(Scritto dal 20 ottobre 2005)
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Il viaggio in Islanda non è stato programmato e studiato in anticipo, come i precedenti viaggi estivi. Io e Maria Elena desideravamo prenderci una vacanza e visitare un paese straniero per noi nuovo. La mia scelta, approvata anche da mia figlia, era orientata verso i paesi baltici.
Negli anni passati io e Giovanni più volte avevamo tentato un viaggio in quei posti, allora appartenenti all’ U.R.S.S., ma nessuna agenzia turistica ci offriva un viaggio completo: i programmi pubblicati nei dépliants sfioravano qualche capitale baltica, dedicando la maggior parte del viaggio alle capitali scandinave.
A casa avevamo scelto il programma che ci sembrava più interessante, e coincidente con le ferie appena prese da Maria Elena; io avevo cominciato a leggere delle notizie concernenti le nostre mete sulla guida del Touring Club, su una enciclopedia geografica e su alcune riviste, convincendomi via via che la nostra scelta era interessante. Bisognava solo andare in agenzia e prenotare. Sembrava tutto semplice. In agenzia invece apparvero vari intoppi: non c’era posto nell’aereo che da Palermo avrebbe dovuto portarci all’aeroporto di Malpensa, da dove iniziava il viaggio. Il titolare dell’agenzia ci propose di spostare di una settimana la vacanza scelta, ma Maria Elena respinse la proposta per non chiedere altre ferie. Si poteva partire da Catania, anziché da Palermo: due posti in aereo c’erano. Ma il volo partiva di notte e Ignazio, che vive in quella città, si trovava a Milano per motivi di lavoro e non avrebbe potuto accoglierci al nostro arrivo e accompagnarci all’aeroporto. Non sapevamo come districare la matassa. All’improvviso Maria Elena, guardando i coloratissimi dépliants esposti in bella vista per i clienti, posò lo sguardo sull’Islanda e mi disse:” Mamma, andiamo in Islanda”.
Il titolare dell’agenzia immediatamente sfogliò il dépliant, cercò le date, trovò quella giusta per noi e il viaggio fu prenotato senza problemi. Saremmo partiti il venerdì della settimana successiva, 15 luglio, e tornati il venerdì della settimana seguente, 22. Io ero perplessa per il repentino e inaspettato cambiamento; Maria Elena invece era decisa, spinta non solo dalla data del viaggio a lei favorevole, ma anche dalla curiosità di visitare un paese europeo così isolato e diverso dal nostro per clima e cultura.
Tornate a casa ci demmo da fare per documentarci sul paese che la settimana seguente avremmo visitato. Solitamente prima di ogni viaggio ho bisogno di un mese circa di tempo per leggere quanto più libri possibile sulla storia, la geografia, gli usi e i costumi, l’arte, ecc. del paese da visitare. Stavolta avevo pochi giorni, ma sapevo che c’era poco da studiare: c’era solo da vedere e toccare con mano una terra giovane, popolata solo a partire dal IX secolo d.C. Mi vennero in aiuto numerosi periodici, contenenti articoli sull’Islanda, e uno dedicato esclusivamente a essa, ricco di fotografie stupende. Le foto e le descrizioni dei luoghi accesero la mia immaginazione, dandomi l’impressione di aver già visitato quella fredda e lontana isola.
Mettemmo in valigia indumenti estivi per la partenza e il ritorno e altri invernali per il soggiorno, oltre a soprabiti imbottiti con cappuccio, guanti sciarpe, ombrelli, scarponcini e calzettoni di lana.
1° giorno venerdì 15 luglio 2005
Il giorno più pesante e noioso del viaggio, per noi che abitiamo nell’estremo sud dell’Italia, è sempre il primo. Il viaggio partiva da Milano-Malpensa per Reykjavik con volo delle 20,30, ma noi per raggiungere Malpensa dovemmo partire da Sciacca alle sei del mattino per raggiungere l’aeroporto di Palermo, attendere fino alle 12,30 (quasi cinque ore) per arrivare a Malpensa e sostare altre sei ore e mezzo in aeroporto per prendere il volo per Reykjavik. Le ore di attesa oziosa sono estenuanti. Per vincere la noia girammo e ripassamo tutti i negozi dell’aeroporto: Elena comprò due romanzi che iniziammo a leggere. Mangiammo qualcosa comprata al bar e della frutta portata da casa.
Sostavamo in una zona dell’aeroporto dove si sarebbe raccolto il gruppo dei gitanti diretti in Islanda come noi. Provenivano da diverse regioni d’Italia. Tra gli altri c’era un dottore di Ragusa, Di Rosa, con la moglie e una figlia ragazzina. In tutto eravamo ventisei.
Quando salimmo sull’aereo islandese era già trascorsa una giornata.
Dopo mezz’ora indossammo sull’aereo il giaccone imbottito e le calze che previdenti avevamo messo nel bagaglio a mano. Con quel volo lasciavamo il caldo dell’estate per andare incontro al freddo del nord.
Volavamo in direzione del sole, che si vedeva chiaro sopra le nuvole, come se fosse giorno. Maria Elena, vinta dal sonno, dormiva, mentre io guardavo incuriosita il sole che a mezzanotte appariva ancora luminoso sopra le nuvole. Atterrammo all’aeroporto di Keflavik alle ore 0,50 e spostammo di due ore le lancette dell’orologio; perciò in Islanda erano le ore 22,50. La nostra guida, che ci accolse all’arrivo, si chiamava Alberto, uno studente universitario genovese di trentadue anni. Piovigginava. Salimmo su un pullman per raggiungere la capitale, a circa 15 km dall’aeroporto. Durante il percorso vedevamo una distesa pianeggiante tappezzata di muschio verde, su cui spiccava il nastro scuro della strada asfaltata. Pur essendoci ancora la luce solare, come da noi nel tardo pomeriggio, la strada era illuminata dalla luce elettrica dei lampioni. Attraversammo la città addormentata di Reykjavik fino a raggiungere l’albergo. Io e Maria Elena insieme alla famiglia del dottor Di Rosa fummo accompagnati in un altro albergo, non essendoci posto per tutto il gruppo nel primo.
L’autista del pullman, che ci avrebbe accompagnato durante tutto il viaggio, era una bella signora islandese di nome Solveig.
La camera d’albergo era di una sobrietà rara. Un letto a due posti addossato alla parete, senza testiera, senza copriletto, con due piumini bianchi come le lenzuola, un piccolo armadio a due ante bianco di materiale sintetico, un modesto divanetto, qualche sedia e un angolo cottura con alcune stoviglie. Qualche quadretto insignificante alla parete pareva superfluo di fronte a tanta semplicità.
L’esperienza più vivificante della prima notte islandese fu la doccia. Alberto sul pullman ci aveva avvertiti di essere cauti nell’aprire il rubinetto dell’acqua calda, che era geotermale e bollente, e di provare la miscelazione con l’acqua fredda prima di entrare nella doccia.
L’odore di zolfo mi ricordò l’acqua termale di Sciacca, che esce dalle viscere della terra a 70 gradi alimentando la piscina a me nota. La pressione con cui usciva dalla doccia era fortissima e picchiava sulla pelle, facendo scivolar via tutta la stanchezza di una giornata trascorsa nella noia e nelle lunghe attese negli aeroporti. Lo stanzino era saturo di vapore. Non ero mai stata tanto tempo sotto la doccia. La mano scivolava sulla pelle come sul velluto. Il letto, semplice ma confortevole, ci conciliò subito un sonno ristoratore.
