo trovare la via del ritorno. Scendemmo tutti giù per vederla. Che tenerezza! Era mite e desiderosa di coccole. Se qualcuno di noi le tendeva una mano, con un saltino lei la raggiungeva per toccarla e farsi lisciare. Giovanni era molto tenero con i gatti e manifestò il desiderio di volerla tenere con noi. Anche a me faceva tenerezza, come tutti i cuccioli, ma non volevo avere più a che fare con i gatti. Arrivammo ad un accordo: avremmo tenuto la gattina all’aperto. Avrebbe dormito nel porticato della casa e scorazzato liberamente nel terreno non recintato che circonda la casa. Anche mia madre, che abita in una villetta di fronte alla mia, accettò il nuovo ospite, non per tenerezza, ma per tornaconto. Mia madre abita in un piano rialzato e teme che i topi possano entrare in casa. La gattina, crescendo, li avrebbe tenuti lontani. Lei anzi si assunse il compito di provvedere al suo nutrimento quotidiano.
Così la bestiola, che fu chiamata Nerina per il colore uniforme del suo pelo, rimase con noi e non pensò di cercare la sua mamma e i suoi fratellini. Era molto affettuosa e destava curiosità il modo di cercare le nostre mani per farsi accarezzare. Come il primo giorno, bastava tendere a distanza una mano verso di lei per vederle spiccare un salto per toccarla. La mano allora si abbassava sulla sua testa e la lisciava ripetutamente. Per farla saltare più in alto tenevamo la mano più lontano. Lo fa ancora oggi.
Dopo alcuni giorni sulla spiaggia di Sovareto incontrai la signora Lina con sua figlia Enza, che abitano in una villetta distante alcune centinaia di metri dalla nostra (anche la spiaggia è vicina). Tra le varie chiacchiere vacanziere divagai sulla gattina nera, che era diventata nostra ospite. Enza disse con sollievo che Nerina apparteneva ad una cucciolata della sua gatta, pure nera come tutti i cuccioli, che l’aveva cercata nei dintorni per alcuni giorni e che si era dispiaciuta di non averla ritrovata. Le promisi che le avrei restituito il cucciolo nella stessa giornata. Dopo qualche esitazione Enza, rassicurata che l’animale stava bene con noi, mi disse che potevo tenerlo.
Dopo qualche settimana, per uno strano gioco del destino, un altro cucciolo capitò nella nostra casa. Giovanni si era recato come ogni mattina nel suo studio legale, nel centro storico della città. Parcheggiava l’auto nella vicina piazzetta Farina da dove la rimuoveva per tornare a casa all’ora di pranzo. Io mi ero attardata nel porticato in attesa che egli rincasasse. Fermata l’auto all’ombra dell’ampio porticato, vedemmo guizzare da sotto un gattino rosso spaventatissimo. Si allontanò di qualche metro da noi e si mise a piangere guardandosi intorno smarrito. Si era nascosto all’interno del motore, saltandovi da sotto l’auto, e vi era rimasto intrappolato fino a quando l’auto non fu giunta a casa nostra.
La curiosa faccenda ci sembrò facile da risolvere: bisognava riportare il gattino nella piazzetta Farina, dove avrebbe ritrovato la sua mamma e i fratellini. Ma la cosa non andò così. A differenza di Nerina, il nuovo arrivato era selvatico e non si faceva avvicinare. Al mio tentativo di prenderlo si aggrappò con le unghie a un tronco di ulivo e si mise in salvo su un ramo. Più tentavo di avvicinarmi a lui e più in alto saliva fino ad arrivare all’ultimo ramo. E ve lo lasciammo, dovendo noi rientrare a casa per il pranzo. Prima o poi avrebbe preso confidenza e saremmo riusciti a prenderlo. Era un maschio della stessa taglia di Nerina. Nei giorni seguenti si ripeterono inutilmente i tentativi per prenderlo. Il gattino mangiava di nascosto nella ciotola di Nerina e così decidemmo di tenere anche lui. Ignazio, mio figlio lo chiamò “Rossini” per il colore del suo mantello.
Nerina e Rossini familiarizzarono presto. Giocavano insieme, dormivano abbracciati, creando un piacevole contrasto di colori (il rosso e il nero), si leccavano vicendevolmente. Mentre Nerina cercava la compagnia umana, Rossini al contrario la schivava. Raggiunta l’età adulta, Nerina rimase di taglia piccola, mentre Rossini era diventato un bel gattone dal pelo morbido e lucido. Durò una sola stagione la bellezza e la felicità di Rossini.
I guai cominciarono quando iniziò il periodo del calore. Nerina, l’unica femmina dei dintorni, attirò tre grossi maschi: uno bianco con la coda macchiata di nero, il secondo bianco a chiazze nere, il terzo nero a chiazze bianche.