2° giorno 16 luglio sabato
Il viaggio iniziò da Reykjavik, percorrendo in senso orario l’unica strada, chiamata N.1, che fa il periplo dell’isola. Il cielo era grigio e piovigginava. La prima sosta fu nel Parco Naturale di Thingvellir, una depressione che segna la spaccatura della placca del continente americano da quello eurasiatico. Questo luogo, a ridosso di una parete lavica, dove c’è un’ottima acustica, fu scelto dai Vikinghi nel IX secolo come sede del primo parlamento.
I primi a raggiungere l’Islanda intorno all’VIII secolo furono probabilmente alcuni monaci irlandesi. In base alla tradizione i primi colonizzatori furono i vichinghi; sul luogo dell’attuale città di Reykjavik il norvegese Ingólfur Arnarson e la sua famiglia fondarono il primo insediamento stabile nell’874. Nei sessant’anni successivi diverse ondate migratorie portarono in Islanda coloni provenienti da diversi paesi nordici, in particolare dalla Norvegia e dalle isole britanniche.
Seduta su una roccia lavica ad ascoltare Alberto parlarci dei primi vichinghi, immaginavo di vederli in quel luogo, ricoperti di pelliccia, seduti sulle rocce nere, addossati alle pareti perpendicolari della faglia, sotto quel cielo plumbeo, discutere delle leggi, approvarle, amministrare la giustizia. Era un luogo poco elevato, dal quale la vista spaziava nella pianura sottostante, avvolta in un velo di nebbia. Non si vedevano le gocce della pioggia, che sembrava polverizzata e sospesa nell’aria. La pianura era un morbido tappeto verde di muschio, macchiato da specchi di acqua superficiale, raccolta nelle conche del terreno o serpeggiante come nastri di colore grigio come il cielo. Poche e brevi file di abeti nani spiccavano sul verde più chiaro del muschio.
Mi piaceva guardare quel paesaggio dalle tinte morbide, malinconico e romantico, tanto diverso da quello assolato e violento della mia terra.
A Thingvellir è proibito costruire case. Si vedono solo una chiesetta e la residenza estiva del primo ministro, con cinque tetti di torba. In esse vengono ospitate le autorità straniere in visita ufficiale al paese.
Si riprese il viaggio verso l’interno, desertico e disabitato, con direzione Nord. La strada era di terra battuta, dove non si incontrava nessuno. C’eravamo solo noi, piccolo gruppo di 28 persone, compresi il nostro accompagnatore e l’autista. Unica vegetazione i muschi, di cui esistono 40 varietà. Il pullman sostò un poco nella zona desertica di Kaldidalur da dove si vedeva nello sfondo il ghiacciaio Langjökull. Riconobbi il paesaggio che si presentava ai nostri occhi, per averlo visto in una foto che occupava l’intera pagina di una rivista sull’Islanda, che avevo letto a casa e che mi aveva colpito. La terra era una distesa pietrosa di colore marrone scuro; in lontananza spiccavano le montagne dalle diverse sfumature di colore, dal blu, al celeste al violetto con chiazze bianche di ghiaccio. Nessun filo di verde. Il cielo nuvoloso con varie sfumature di grigio, più chiaro dove si nascondeva il sole. Vicino alla strada si innalzava un cumulo conico di pietre, che una volta serviva da segnavia. Oggi il cumulo viene accresciuto dai turisti, che deponendo una pietra sulle altre, come si usa nei paesi scandinavi, si augurano di tornare sul luogo. Pensai alle monetine che i turisti gettano nella fontana di Trevi con lo stesso augurio.
Riprendemmo la strada fino ad arrivare in un posto di ristoro per il pranzo. Nell’interno del paese non si incontrano villaggi, né alberghi o ristoranti, né islandesi. Lungo il percorso turistico si incontra qualche posto di ristoro isolato, piccolo, a conduzione familiare, dove un passante può prendere una bevanda, fredda o calda, o sedersi in un tavolo dove consumare il pranzo, ordinato preventivamente. In un angolo dell’unica sala si trovano esposti i souvenirs, per lo più i pesanti maglioni, berretti e guanti, fatti a mano, con i tipici disegni geometrici colorati. Gli unici islandesi incontrati erano i componenti della famiglia, che vive isolata nella fattoria accanto, dove si vede qualche attrezzo agricolo e un trattore, usato per la coltivazione del foraggio per le pecore e i cavalli. L’erba viene raccolta in rotoli e coperta da plastica bianca per non farla marcire.
Ripreso il viaggio dopo il pranzo, vedevamo dal pullman grandi distese verdi punteggiate di balle bianche, tenute all’aperto. Le pecore, che in Islanda sono numericamente il doppio degli uomini, era raro vederle. Perché? Dove erano? Mi aspettavo di incontrare grandi greggi guidate dai pastori, come talvolta mi è capitato di incontrare nei nostri posti! Niente di tutto questo. In estate vengono lasciate libere, in uno spazio senza recinti, senza confini, in una terra dove non c’è la buia notte, a pascolare l’abbondante e fresco muschio.
“Ecco le pecore!” – esclamava qualcuno sul pullman, quando ne avvistava tre.
“Hanno le corna!” – qualcuno metteva in rilievo.
Non avevo visto mai pecore con le corna. Di tanto in tanto incontravamo sul bordo della strada un gruppo di tre pecore.Erano sempre in tre: la mamma con due agnellini. Gli allevatori islandesi, nella stagione delle nascite, lasciano in vita due agnellini per ogni pecora. La mamma pecora in libertà vaga per gli immensi spazi disabitati, ma ricchi di pascolo, seguiti dai due agnellini che allatta. Non esistono greggi in estate. In autunno, prima che la terra venga avvolta dal buio e dai ghiacci, i pastori con i cavalli cercano tutte le pecore in libertà con i loro agnellini e li radunano in luoghi chiusi, dove passeranno la lunga notte invernale.
Il tempo continuava a essere piovigginoso, con una luce sempre uguale, l’aria pungente. Ricordo che per il freddo stentavo a muovere le labbra per pronunziare correttamente le parole.. Sostammo presso la Cascata della lava e la Cascata dei bambini.
Non ricordo il significato del nome della prima cascata. Quello della seconda è legato ad una storia del luogo. Due bambini una domenica erano stati lasciati a casa soli dai genitori, che erano usciti per andare a messa. Al ritorno i bimbi non c’erano più. Dopo tante ricerche furono trovati morti nelle acque della cascata.
Interessante fu la successiva sosta presso le sorgenti geotermali di Deildartunghver. Nuvole di vapore a 100 gradi uscivano dalle crepe del suolo roccioso, mentre dal cielo scendeva una pioggia minuta e sottile. Era il primo fenomeno geotermale che vedevo. Il sito delle sorgenti era delimitato da basse transenne per evitare che turisti incauti o curiosi potessero scottarsi. A tutti faceva piacere allungare le mani infreddolite verso quel calore che proveniva da chissà quali profondità della terra. Le rocce bagnate dal vapore avevano i vividi colori del rosso, del giallo e del verde, a secondo dei minerali da esse contenuti.
Riprendemmo il percorso ancora nella strada di terra battuta, ad un certo punto sbarrata da un fiumiciattolo, per attraversare il quale bisognava passare un ponticello rustico, adatto a pochi passanti per volta. Non ebbi il tempo di riflettere come il pullman avrebbe superato l’ostacolo, quando Solveig, la nostra autista, sterzò a sinistra, scansando il ponte, dirigendosi verso il fiume, dove l’acqua era più bassa e lo guadò, riprendendo la stradina di terra battuta e lasciando il ponticello alle nostre spalle.
L’ultima meta della giornata fu il paesino di Saudárkrókur (2.000 abitanti), nello Skagafiördur per la cena e il pernottamento.
Imparai che in Islanda esistono solo due città: Reykjavik, la capitale, a sud-ovest, con 180.000 abitanti, e Acureyri, a nord, con 14.000 abitanti.
Gli altri centri abitati sono villaggi con poche famiglie, fino a un massimo di 2.000 persone. Gli alberghi si trovano nelle sole due città. Nei grossi villaggi, come Saudárkrókur, i convitti vengono utilizzati in periodo estivo come alberghi per ospitare i turisti. Dopo il primo pernottamento nella capitale, un convitto fu il nostro secondo albergo. La cameretta assegnata a me e a Maria Elena era molto piccola. I piedi del letto a due posti arrivavano a mezzo metro dalla parete di fronte, su cui era attaccata una scaffalatura pensile, unico spazio dove posare gli oggetti e il vestiario. Il bagno era un bugigattolo, formato da un lavandino così piccolo che il getto del rubinetto arrivava a pochi centimetri dal bordo. Non era facile lavarsi i denti senza fare uscire l’acqua dal bordo. In compenso la doccia, anche se piccola, era favolosa per l’enorme getto di acqua calda sulfurea, che si poteva utilizzare senza risparmio, con una sensazione di benessere che non si prova con una comune doccia. La nostra stanza era quella di due studenti a noi sconosciuti, certamente biondissimi, alti e rosei, col naso all’insù, come avevo notato nelle poche persone incontrate nei posti di ristoro. La sera la cena ci fu servita da due bellissimi ragazzini che, piuttosto che trascorrere le vacanze estive nell’ozio, si adoperavano a servire ai tavoli per guadagnare dei soldi. Erano premurosi, un po’ impacciati, perché quel lavoro non era il loro mestiere.
Dopo cena non c’era dove andare. Qualcuno aveva proposto di fare quattro passi fuori dell’albergo-convitto, tanto per non andare a letto presto, ma il freddo pungente della sera scoraggiò tutti. I più coraggiosi, che non temevano il freddo, tornarono dentro dopo aver fatto pochi passi.
Vorrei fermare un po’ l’attenzione sull’abbigliamento delle persone del gruppo. La famiglia del medico di Ragusa fu la più sprovveduta. La moglie e la figlia indossavano sull’abbigliamento estivo una giacca a vento imbottita e non patirono il freddo; ma il medico non portò con sé neanche un pullover di lana. Sugli indumenti estivi indossava soltanto un leggerissimo giubbotto a vento e si lamentava per il freddo patito. Colpevolizzava la moglie che lo aveva trascinato in un paese così freddo, lui che non amava salire neanche sull’Etna, dove la temperatura è più bassa per l’altitudine. Egli medico, la moglie professoressa, la figlia studentessa liceale: nessuno dei tre aveva mai letto in un libro di geografia il clima dell’Islanda?
E che dire della moglie di un imprenditore del nord che aveva messo in valigia alcuni abiti eleganti, da indossare la sera a cena? In un ambiente così spartano, dove la parole che significano inutile e superfluo forse non esistono nel dizionario islandese, come erano ridicoli i suoi tacchi a spillo e le magliette scollate e luccicanti!.
Io e Maria Elena e le altre persone del gruppo avevamo indovinato i capi di abbigliamento, tutti sportivi, caldi, comodi.
3° giorno 17 luglio domenica
Non si pernottava mai nello stesso posto, perciò ogni mattina bisognava mettere in ordine le valigie, chiuderle e portarle davanti al bagagliaio aperto del pullman. Solveig, che aveva un fisico robusto, pensava a caricarle a bordo. Era gentile e disponibile. Peccato che fosse impossibile comunicare con lei. Io talvolta le esprimevo la mia simpatia con un sorriso o con un gesto e scattandole qualche foto per ricordo. Alberto, che conosceva bene l’islandese, conversava correntemente con lei ed io, che preferivo stare sul pullman in prima fila per poter fare le riprese con la telecamera, ascoltavo volentieri quella lingua, mai sentita pronunziare prima, senza capire nulla.
La lingua islandese è quella antica dei vichinghi norvegesi (norreno), che è rimasta pura nel tempo grazie alla posizione geograficamente isolata del paese e alla forte tradizione letteraria. Mentre nella Scandinavia la lingua originaria si è evoluta nel corso dei secoli, dando origine allo svedese e al norvegese e al danese, la lingua islandese è rimasta quella originaria, sicché ancor oggi i lettori moderni non hanno grandi difficoltà a leggere l'Edda (raccolta di 29 carmi in antico islandese) e le saghe medievali (lunghi racconti in prosa di argomento epico-avventuroso con l'introduzione di elementi fiabeschi).
La politica linguistica adottata nel XVIII secolo impedì l'introduzione di parole straniere; perciò termini tecnici e scientifici internazionali vengono tuttora espressi con composti di parole islandesi; inoltre vengono recuperati termini arcaici e vengono creati neologismi su radici di parole islandesi. L'alfabeto latino fu introdotto con il cristianesimo verso l'anno 1000, ma furono conservati gli antichi caratteri runici ð (eth, equivalente a th sonoro) e þ (thorn, indicante th sordo), così come æ e ö.
Ammiro l’amore del popolo islandese per la propria lingua e le proprie tradizioni culturali, che mi fa riflettere su quanto avviene invece nella nostra lingua, che si è imbastardita con l’afflusso di vocaboli ed espressioni straniere, per lo più inglesi. Non c’è articolo di giornale che si possa leggere scorrevolmente per l’intoppo di innumerevoli barbarismi, che si incontrano. Eppure esistono nella nostra lingua le parole equivalenti! Dovremmo tenere a portata di mano un vocabolario inglese, anziché quello italiano, per non rischiare di non capire nulla o in modo approssimativo.
Gli islandesi conservano gelosamente sia la razza dei loro cavalli che la loro lingua originaria.
Saudárkrókur è il nome del paese nel cui convitto avevamo pernottato e che ci apprestavamo a lasciare, non senza sostare prima nel porto peschereccio su un fiordo del Mar Glaciale Artico (Skagafiördur). La mattinata era grigia, ma senza pioggia. Numerosi pescherecci erano fermi nel porto, mentre sulla spiaggia una notevole quantità di merluzzo senza testa pendeva dagli essiccatoi.
Le teste, che pendevano da essiccatoi separati, sono utilizzate per ricavarne farina per l’alimentazione animale. Alberto ci spiegava che la pesca e l'industria di trasformazione ittica rappresentano la maggiore risorsa economica del paese e permette agli abitanti uno dei redditi più alti di Europa: circa il 20% della popolazione attiva è occupato in questo settore.
I ciottoli della spiaggia erano neri, come pure la sabbia del bagnasciuga per la loro origine vulcanica; il mare era di colore azzurro spento, tendente al grigio, perché il cielo era grigio. Raccolsi dalla spiaggia tre pietre per portarmele a casa come ricordo. Nel lasciare il paese Alberto, che conosce bene l'Islanda per esserci stato ben sette volte, ci raccontava come i giovani trascorrono le sere d’inverno: percorrono in auto, avanti e indietro, la strada principale che costeggia il mare. Comodamente seduti in auto e al caldo, si incontrano, fermano l’auto, aprono i finestrini e conversano e poi ripercorrono la stessa strada, fermandosi nuovamente all’incrocio con altri amici, sempre rimanendo dentro l’auto. Si capisce perché fanno così: il freddo glaciale non consente di passeggiare a piedi all’aperto e di fermarsi a conversare.