Che brutti ceffi! Sporchi e agguerriti iniziarono la battaglia per conquistare Nerina. Nel silenzio della notte si sentivano gli urli di terrore o di difesa. Le battaglie si ripetevano anche di giorno. Io non me ne curavo, fin quando un mattino vidi Rossini conciato male. Aveva uno squarcio nella pelle sotto la gola e una zampa ferita e zoppicante. Mia madre lavò il pavimento della sua veranda, dove c’erano macchie di sangue.

Eravamo tutte e due dispiaciute che il nostro Rossini non si fosse fatto valere e le avesse buscate. Terminate le battaglie, i tre brutti ceffi sparirono, Rossini si curò le ferite e tornò a rifiorire come prima e a giocare con Nerina come fratello e sorella.

Dalla prima battaglia sono passati parecchi anni. Come ogni anno ritornano le stagioni, così le battaglie si ripetono più volte l’anno con le immancabili sconfitte di Rossini, che non si riconosce più. E’ dimagrito, spelacchiato e coperto di cicatrici. Tra una battaglia el’altra non ce la fa a riprendersi. Vive nel terrore. Dei tre brutti ceffi quest’anno è rimasto solo quello nero a chiazze bianche che pare si sia fermato stabilmente nel nostro terreno. Rossini è l’ultimo a mangiare nella ciotola comune i resti lasciati da Nerina e dal Ceffo (ormai lo chiamo così).
Io mi sono presa a cuore la sorte del gatto rosso. Vorrei intervenire per difenderlo, ma non so come fare. Il Ceffo pare che abbia giurato a se stesso di ucciderlo. Calore o non, le battaglie continuano in qualsiasi tempo. Talvolta mi capita di assistere da vicino alla lotta e fremo nella difesa del povero imbelle. Quando mi capitano a tiro apro improvvisamente il rubinetto a cui è attaccato un tubo flessibile e scaglio contro di loro un getto di acqua a pressione per dividere i lottatori che fuggono via. Ma la tregua dura fino a quando io non mi allontano.
Rossini si mette a gridare ogni volta che vede il Ceffo, anche a distanza. Fugge su un albero, ma il nemico lo raggiunge lo stesso. Vorrei trovare una soluzione, che però mi sfugge. Se Rossini morisse al più presto, finirebbe la tortura e ne proverei sollievo. Se morisse il Ceffo non si risolverebbe niente, perché un altro verrebbe a prendere il suo posto e la lotta continuerebbe come prima. Se non ci fosse la femmina Nerina non ci sarebbe lotta e Rossini vivrebbe in pace.
Mia madre, che ascolta le mie apprensioni, mi dice: “Non c’è niente da fare. Lasciamo ai gatti risolvere i loro problemi secondo le leggi di Madre Natura. E’ Lei che ha creato i deboli e i forti e noi umani non possiamo lottare contro le leggi della Natura. Non ha colpa il Ceffo se è più forte e vince; non ha colpa Rossini se è stato creato debole e soccombe e soccomberà sempre fino alla morte.
Mi convinco che mia madre ha ragione e allora mi chiedo: “Quando morirà Rossini?”


Seconda parte

Un giorno affiorò all’improvviso nella mia memoria l’immagine di un gatto, morto da tempo, con un collarino di cuoio irto di chiodi. Glielo aveva messo la sua padrona per proteggerlo dai suoi simili più grandi di lui e prepotenti. Perché non fare la stessa cosa con Rossini? Se ci avessi pensato prima, quante ferite gli avrei evitato!
Senza por tempo in mezzo, presi un cinturino di cuoio dal ripostiglio e vi piantai dei chiodi di acciaio a distanza di un paio di centimetri l’uno dall’altro. Con l’aiuto di Maria Elena, che con pazienza attirò il gatto con i croccantini e con la voce suadente, immobilizzammo il gatto afferrandolo per la nuca e gli affibbiammo il collarino. Pensammo che il Ceffo al primo assalto si sarebbe trovato i chiodi tra i denti e non avrebbe più tentato di molestare la sua vittima. Il collarino chiodato mi sembrò l’uovo di Colombo! Il Ceffo si sarebbe arreso all’intelligenza superiore dell’uomo.
Ora aspettavo il risultato. E il risultato non si fece attendere. Gocce di sangue sul pavimento della veranda mi fecero immaginare il Ceffo con la bocca sfregiata. Invece apparve Rossini zoppicante, la zampa sinistra lacerata e gonfia. Che delusione! Che rabbia per aver sopravvalutato la mia intelligenza e sottovalutato quella del Ceffo! Certamente questo avrà trovato il modo di evitare i chiodi e di colpire alla zampa. Mi vergognavo di aver pensato che avevo risolto il problema della salvezza di Rossini.