La porta interna, con gli infissi di legno, è degna di attenzione: i chiodi sono anche di legno e sia i cardini che i ganci sono di legname alla deriva. Nelle pareti del corridoio sono infilate delle lampade di olio di balena, che venivano accese per illuminare i passaggi nelle grandi occasioni e nelle feste religiose.
La cucina è il vano più antico, costruito nel 1750, ed ha funzionato per tutto il periodo di vita della fattoria fino al 1950, anche se negli ultimi anni veniva usata solamente per la preparazione del sanguinaccio e come lavanderia. Inoltre si usava per affumicare gli alimenti: la carne veniva appesa nelle travi e ivi affumicata. Il legno dell'intera fattoria si è mantenuto intatto, proprio a causa del fumo e della fuliggine che lo hanno protetto dalla muffa, e del calore proveniente dal focolare, che lo ha essiccato. Le travi più antiche sono state ora sostituite da altre più recenti. La materie utilizzate per produrre calore erano la torba e gli escrementi di ovini,
La stanza più interessante è il soggiorno. contemporaneamente sala da pranzo, sala di soggiorno, bottega e dormitorio della famiglia, luogo in cui si cardava, si filava, si faceva la maglia, si follava, si tesseva e si cuciva. Ognuno sedeva nel proprio letto ed alla fine della giornata di lavoro i ragazzi si coricavano nel letti alla destra dell'entrata, e le ragazze nei letti sotto le finestre.
Il soggiorno di Glaumbær, costruito nel 1876, contiene 11 letti, simili a dei cassetti di legno, tutti attaccati in fila a destra e a sinistra della stanza, con uno stretto passaggio tra le due file: dato che per ogni letto potevano dormire anche due per volta, c'era posto per 22 persone nella stanza, quando ce n'era bisogno. Durante le lunghe notti invernali, si lavorava al lume delle minuscole lampade ad olio, mentre un membro della famiglia leggeva racconti o recitava poesie. Ogni tanto giungevano cantastorie itineranti, che raccontavano storie per la famiglia.
Quando arrivava il momento di dormire, le persone si toglievano i soprabiti, e, rimanendo vestiti, si infilavano sotto le coperte di lana e il caldo piumino, di produzione locale. Ogni letto aveva la sua sponda, spesso intagliata, che di giorno veniva appesa alla parete e poi rimessa davanti al letto, per tenere ferme le lenzuola al loro posto.
Non essendoci riscaldamento nella stanza, il calore proveniva soltanto dalle persone stesse, e si manteneva costante, grazie al perfetto isolamento che la costruzione in torba forniva.
Nel soggiorno si conservano oggetti utilizzati per la lavorazione della lana, arcolai, pettini, fusi e seggiole, astucci per i ferri e altro.
Nelle masserie si conservano botti per la conservazione del sanguinaccio e del latte fermentato.
Le spazzole per lavare i recipienti e le funi erano di crine di cavallo.
All’interno del soggiorno e della camera degli ospiti le pareti di torba e il soffitto erano coperte da assi di legno, mentre in cucina e nelle masserie le pareti di torba erano scoperte e sorrette da travi di legno.
La stanza detta “gusa” (cioè spruzzo) veniva usata come camera da letto, studio o per abitazione. Il nome deriva da un'antica leggenda: tanto tempo fa abitava a Glaumbaer una vecchia stizzosa, la quale, quando era di cattivo umore, apriva la porta e svuotava il suo orinale sui vivaci bambini, che passavano per il corridoio. Durante i lunghi inverni, il prete era solito insegnare al bambini le lettere in questa stanza.
Mi è difficile immaginare come si potesse vivere il lungo e buio inverno artico in un ambiente più simile ad una tana sotterranea, con poche finestre e piccolissime, per non disperdere il calore, in tante persone a stretto contatto di gomito.
Oggi quasi tutte le abitazioni sono riscaldate da impianti che utilizzano le abbondantissime sorgenti naturali di acqua calda.
A pochi passi dalla fattoria c’era una casa gialla, adibita a posto di ristoro per i turisti. Tutte le case islandesi, sono di legno rivestito di lamiera verniciata con tinte vivaci
Nella casa gialla a primo piano un banco esponeva dolci e torte preparati in casa. Una scala di legno portava al piano superiore, dove c’era una stanza adibita a museo, in cui si mostravano mobili, suppellettili, capi di vestiario, ritratti dei secoli passati, ecc.
Riprendemmo la strada n.1 che costeggia i fiordi per raggiungere la vicina Acureyri, un po’ sotto il Circolo Polare Artico, seconda città dell’Islanda con 15.000 abitanti. Si trova nel fiordo di Eyjafiordur, sul Mar Glaciale artico. Lungo il viaggio il paesaggio si presentava arido; le montagne rivestite di muschio e velate dalla nebbia.
Arrivammo alle 12,30 e avevamo quattro ore di tempo libero. Sul pullman Alberto aveva proposto al gruppo di trascorrere qualche ora in uno stabilimento geotermale, con varie piscine dove l’acqua veniva mantenuta a diversi gradi, crescendo dai 30 fino ai 40 gradi. Ne parlava in modo entusiastico: egli avrebbe trascorso lì il tempo libero e convinse il gruppo a seguirlo nelle piscine. Aggiunse che era rigorosamente obbligatorio farsi la doccia nudi davanti a tutti, per mostrare di aver lavato bene la parte intima. A questo punto un “oh” di disappunto si levò in coro nel pullman. Il senso del pudore smorzò l’entusiasmo appena nato per un bagno caldo in piscina. Coloro che subito avevano aderito alla proposta si mostrarono perplessi. Alberto si girò verso di noi sorridendo divertito. Si aspettava la nostra reazione. Chissà quante volte l’aveva sentita nel suo lavoro di guida agli italiani! Tornò alla carica precisando che gli spogliatoi erano divisi per uomini e donne. Pausa di riflessione. Alcuni dissero di volere andare, altri che ci avrebbero pensato. Scesi dal pullman, tutti seguirono Alberto. Io e Maria Elena ci dissociammo, preferendo girare per la città, dopo aver consumanto un pasto in un ristorante del centro. La piscina geotermale l’abbiamo a Sciacca e bagni ne abbiamo fatti tanti. Preferivamo andare in cerca di nuove emozioni.
Era domenica, ma gran parte dei negozi erano aperti. Eravamo desiderose di comprare qualcosa di tipico del paese da portare a casa in ricordo del viaggio. Ma nulla meritava di essere acquistato. I souvenirs erano paccottiglia; i pesanti maglioni islandesi, vantati in qualche rivista che avevamo letto a casa, erano grossolani e non indossabili col nostro clima. Lo erano pure berretti, sciarpe, guanti e calzettoni. Mentre curiosavamo nel negozio, la proprietaria sferruzzava dietro il bancone. Tutti gli indumenti di lana esposti nei negozi sono lavorati a mano dalle donne islandesi. Non comprammo nulla, ma ci divertimmo a fotografare vari maglioni, nell’eventualità che, tornate a casa, ci venisse voglia di riprodurne uno con i caratteristici disegni geometrici, utilizzando però un filato più sottile e morbido.