Una mattina d’estate incontrai sulla spiaggia la signora Rosaria, che abita in una villetta di Sovareto a un centinaio di metri da casa mia. Mi disse che un gatto rosso stazionava spesso entro le mura del suo giardino. Volendo tenerselo, gli faceva trovare una ciotola di cibo, che il gatto gradiva. Da alcuni giorni però non si faceva vedere nella sua villetta, perciò mi chiese se io lo avessi visto.
Dalla descrizione capii che era Rossini e dissi alla signora che il gatto apparteneva a noi e che mia madre provvedeva alla sua alimentazione. Rimase delusa, ma accettò la situazione, pensando che si sarebbe procurata un altro gatto.
Io invece pensai che Rossini si sarebbe salvato dalle grinfie del Ceffo se si fosse persuaso a rimanere presso la casa della signora Rosaria. Ma come fare a persuaderlo?
Quando vidi con raccapriccio un profondo e lungo squarcio sotto la gola pensai che stavolta non sarebbe sopravvissuto. Lo pensarono anche mia madre e Maria Elena. Se Fosse stato mansueto lo avremmo preso e portato dal veterinario, Solo Maria Elena riusciva ad attirarlo a sé per qualche minuto, ma era impossibile trattenerlo di più. Sarebbe sopravvenuta un’infezione e poi la morte. Col passare dei giorni la ferita si asciugava, ma i lembi restavano distanti oltre un centimetro. Un gonfiore enorme comparso dopo alcuni giorni rese necessario togliere il collarino che lo avrebbe soffocato. Fu di nuovo Maria Elena ad attirarlo e ad immobilizzarlo per qualche secondo, mentre io svelta sganciai il collarino. Rossini terrorizzato scappò via e per parecchio tempo evitò di farsi vedere da noi.
Contro le nostre previsioni Rossini sopravvisse. La ferita sotto la gola lentamente si asciugò e cicatrizzò. Era diventato un brutto gatto. Anche il Ceffo era brutto; anche lui aveva qualche sfregio procuratosi nelle battaglie, ma era sempre vincente e dominatore.

Dovendo io e Maria Elena partire per il Messico nel mese di ottobre, la mamma, che ha quasi ottantacinque anni, si sarebbe trasferita a Siracusa da mio fratello. Occorreva che qualcuno si prendesse cura dell’alimenazione di Nerina e di Rossini. Una mia cugina si offrì volontariamente di venire una volta al giorno a casa nostra a versare i croccantini nella ciotola e così partimmo tranquille.
Tornate a Sciacca, dopo il viaggio in Messico, trovammo Nerina, felice di rivederci e desiderosa di coccole. Di Rossini nessuna traccia. Davanti alla ciotola del cibo si vedevano solo Nerina e il Ceffo. Io pensai che Rossini, non vedendoci più, si fosse trasferito nella vicina villetta della signora Rosaria e che in fondo la nostra assenza era stata per lui la sua salvezza. Il Ceffo aveva vinto la sua battaglia: mancando Rossini rimaneva lui solo padrone del territorio e dominatore. Nerina però non dormiva abbracciata con lui, come faceva con Rossini. Se ne restava sempre in disparte e malinconica.
Nel mese successivo, rincasando, trovai una sorpresa: sdraiato sul muretto del porticato vidi Rossini. Era ben nutrito, florido, rimesso su. Lo chiamai, mi riconobbe, ma non si lasciò avvicinare, come sempre.
Perché era tornato? Speravo per il suo bene che se ne andasse per sempre. Se ne andò e per tanti giorni non lo vedemmo più. Ma la nostalgia della nostra casa o ancor più di Nerina lo ha sopraffatto. Ora vive con noi, dorme abbracciato con Nerina, quando il Ceffo è assente.
Stamattina ho visto una nuova ferita sopra l’occhio sinistro. Forse si è abituato alle botte e anche noi ci siamo rassegnati.