Esaurito il giro dei negozi e consumato un pranzo leggero in un ristorante del centro, ci avvicinammo al porto, dove sostavano alcune navi da crociera. Da lì, alzando lo sguardo, si vedeva la cattedrale luterana in stile moderno sulla sommità di un’altura. Salimmo la lunga scalinata e ci fermammo davanti alla cattedrale a guardare il panorama sottostante. Lo sguardo abbracciava tutta la città e il fiordo.
Per la prima volta vedemmo degli alberi in un parco intorno alla chiesa. La posizione di Acureyri, riparata dai venti gelidi artici, consente la vegetazione di alberi di modesta altezza e un piccolo orto botanico.
Il nostro abbigliamento era decisamente invernale, adatto a ripararci dall’aria pungente. Entrammo nella cattedrale, di modesta ampiezza e spoglia di ornamenti, e dopo un breve riposo sedute su un banco, scendemmo la scalinata fino alla piazza del centro. Ci piaceva fotografare le case, dall’architettura diversa dalla nostra. La maggior parte di esse erano rivestite di lamiera dipinta: se i colori erano forti (rosso scuro, blu) i tetti erano chiari; al contrario, se le pareti erano chiare, i tetti erano dipinti di rosso o di qualche altro colore forte. Incontrammo alcuni del nostro gruppo, che ci fermarono dicendo: “Non vi ho visto nelle piscine! Non sapete cosa vi siete perse! “ Una anziana signora milanese, piccolina e arzilla, ci spiegò la meraviglia delle piscine: “Dapprima siamo entrati in quella con l’acqua a trenta gradi, poi nella successiva con l’acqua a trentacinque, poi a trentotto e infine a quaranta gradi! Ci stavamo cuocendo!” Io spiegai che a Sciacca, dove noi viviamo, abbiano una grande piscina con la stessa acqua meravigliosa e avevamo preferito girare per la città alla ricerca di immagini nuove e per fare un giro per i negozi.
Ma le nostre aspettative erano andate deluse, non essendoci tanto d’interessante da vedere, e niente da comprare. Per passare il tempo che ancora ci rimaneva rifacemmo il giro degli stessi negozi. In uno incontrammo il dottor Di Rosa intento a provare delle giacche di lana o imbottite perché, sprovvisto com’era di indumenti invernali, si stava rovinando la vacanza a causa del freddo. La circonferenza della sua pancia era tale che nessuna giacca gli andava bene. Si sentiva goffo e impacciato. La moglie lo aiutava a sfilarsi gli indumenti che provava, mentre la figlia guardava perplessa. Infine non comprò nulla. Forse pensava che, tornato in Italia, non avrebbe più utilizzato una di quelle giacche costose e quindi non valeva la pena spendere denaro per pochi giorni di viaggio. I prezzi in Islanda erano molto più cari dei nostri e la qualità inferiore. Preferì patire il freddo, forse sperando che nei giorni seguenti l’avaro sole si sarebbe scoperto e lo avrebbe riscaldato! Io e Maria Elena aguzzammo lo sguardo sugli oggetti esposti sui banchi o nelle vetrine: ci pareva impossibile non provare la gioia di acquistare un oggettino anche da nulla, ma gradevole, da portare in Italia. Nella nostra grande casa a Sciacca ho creato degli angolini per ricordare i nostri viaggi: c’è l’angolino cinese con i draghi di legno, le statuine dell’esercito di terracotta, un quadro con il mio nome scritto con i caratteri cinesi, un altro con le banconote incollate in bella mostra su uno sfondo di carta bianco, ecc. C’è la zona del Messico, con le pelli dipinte di Palenque, le statuette di ossidiana di Teotihuàcan, o di terracotta di Monte Albàn, ecc. Tralascio l’elenco di altri innumerevoli oggetti comprati in viaggio, sparsi in tutta la casa e che guardo sempre con piacere. Tra tutti avrei avuto piacere di collocare in un angolino almeno un oggetto che mi ricordasse l’Islanda, ma mi rifiutavo di ricomprare paccottiglia. La cosa che suscitò in me una certa emozione fu vedere nell’espositore dei libri, un volume del premio Nobel 1955 per la letteratura, Halldór Laxness. Avevo letto il libro parecchi anni prima, preso in prestito alla Biblioteca Comunale di Sciacca. L’avevo preso a caso dallo scaffale in cui erano raccolti tutti i premi Nobel per la letteratura e mi aveva tanto interessato. Se ne avessi avuto il tempo l’avrei riletto prima della partenza per l’Islanda. Sarebbe stato il miglior oggetto che avrei potuto comprare come ricordo, se fosse stato scritto in italiano. Lo rigiravo tra le mani, fissando la foto dell’autore sulla copertina e poi lo riposi sul banco, dopo aver pregato Maria Elena di scattarmi una foto con il libro in mano.
Ecco l’emozione più gratificante provata ad Acureyri.
Tornata a Sciacca, ripresi subito in prestito il volume, contenente il romanzo Salka Walka, ed altri racconti, in tutto 700 pagine, e lo rilessi in pochi giorni con uno spirito nuovo. Il libro che avevo letto prima del viaggio mi faceva immaginare con qualche perplessità i luoghi, la vita e i sentimenti dei personaggi, l’ambiente. La rilettura invece mi fece rivedere i fiordi che avevo visto, l’atmosfera plumbea e piovigginosa in cui gli islandesi vivono la maggior parte dell’anno, il duro lavoro della pesca e della lavorazione del pesce. Pagina dopo pagina mi pareva di sentire l’odore del pesce, il vento gelido penetrare nelle ossa e di vedere la casa della protagonista Salka Walka, simile alla fattoria di Glaumbær, con le pareti di torba, senza il riscaldamento moderno.
Ammiro gli islandesi per il coraggio di vivere in una terra avara di ogni cosa, impossibile da dominare, a cui si sono assoggettati per sopravvivere e penso a quanto siamo fortunati noi del Mediterraneo a godere del calore e dello splendore del sole, della luce sfavillante, del profumo dei fiori, del sapore dei frutti, del mare caldo d’estate, delle stelle della notte, che lassù in estate la luce impedisce di vedere. La piazza di Acureyri era adorna da grosse ciotole di fiori multicolori, non nati e sbocciati sotto il cielo, ma nel chiuso delle serre riscaldate artificialmente.
Ormai, nella seconda e ultima città dell’Islanda non c’era nulla da scoprire. All’orario stabilito salimmo tutti quanti sul pullman e ci lasciammo il fiordo alle spalle.
Dopo circa tre quarti d’ora di strada Alberto ci fece scendere presso la Cascata degli Dei (Godafoss). La temperatura ci sembrava ancora più bassa: un vento gelido indolenziva le labbra e le mani. Avrei potuto mettere i guanti di lana che tenevo nella tasca della giacca, ma non lo feci per non essere impedita nelle riprese con la telecamera e nello scattare le foto.
Una storia del luogo, scritta in un tabellone in varie lingue, che io lessi dal francese, mancando la traduzione italiana, racconta che nell’anno 1000, il capo della regione di Ljósavatn, sul quale incombeva la responsabilità di decidere se gli islandesi dovessero adottare il cristianesimo, tornato da una seduta del Parlamento, dove ora c’è il Parco Nazionale di Thingvellir, visitato il primo giorno, fece accettare ai suoi compatrioti la nuova religione. Rientrato nella sua regione, gettò le statue delle divinità pagane nella cascata. Il nome di Godafoss (La caduta degli dei) deriverebbe da questo avvenimento.