Terza parte

Sciacca 23 aprile 2009

Da oggi sono passati quasi sei anni.
Il Ceffo non si vede più da parecchi anni.
Nerina è scomparsa l'anno scorso.
Rossini è rimasto solo, ma è sempre malconcio.


Ecco come si presenta Rossini oggi 23 aprile 2009


Nietta


Morte di Rossini
Trovato morto nello scantinato domenica 15 novembre 2009

sabato 11 aprile 2009

23 - La libertà è nel DNA di ogni essere vivente

Sciacca 10 maggio 2005 martedì (Lettera a Maria)

Carissima, ogni pomeriggio scendo dalla mamma per una partitina a scopa. Prima di entrare in casa controllo sempre che le due tartarughine, nate lo scorso autunno, Tartina e Mosina, siano nel loro piccolo recinto. Ormai che è primavera le lascio lì anche la notte. Mosina, la più piccina, è più brava dell'altra a nascondersi e mi fa faticare un po' nel ritrovarla.
L'altro ieri, prima della solita partita a carte, guardai nel recinto e vi trovai solo Tartina. Non indugiai tanto a cercare l'altra, sicura che l'indomani, col nuovo sole sarebbe riapparsa.
Ieri tornai a cercarla nella tarda mattinata, quando tutte le tartarughe sono ben sveglie e riscaldate dal sole. Nel piccolo recinto mancava Mosina.
Tolsi l'erba secca sotto cui si nascondono, rastrellai la terra in superficie e non trovai alcuna traccia della tartarughina. C'era qualche punto in cui la rete di recinzione toccava appena il suolo. Bastava scavare un po' sotto per creare un varco per la fuga. Infatti qualche giorno fa trovai Tartina a dormire seminterrata sotto la rete, a metà tra l'interno e l'esterno del recinto. Pensai che Mosina, un giorno salvata dall'acqua che l'aveva quasi annegata, si è scavata un passaggio per la fuga.

Rifletto che la logica umana spesso viene sconfitta da un cervellino che sottovalutiamo. La mamma dice che le tartarughe sono stupide. Pare così perché, a differenza degli animali domestici che capiscono quello che tu vuoi da loro e scendono a compromessi per avere cibo, alloggio e carezze, le tartarughe hanno un ritmo di vita diverso da quello di altri animali vicini all'uomo.
Mosina ha provato la gioia della fuga e della conquista della sua libertà, che è un bene inalienabile per tutti gli esseri viventi. La mia logica dice che Mosina ha rinunziato alla lattuga tenera ogni mattina, all'acqua da bere ricambiata giornalmente, alla protezione del recinto. Tutto il giardino è circondato da un muretto, che ieri ho ispezionato: ho coperto una fessura che lo separa da quello del vicino, ho creato un gradino per evitare che arrivi al cancello, sotto il quale potrebbe passare e andare per strada.
Sono convinta che Mosina sia nel grande spazio attorno alla casa e spero che con le risorse che la Natura dà ad ogni creatura, sopravviva da sola, senza il mio sguardo vigile. E' difficile cercarla e trovarla in un grande spazio, come quello che circonda la casa, incolto e coperto da erbacce che stanno per essiccarsi per assenza di pioggia, ma spero che un giorno la ritroverò. Sono sicura che non potrà uscire in strada, perchè tutto il giardino è recintato da un muretto, ma dovrà affrontare da sola la difficile lotta per la sopravvivenza.
Nietta

12 - L’uva di Nietta

Sciacca 18 agosto 2003, lunedì.

Tanti anni fa i miei genitori avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno a Verdura, in riva al mare, per costruirvi una casetta e dare a noi, figli e nipotini, la possibilità di riunirci tutti insieme in estate a villeggiare.
Il proprietario terriero aveva loro venduto, a un prezzo conveniente, la striscia in riva al mare perché poco produttiva. Tutto il suo terreno era coltivato a vigneto e uliveto, anche la striscia a noi venduta; ma questa era danneggiata dall’acqua del mare, che entrando durante le mareggiate, lasciava la salsedine. Lungo il confine ovest correva un condotto di acqua che gli agricoltori della zona usavano per irrigare le colture. Nel terreno di mio padre c’era qualche ulivo, parecchie canne lungo il condotto e un solo filare di viti. Ma l’uva che pendeva polverosa dalle piante era da mosto, non buona da portare a tavola. Mio padre disse che l’avrebbe estirpato per creare spazio alla coltivazione di ortaggi. Mio padre aveva anche fatto costruire un pozzo e acqua ce n’era in abbondanza: un orticello sarebbe stato utile per uso della famiglia.
L’idea di estirpare le viti mi dispiacque. Dissi a mio padre:
- Perché non tentiamo di innestarvi l’uva da tavola ?
- Non vale la pena chiamare un innestatore per così poco.
- Lascia che tenti io. Ho imparato a innestare le rose. Imparerò a innestare le viti.
Mio padre fece ripulire il terreno dalle erbacce e dalle canne e lasciò il filare al suo posto.
Mi rivolsi a Luigi, mio vicino di casa, agricoltore, il quale mi spiegò che la vite si innesta in modo diverso da come io avevo imparato con le rose e me ne diede una dimostrazione con un ramoscello. Io provai davanti a lui a incidere un rametto, a staccare una gemma da un altro rametto e a incastrarla nella incisione. Provai la legatura con un filo di rafia e ringraziai Luigi della preziosa lezione. L’indomani Luigi mi portò dal suo vigneto alcune marze avvolte in una pezza bagnata. Corsi a Verdura con un coltellino affilato e un gomitolo di rafia e iniziai l’operazione d’innesto sotto gli occhi scettici di mio padre. Legai accuratamente con la rafia ogni gemma innestata, per darle modo di aderire strettamente al cilindro legnoso del ramo portainnesto, e al termine del lavoro andai a tuffarmi in mare per un bagno ristoratore. Nei giorni seguenti spesso controllavo se le gemme fossero vive. Pareva di sì. Dopo una settimana sciolsi i lacci, come mi aveva detto Luigi, e vidi che tutte le gemme che avevo innestato erano gonfie e vegete. Era già una vittoria. Le gemme avevano attecchito e sarebbero diventate nuovi rami, che avrebbero dato frutti diversi. Il mio compito era finito. Ora la natura doveva continuare la sua opera.
Finite le vacanze non pensai più alle viti. Una domenica dell’estate successiva andai a trovare i miei genitori con la mia famiglia. Vi trovai anche mio fratello con la sua famiglia. Era una gioia per tutti, grandi e piccini, ritrovarci insieme. Mi padre mi disse che a tavola ci sarebbe stata una sorpresa per me. Cosa poteva essere? Provai a indovinare. Mio padre sorridendo disse di non arrovellarmi perché non sarei riuscita a indovinare. Giunti alla fine del pasto, mio padre si allontanò dalla tavola e ritornò sorridente con un canestro di uva nera, bellissima.
- E’ questa la sorpresa? - dissi io delusa.
- Sì. Sai da dove proviene quest’uva? – disse mio padre.
- Dal mercato ortofrutticolo – risposi.
- No! L’ho raccolta stamattina dalle viti che tu hai innestato.
Guardavo incredula. I grappoli erano grossi, gli acini neri, gonfi e duri. Il canestro fu messo al centro della tavola perché tutti potessimo ammirare.
- Come si chiama questa qualità d’uva ? – qualcuno chiese.
Nessuno sapeva rispondere.
Mio padre disse: - Chiamiamola “Uva di Nietta”.
I bimbi batterono le mani e chiesero subito di mangiarla. Io volli che prima facessimo una foto ricordo.

Maria Elena, sette anni, raccoglie l'uva

Mio fratello aveva portato con sé la macchina fotografica e immortalammo la mia uva. Io e mio padre ci abbracciammo soddisfatti. Avevo quel giorno provato la gioia della creazione, gioia che si rinnovava ogni estate quando la mamma portava a tavola la mia uva.
Purtroppo il filare non ebbe lunga vita. Un inverno, più burrascoso degli altri anni, il mare infuriato e ruggente invase il campo e formò sul terreno un lago salato. Passarono parecchi giorni prima che la terra si asciugasse. Ormai però la salsedine era penetrata nelle radici e aveva inaridito le piante. All’arrivo della primavera le viti non avevano né foglie né gemme. Erano morte e mio padre non poté più mettere a tavola la mia uva. Che desolazione! Nel campo si erano salvate soltanto le canne, che crescevano rigogliose e invasive più di prima.
Avevo provato la gioia della creazione; ora provavo il dolore della distruzione.
Dell’uva di Nietta rimangono soltanto le foto conservate in un album.