Proseguimmo il viaggio per raggiungere l’albergo con la nebbia e la pioggerellina. Il gruppo si divise per mancanza di posti nell’albergo-convitto del paesino di Laugar; io con Maria Elena e la famiglia Di Rosa alloggiammo in una bella fattoria agrituristica non molto distante da Laugar, gestita da una famiglia che viveva nella stessa costruzione, trasformata in alberghetto.
Ricordo bene la stanza, a piano terra, grande, semplice, con due finestre rettangolari basse, da cui si vedeva il verdeggiante panorama e una vasca all’aperto piena di acqua sulfurea calda a pochi passi dalle nostre finestre. Accanto gli spogliatoi. Vedemmo immersi nella vasca fumante due coniugi, che non si curavano della pioggerellina e del freddo dell’aria.
Ricordai che anch’io nel mese di dicembre avevo fatto parecchi bagni nella piscina di Sciacca, quando ancora era a cielo aperto (ora è coperta da pareti e tetto apribili), provando una incredibile sensazione di benessere. L’acqua, mantenuta ovviamente più calda nei mesi invernali, era così avvolgente col suo calore protettivo, che il freddo dell’aria esterna non riusciva a penetrare. Nessun brivido provavo nell’uscire dalla vasca e il calore immagazzinato in un’ora di immersione si manteneva per parecchio tempo. La vasca della fattoria era alta quanto un uomo e aveva un diametro di non più di due metri. Intorno alla vasca un prato verdissimo rorido di acquerugiola in contrasto con il grigiore del cielo; attorno alla piscina di Sciacca invece palme, buganvillee e altri rampicanti fioriti, e un cielo azzurro smagliante sopra la testa, come immagino sia il Paradiso terrestre.
La cena fu consumata tutti insieme nel convitto di Laugar, dove noi e i Di Rosa arrivammo accompagnati da Solveig in pullman.
L’indomani, dopo una bella colazione nella fattoria agrituristica, nel tepore della sala da pranzo, uscimmo fuori per sistemare i bagagli sul pullman e partire per una nuova meta. Il freddo era pungente e l’erba bagnata ci inzuppava gli scarponcini. Dissi a Maria Elena: “ Se l’estate è come il nostro inverno, com’è l’inverno in Islanda?” Lo dissi pure a Alberto perché mi parlasse dell’inverno islandese, dato che egli lo aveva provato tante volte. Mi rispose sbrigativamente che fa molto freddo. Ero delusa: in teoria lo sapevo anch’io, ma c’è freddo e freddo. Anche da noi in Sicilia diciamo che c’è freddo in inverno; ma il freddo siciliano non è quello islandese. Mi piacerebbe trovarmi per qualche giorno in quell’isola, che immagino tutta bianca di neve e al buio. Oltre al freddo invernale, vorrei provare solo per qualche giorno quali sensazioni si provano senza vedere il sole. Penso che non potrei sopportare a lungo il buio o la luce artificiale.
Eravamo ancora nell’Islanda settentrionale a est di Acureyri.
Alberto ci annunciò che saremmo andati verso l’interno, a Krafla, la zona vulcanica più attiva, con un’altitudine di 600 m. Costeggiammo per un tratto il grande lago Mývatn, profondo 4 m, in un paesaggio che somigliava a quello lunare. Mývatn significa “lago dei moscerini”. L’acqua calda consente la vita ai moscerini, di cui si nutrono tanti tipi di uccelli.
Il lago riceve le fredde acque del fiume Laxa, che sono le più ricche di salmone. Ci capitò di vedere qualche pescatore protetto da lunghi stivali di gomma, immerso fino alle ginocchia, per la pesca del salmone con la lenza.
L’acqua calda, nata nelle grotte sotterranee del lago Mývatn, viene convertita in energia geotermica e utilizzata per riscaldare le case. In alcuni punti raggiunge i 70°.
Scattai una foto dal pullman ad una centrale geotermica. Di tanto in tanto si vedevano le pecore islandesi con i loro agnellini, sempre in gruppi di tre.
Passammo per la l’immensa distesa di lava di Krafla ricoperta di muschio e ci fermammo col pullman in un posto che non so precisare, non essendoci alcun punto di riferimento, nemmeno una strada.
Quella che finora avevamo percorso non era una strada, ma terra battuta dalle ruote dei veicoli che si avventuravano in un una zona che mai avevo immaginato potesse esistere. Dei paletti infissi al suolo e una corda come il filo di Arianna segnavano il percorso da seguire per addentrarci nell’altopiano vulcanico e poter ritornare al pullman.
Il freddo era più forte che altrove. Per me non era un problema: fasciai la testa con un foulard di lana e me la coprii con il cappuccio imbottito del giaccone. Maria Elena si avvolse il collo con una sciarpa e si coprì la testa con il cappuccio del giaccone imbottito di piume d’oca. Camminavamo in fila sulla lava girando lo sguardo intorno, con la sensazione di essere fuori dal pianeta Terra e fuori dal tempo. Il vulcano Krafla non era una montagna conica col cratere in cima, come l’Etna o il Vesuvio, gli unici che ho visto da vicino, ma era un esteso territorio, senza confini ai nostri occhi, dalle cui crepe fuoriusciva la lava durante le eruzioni. L’ultima eruzione risale a venti anni fa.
A Krafla si può vedere come l’ Islanda sia emersa dal mare milioni di anni fa in seguito alle continue eruzioni scaturite dal fondo dell’oceano e si sia avvicinata sempre più alla superficie per il continuo accumularsi della lava. Quella su cui camminavamo era la più recente, porosa come una spugna e tagliente come una miriade di piccolissimi rasoi. A piedi nudi ci saremmo tagliuzzati la pelle.
Il filo di Arianna ci condusse in una zona fumante. Dalle profondità della terra fuoriusciva acqua sulfurea, e vapore caldo, formando una larga pozza dai bordi giallastri e verdognoli. Notammo che dappertutto usciva vapore tiepido dagli alveoli della lava spugnosa, in contrasto con il freddo dell’aria. I paletti col filo di Arianna finivano presso quel piccolo stagno di acqua sulfurea, ma noi continuammo ad addentrarci, seguendo i passi di Alberto, la cui presenza ci dava sicurezza. Se ci fossimo trovati soli, ci saremmo sentiti come naufraghi in mezzo all’oceano. Non era facile orientarsi, essendo il cielo coperto e la luce grigia e uniforme. Facendo perno su noi stessi e girando lo sguardo a 360 gradi, non si vedeva altro che lava più o meno nera, talvolta rossiccia, a seconda dei minerali contenuti. L’impressione generale era quella di una terra in cui un grande incendio avesse distrutto tutto e lasciato carbone e cenere ancora fumanti.
Non dimenticherò mai Krafla, in cui la realtà supera l’immaginazione. La solitudine angosciante del luogo e la mancanza di orientamento evocavano l’immagine dell’Inferno.
Alberto spiegava che col passare degli anni il vapore che usciva dalla lava avrebbe sgretolato la roccia e vi sarebbe nata la prima forma di vita: il muschio.