Nietta


17 - Palme da cocco

Sciacca 19-1-05

E' stata un'avventura portare in Italia alcune piantine dal Messico. Non ho portato solo le palme da cocco, ma anche tre piantine grasse, per le quali non mi preoccupo tanto, dato che molte cactacee provenienti dal Messico vivono bene anche da noi. Amo moltissimo le piante grasse e compro tutte quelle che vedo in vendita e che non ho ancora. Nei negozi di piante e fiori di Sciacca non ne trovo più di nuove. Girando per il Messico mi è capitato di vedere le stesse piante che coltivo nei miei balconi.


Se ben ricordo, la prima piantina grassa, dura, con la pelle spessa di colore verde chiaro e con qualche spina nera, la presi da un grosso vaso posto davanti ad un negozio di souvenirs, nei pressi del sito archeologico di Theotiuacan, vicino a Città del Messico. C’erano parecchi turisti che entravano ed uscivano dal negozio, intenti a guardare la varietà di oggetti che venivano offerti alla nostra curiosità e non mi fu difficile strappare un rametto senza farmi vedere e nasconderlo nella borsa. Contenta dell'operazione, entrai anch'io nel negozio, grande e bello da fotografare e filmare per la vivacità dei colori, che mi attraeva più degli oggetti in vendita.

La seconda piantina la presi da un grosso vaso posto sul marciapiede davanti alla vetrina di un negozio a Oaxaca.
La pianta grassa vista davanti al negozio era per me nuova e perciò non me ne sarei andata da quel luogo senza avere strappato una piccola porzione staccabile con le dita.
Mi guardai intorno per assicurarmi che nessuno mi vedesse e, fingendo di guardare con Maria Elena gli oggetti esposti nella vetrina, staccai una pezzetto di piantina, ricoperta di spine morbide e la nascosi in tasca.
La terza piantina la presi in una zona aperta nei pressi del sito archeologico di Mitla, vicino a Oaxaca. Non c'era nessuno vicino a me e staccai una foglia senza alcun problema. Somiglia a una pianta di ficodindia, con le foglie molto più piccole e le spine nascoste in ciuffetti di peluria bianca.
Lasciavo le tre piantine grasse sul davanzale della finestra della camera d’albergo o nel balcone, alla luce, per tutta la giornata.
So per esperienza che le piante grasse resistono per parecchio tempo fuori della terra, perciò ero sicura che sarebbero rimaste in vita per tutto il tempo del viaggio e che le avrei portate in Italia.
Quando si lasciava l'albergo e si partiva per un altro luogo, le piantine, sistemate in un sacchettino di cellofan trasparente con dei fori, viaggiavano con me nella borsa. Nei tragitti in pullman o in aereo avevo cura di tirarle fuori alla luce. Una compagna di viaggio, che un giorno si accorse delle mie piantine, mi disse:
"Non hai sentito cosa ha detto la guida? E' proibito portare all'estero le piante messicane".
Io non l'avevo sentito, perché non sempre ascoltavo la guida, ma le credetti; perciò da quel momento fui guardinga. Negli aeroporti e in aereo tenevo il sacchetto con le piantine nascosto nella borsa, che cercavo di tenere il più possibile aperta per farvi arrivare la luce.

Il giorno prima di lasciare il Messico ci trovavamo a Playa del Carmèn, un villaggio sulla spiaggia tropicale del Mar dei Caraibi, ricca di palme da cocco. Le avevo osservate prima a Palenque e fotografate, cariche dei grossi frutti, che non avevo mai visto prima. Nei nostri giardini vivono bene le palme da dattero, ma i frutti non arrivano a maturazione. Le palme da cocco, a confronto con quelle da dattero, mi sembravano più gentili per il fusto liscio e sottile e i rami più leggeri e flessibili. Mi sarebbe piaciuto procurarmi i semi e provare a metterli in un vaso e non sapevo a chi chiedere come si riproducono.

Noci di cocco all'albero

Nel sito archeologico di Palenque, accaldate e assetate per la temperatura, io e Maria Elena avevamo comprato una grossa noce di cocco.

La venditrice aveva praticato un forellino e infilata una cannuccia perché ne aspirassimo il liquido. Ce n'era tanto che una sola noce bastò a dissetarci tutte e due. Poi la venditrice con un macete scortecciò la noce dalla buccia verde, la spaccò in due e ce la restituì per mangiarne la polpa che, a differenza di quella del cocco che compriamo nei nostri supermercati, è morbida e più sottile, ma dello stesso sapore.

Nel mio giardino e in quello di mia madre ci sono alcune belle palme di due specie diverse. Mi chiedevo: "Se le palme da dattero, che sono piante tropicali, vivono bene nella nostra area mediterranea, perché non dovrebbero viverci anche quelle da cocco?" Poi riflettevo che mai avevo visto nella nostra area palme da cocco. Deducevo che non possono attecchire nel nostro clima. Insomma mi sentivo troppo ignorante in materia di palme. Pensai che al ritorno in Italia avrei fatto qualche ricerca nell'enciclopedia o in qualche altro libro, e che non avrei potuto mai portare una palma da cocco in Italia.
Invece non fu così. La fortuna mi venne incontro e mi offrì l'opportunità di portarmi in Italia ben cinque piantine di noce da cocco. Incredibile!
Gli ultimi due giorni del viaggio, come accennato sopra, li passammo a Playa del Carmèn, nello Yucatàn. Il giardino che circondava l'albergo era ricco di palme che arrivavano fino alla spiaggia. Il clima era molto umido e caldo.
Cercavo di adocchiare qualche piantina che fosse nata ai piedi di una palma. Ce n'era qualcuna, ma troppo grande per poterla staccare. La mattina dell'ultimo giorno vidi a sinistra del vialetto che percorrevamo per andare alla spiaggia, una zona ombrosa (la fitta vegetazione lasciava passare poca luce). Maria Elena, che era con me, mi indicò uno strano animale, della grandezza di un gattino, che sembrava abituato alla vista dell'uomo. L'animaletto andò subito via. Un sedile sotto gli alberi ci invitò a sederci. Mi guardavo intorno per scorgere altri animali. Vidi fuggevolmente delle iguane e poi... ciuffi di fili verdi a poca distanza da me. Guardai attentamente e riconobbi in quei ciuffi delle neonate piantine di palme da cocco.
Erano lì, davanti a me, in un terreno umido e morbido. Non occorreva una zappa. Erano così piccole che bastavano le sole dita per sradicarle. Non feci niente. Quel vialetto era un passaggio obbligato per raggiungere la nostra camera d'albergo. Dopo cena, tornando in camera, ci saremmo fermate in quel posto poco illuminato e avremmo preso le piantine con un po' di terra, senza essere viste da nessuno. Da quando avevo saputo del divieto di portare piante messicane all'estero, mi pareva di commettere un reato. Ma il desiderio di portare a casa mia una di quelle piantine era così forte, che avrei trasgredito la legge messicana.
Di sera, prima di rientrare in camera, sradicai un ciuffo di piantine che si staccarono con le radici integre e le avvolsi in un tovagliolo di carta. Erano cinque. Con un bicchiere di plastica raccolsi un po' di terra e tornammo in camera. Prima di mettere in ordine le valigie per la partenza dell'indomani sistemai le cinque piantine nel bicchiere di plastica avendo cura di coprire le radici con la terra umida.
L'indomani mattina partimmo per l'aeroporto di Cancun, dove un agente faceva il controllo delle valigie. Le mie cinque palme e le tre piantine grasse erano chiuse nel bagaglio a mano. Quando l’agente mi chiese cosa avessi nella borsa, io risposi tranquilla che non avevo niente di particolare. Poi mi chiese:
"Ha frutta? Ha piante?"
Io allibii per la domanda che non mi aspettavo e risposi ancora di no apparentemente con disinvoltura. Mi fece passare senza controllare la borsa e passò a ripetere le stesse domande al passeggero successivo.
Ora le mie piantine sono a casa. Quelle grasse le ho piantate insieme in una ciotola in veranda per averle sott'occhio ogni mattina. Le cinque palme le ho divise in cinque vasetti, che ho collocato in giardino ai piedi di una euforbia, in modo che quando mi affaccio dal balcone o dalla finestra possa vederle subito.