Il miglior souvenir che avrei potuto portare a casa era la lava di Krafla. Raccolsi due pietre porose e le conservai dentro lo zaino. Anche Maria Elena a mia insaputa ne aveva raccolto altre due e conservate nel suo zaino. Dopo vedemmo il dottor Di Rosa chinarsi e raccogliere anche lui una pietra e osservarla da vicino. Alberto se ne accorse e lo redarguì severamente, dicendo che era proibito portarsi via la lava di Krafla. Mi sembrò che esagerasse e intervenni in difesa del nostro compagno di viaggio, dicendo che togliere una pietra in quell’immensità era come togliere una goccia d’acqua dall’oceano. Alberto ribatté che ogni anno 180 mila turisti visitano Krafla e che se ognuno portasse via una pietra l’aspetto del paesaggio cambierebbe. Il dottor Di Rosa, quasi intimidito, disse che non aveva nessuna intenzione di portarsi a casa la pietra e che l’aveva raccolta in mano soltanto per guardarla da vicino e mostrarla alla moglie che gli era accanto e lo sosteneva. Io e Maria Elena ci guardammo in faccia, senza alcun senso di colpa, contente che Alberto non si fosse accorto delle nostre pietre, conservate nello zaino come reliquie preziose.Ora le quattro pietre sono in un vassoio di ceramica a far mostra si sé nel soggiorno. Sono bellissime, frastagliate e porose più delle spugne marine, dai colori diversi: una è completamente nera; la più grande è ancora più scura con qualche striatura violacea; la terza quasi tutta rossiccia; la più piccola è bicolore, bianca da un lato, dall’altro sembra sia stata spruzzata di marrone e di grigio. Tornata a Sciacca ebbi timore a tenere in casa le quattro pietre, ricordando quanto Alberto aveva spiegato sul posto, cioè che la lava su cui camminavamo liberava continuamente “radon”, elemento naturale radioattivo, nocivo alla salute se fossimo rimasti esposti per lungo tempo in quella zona. Per tutta l’estate tenni le pietre in un balcone all’aperto. Poi, temendo che si deteriorassero, le collocai nel soggiorno, dove entro raramente. Tornammo indietro, a riprendere il pullman. Ci spostammo verso sud, nel cuore dell’Islanda, nella zona del vulcano Askja. Alberto ci accompagnò a piedi fin sul bordo di un cratere. Non si vedeva subito il cratere a causa della nebbia. Sporgendomi dall’orlo e aguzzando la vista, vidi come attraverso un velo il fondo pieno di acqua calda. Forse il velo di nebbia era appesantito dal vapore del lago vulcanico. Quel lago vulcanico si chiamava “Viti”, che in lingua islandese vuol dire “Inferno”.
NámafjallLe emozioni non erano finite. Era mezzogiorno quando il pullman ci portò nelle vicine solfatare di Námafjall, Io ero impreparata a quella vista, come a Krafla. Nuvole di vapore uscivano dal suolo e si spandevano nell’aria. Camminando a piedi si incontravano pozze di fango bollente azzurrognolo che gorgogliava come il budino che bolle sul fuoco. Erano tante e le ripresi con la telecamera. Maria Elena faceva altrettanto con la macchina fotografica digitale. Andando oltre venivamo investiti da calde nuvole di vapore e da un rumore che si faceva più forte man mano che avanzavamo. Il rumore, simile a quello di un trattore in moto, proveniva da piccoli coni vulcanici, alti poco più di un metro, vuoti all’interno, da cui usciva una grossa nuvola di vapore caldo. Infreddoliti come eravamo dopo la visita a Krafla, ad uno ad uno ci infilammo dentro la nuvola, provando una piacevole sensazione avvolgente di benessere. C’erano a Námafjall parecchi coni che emettevano vapore e li provammo tutti, incuranti di inumidirci i capelli e i vestiti. Non potevamo tralasciare di provare una sensazione nuova e irripetibile. Un cartello spiegava che a mille metri di profondità il vapore supera i 200 gradi, accompagnato da gas, tra cui l’idrogeno solforato cha dà alle sorgenti il loro odore caratteristico.
La faglia.Era ora di pranzo, ma prima di arrivare al più vicino posto di ristoro ci fermammo in una zona dove si vede tangibilmente la faglia che spacca in due l’Islanda da sud-ovest (l’avevamo vista il primo giorno nel Parco Nazionale di Thingvellir, sede del primo Parlamento vichingo e di Europa) fino a nord-est, dove ci travavamo. La faglia si presentava lunga fin dove arrivava la vista.
Secondo la “Teoria della tettonica a zolle e della deriva dei continenti “, la litosfera terrestre (lo strato più esterno della Terra) è suddivisa in numerose placche, o zolle tettoniche, che si muovono incessantemente le une rispetto alle altre, trascinate dalle correnti che agitano lo strato semifluido sottostante, tra circa 100 e 250 km di profondità. Secondo i geologi, ci sono una ventina di placche. Lungo i loro margini è concentrata la maggior parte dell'attività sismica rilevata sulla Terra.Ora, la faglia che noi vedevamo divide l’Islanda in due parti, una situata sulla zolla americana, l’altra su quella euroasiatica, che col passare di chissà quanti anni, si allontaneranno fino a creare due isole.
La faglia che divide il continente americano
(a destra) da quello eurasiatico
La faglia era stretta, tanto che potevamo mettere un piede sulla zolla americana e l’altro su quella eurasiatica. Alberto, che sul pullman ci aveva parlato per sommi capi della tettonica a zolle, si divertiva a vederci scattare tante foto mentre ognuno di noi divaricava le gambe sopra la faglia.
Era sollevata di circa due metri rispetto al livello della strada e somigliava ai labbri di una ferita.
Prima di salire sulla scarpata della faglia scendemmo in una piccola grotta sottostante, dove c’era un laghetto di acqua calda.
Dopo la breve sosta, il pullman ci portò in un luogo di ristoro, dove il pranzo era self-service e costava il prezzo fisso di 1.400 corone a persona (una corona equivale a € 1,30, perciò il pranzo costava poco più di 18 euro).
Il locale, era piccolo, ma c’era posto per tutti. Alberto, che lo conosceva bene, ci aveva parlato di quello che avremmo potuto mangiare. Tra le tante stranezze culinarie islandesi di cui parlava, ricordo solo la carne di balena lasciata imputridire sotto la sabbia e tagliata in cubetti. In ogni mio viaggio all’estero la cucina occupa nella mia mente l’ultimo dei miei pensieri. Non ricordo mai le pietanze consumate all’estero, tranne quando sono troppo strane per le nostre abitudini, come la carne arrostita con la marmellata ad Aquisgrana, la banana fritta in Scozia, le tortillas in Messico, il panetto senza crosta in Cina, cotto a vapore, in cestini di vimini, in pila uno sull’altro, sopra un recipiente di acqua bollente su una fiamma che produceva vapore continuo. Di ritorno a casa una sola volta tentai di cuocere alcuni panetti in un cestino posato su una pentola in ebollizione, senza riuscire a ottenere qualcosa di commestibile.
Nel ristorante vicino alla faglia, passavamo davanti ai tavoli col piatto in mano per guardare i vari cibi esposti e scegliere. Io volevo andare sul sicuro, scegliendo pietanze che riconoscevo, come una zuppa vegetale, pesce e insalata; Maria Elena invece, per curiosità, era attratta da cibi che non si capiva di che natura fossero. Tra alcuni cibi incomprensibili c’erano dei cubetti più piccoli dei dadi. Ci sedemmo al nostro tavolo e cominciammo a mangiare. Ad un tratto vidi Maria Elena fare una smorfia di disgusto. Il cubetto nauseabondo, appena assaggiato era probabilmente la carne marcia di balena, di cui aveva parlato Alberto. Io mangiai con soddisfazione tutto quello che avevo scelto, senza sorprese.