Ora sono passati tre mesi dal viaggio in Messico. Le tre piantine grasse sono vive, ma ancora non hanno messo radici. Delle cinque palme da cocco tre sono morte subito. Le due rimaste sono ancora verdi. Anzi in un uno dei due vasi sono nate due nuove foglioline di palma, come se la piantina avesse germogliato. Ho però il dubbio che le due nuove foglioline siano della palma da cocco. Da una vicina grossa palma tanti datteri secchi cadono a terra e germogliano con la pioggia. Non potrebbero le due nuove foglioline essere nate da un dattero, portato nel vaso dal vento o da un uccello? E' troppo presto per avere qualche certezza.
Mentre scrivo piove e fa freddo. Chissà se le mie palmette, nate nella calda costa dei Caraibi, sopravvivranno a questo inverno?

Nietta


7- Due uova di colomba

Sciacca 25 giugno 2003


La signora Caterina con il marito, entrambi pensionati, in estate si stabiliscono nella loro villetta a Sovareto, vicino alla mia e vicino alla spiaggia, dove ogni mattina vanno a fare il bagno. Sono due brave persone.
Ieri mattina Caterina è dovuta andare nella sua casa di città ed è tornata a suo dire con una “sorpresa”. Mi disse di aver trovato in un vaso del balcone, in cui è piantato un gelsomino, due uova di colomba. Come se avesse trovato un tesoro raro, le ha prese e le ha portate a Sovareto per farle vedere come una curiosità alla sua nipotina di sei anni e a me. Era una curiosità per lei in quanto in vita sua aveva visto solo uova di gallina. Era certa che quelle due uova fossero di colomba perché aveva visto una bella colomba bianca che si aggirava sul balcone intorno al vaso.
“E ora che tua nipote ed io le abbiamo viste – le dissi – riportale nel vaso da dove le hai prese. La colomba sta soffrendo per la loro perdita”
“Cosa vuoi che me ne importi?” fu la risposta.
Uno delle due uova le era scappato di mano e si era lesionato, quindi era rovinato. Non valeva la pena scomodarsi per ritornare in città a restituire l’uovo sano alla colomba.
Io dissi che anche gli animali hanno un’anima. “Soffrono e gioiscono, né più né meno di noi. La loro anima non è razionale, come la nostra, è solo istintiva, ma è pur sempre un’anima, e la colomba sta soffrendo perché hai distrutto ciò che stava costruendo seguendo l’istinto della Natura”.
Mia madre, che era presente e si era accorta che Caterina c’era rimasta male per la mia disapprovazione, spostò il discorso sui gravi problemi che affliggono l’umanità dicendo che la sofferenza della colomba non conta niente rispetto alle sofferenze dei bambini brasiliani, che vivono per strada e muoiono di fame, o di quelli africani, dove la siccità li fa morire per denutrizione. Feci morire il discorso, perché mi sembrava inutile continuare. Le avrei detto che invece di spostare le uova dal nido, avrebbe potuto accompagnare la sua nipotina nella casa di città e fargliele vedere nel posto dove mamma colomba le aveva deposte. Magari allontanandosi dal balcone la bambina avrebbe visto mamma colomba posarsi sulle uova per covarle e così avrebbe assimilato dal vivo una bella lezione dalla Natura. Ha imparato invece che chiunque può strappare le uova dal nido, che all’uomo è permesso tutto e che gli animali non valgono niente. Da grande anche lei farebbe ciò che ha fatto la nonna.
Ma non le dissi niente per non far pesare le mie parole come un rimprovero. Visto che le due uova non servivano più a niente gliele chiesi per cuocerle e darle in pasto alle tartarughe che tengo in giardino. Le sgusciai a malincuore, pensando che quelle due uova sarebbero potute diventare due belle colombe bianche.
Nietta

venerdì 10 aprile 2009

Foto delle mie tartarughe

1 Una coppia di Tartarughe

2 Accoppiamento


3 Tartarughe in acqua


4 Una femmina scava una buca per la deposizione delle uova (fine di maggio)


5 La femmina sta deponendo il secondo uovo


6


7 Deposizione del secondo uovo


8 La femmina sta deponendo il terzo uovo


9


10 La femmina ha deposto il quarto uovo


11


12 Sequenza della deposizione di cinque uova


13 Due uova dissotterrate e poste sulla terra di un vaso per assistere alla schiusa

14 Una neonata


15 Neonata col sacco vitellino ancora aperto e una piega nel piastrone


16 Tartarughe di varia età, messe in fila per la foto


Lettori fissi

Collaboratori