Trascorsa circa un’ora per il pranzo proseguimmo per il Parco di Dimmurborgir, un luogo straordinario, dove i fenomeni vulcanici avevano creato delle alture di lava porosa, frastagliata, con guglie, tali da far pensare a dei bui castelli medioevali. Infatti quelle formazioni rocciose erano chiamate Castelli neri. Alberto nel centro del gruppo esponeva le spiegazioni date dai geologi al fenomeno. Io non potevo ascoltare, rapita com’ero dalla visione degli innumerevoli castelli neri e dal desiderio di filmare e fotografare, che mi costringeva spesso a fermarmi per le inquadrature, col timore di rimanere indietro rispetto al gruppo, che continuava a camminare per gli impervi sentieri, mentre ascoltava Alberto.
Ad ogni svolta del sentiero apparivano nuovi castelli spiccanti sul verde delle betulle nane, che sono l’unica vegetazione, resa possibile perché il luogo è riparato del vento.
Guardavo senza immaginare come si fossero formati. Perdevo i discorsi di Alberto, ma pensavo che a casa avrei trovato qualche spiegazione in una enciclopedia o nelle riviste che avevo frettolosamente letto prima della partenza. All’uscita dal parco mi venne in aiuto un cartello che illustrava le ipotesi sulla formazione dei Castelli neri di Dimmurborgir. Non avevo tempo per leggere e tradurre dal francese (la lingua italiana era assente). Fotografai il tabellone con le didascalie, che avrei tradotto ed esaminato con più agio al ritorno a casa.
Riporto il tabellone, confessando di non aver capito granché, ma non mi importa, tanto più che si tratta di ipotesi, non di cosa certa. 1 2 3 4
Figura 1- Il magma fuso si riversa in una depressione piena di acqua o di paludi, e forma un lago di lava. Lo strato inferiore si solidifica istan taneamente. La lava di superficie si solidifica rapidamente.
Figura 2 - Il magma riscalda l’acqua del fondo trascinando una imponente formazione di vapore vicino alla superficie, sotto lo strato di lava supe-riore. Il vapore si sprigiona attra-verso i camini e il magma che lo circonda indurisce.
Figura 3- La roccia che delimitava il lago si spezza. La lava fusa scorre dentro i camini di fuga del vapore, seguendo il letto di lava più vecchio. La crosta su-perficiale scende.
Figura 4- Restano blocchi e creste, resti di camini di vapore, ecc. separati da canali e brecce attraverso cui è uscito il magma.
La quarta giornata di viaggio non era ancora finita. Troppe cose avevamo visto in un solo giorno e temevo che, tornate a casa, avrei fatto confusione. Le immagini e le esperienze nuove si accumulavano dilatando il tempo, come se non fossero passati quattro giorni, ma molti di più. Per timore di non ricordare i nomi dei luoghi visitati, spesso difficili da pronunziare, prendevo appunti su un quaderno segnando le date e controllando sulla carta geografica i luoghi attraversati. Gli appunti mi avrebbero aiutato a riconoscerli nelle foto. La data e l’ora che la macchina fotografica digitale segna automaticamente mi avrebbero aiutato a mettere in ordine cronologico le immagini che si accumulavano nella mia mente.
Lasciati i Castelli neri di Dimmuborgir e viaggiando verso l’interno ci fermammo presso una fattoria, che Alberto diceva essere l’unica abitazione di quel luogo desertico, che era l’altopiano di Modrudalur. Non arrivava la corrente elettrica, che nella fattoria veniva prodotta con un generatore. La costruzione era di torba, all’interno rivestita di assi di legno.
La famiglia che vi abitava gestiva un posto di ristoro per i turisti. Dietro il banco una ragazza serviva le bevande che desideravamo. Non c’era grande varietà di scelta. Io mi ristorai con una tazza di cioccolata calda.
La ragazza era giovanissima e stentavo a credere che potesse vivere in un luogo così isolato, senza scambi con altre persone che non fossero turisti di passaggio come noi. Supponevo che la famiglia soggiornasse in quell’altopiano solo in estate e che in inverno si dedicasse ad altra attività lavorativa in un altro luogo meno ostile. La vista di un trattore nella distesa verde circostante mi fece supporre che la terra intorno venisse coltivata a foraggio per l’allevamento del bestiame. Non chiesi spiegazioni a Alberto, che era parco di risposte, quando gli rivolgevamo delle domande, e rimasi con mille dubbi. Andati via i turisti, passata l’estate, quanta solitudine, quanto silenzio, quanto buio. Se la vita nella nostra terra spesso ci sembra stressante, quella vita mi pareva deprimente. Provai a immaginare un abitante della fattoria guidare un’automobile in una delle nostre città, dove il traffico è intenso e non si sa dove parcheggiarla.
E i ragazzi della fattoria come passano il tempo libero? Conoscono la frenesia del sabato sera dei nostri giovani?
Ripreso il viaggio, attraversammo una delle zone più aride da me viste, il deserto nero, nell’altopiano di Modrudalur. Non è difficile capire perché il deserto è nero. L’Islanda è una terra giovane, nata dalle sovrapposizioni delle eruzioni vulcaniche. La terra, le sabbie, le rocce sono tutte nere perché di origine lavica. Anche i ghiacciai che coprono i vulcani mostrano delle zone grigie perché imprigionano i materiali di lava sgretolati.
La sosta fu brevissima per foto e riprese. Poi risalimmo sul pullman per raggiungere l’ultima tappa della giornata, la cittadina di Egilsstadir (1.000 ab.), capoluogo dell’Islanda dell’Est, per la cena e il pernottamento.
5° giorno 19 luglio martedì
I fiordi orientali e la casa di Petra
Eravamo ormai usciti dall’interno desertico e ripreso la strada N.1, asfaltata, che costeggiava i fiordi. Il paesaggio era cambiato. Al nero del deserto succedeva il verde dei fiordi. Il clima era meno ostile anche se piovigginava, come ogni giorno dall’inizio del viaggio. I fiordi islandesi, che nella carta geografica appaiono frastagliati come quelli norvegesi, erano invece completamente diversi e deludenti per chi avesse già visitato la Norvegia. Le coste che vedevamo erano basse o poco alte sul livello del mare, ricoperte di muschio in basso, di macchie bianche di ghiaccio sulle creste.
Un cimitero francese con 49 tombe ricorda che il villaggio era, alla fine del XIX secolo a all’inizio del XX, uno dei principali porti di attracco dei marinai francesi sulle coste islandesi, quando le campagne di pesca francesi conoscevano un apogeo tra il 1880 e il 1914. Le ultime golette francesi toccarono terra a Fáskruosfiordur verso il 1930
Ricordo invece l’emozione fortissima provata nel vedere i fiordi norvegesi da ogni punto di vista: dalla nave, dal pullman, dall’aereo. Avevo scritto su una cartolina inviata a parenti che la realtà superava l’immaginazione. Montagne coperte di betulle, alte e a picco sul mare, mostravano la loro superba bellezza, specchiandosi sulle piatte acque, verdi come le betulle e ferme come quelle dei laghi. Infatti laghi chiusi sembravano le acque dei fiordi per il serpeggiare delle montagne, sui cui fianchi era scavata una stretta strada costiera, sulla quale due pullman che si incrociavano passavano grazie alla perizia degli autisti, che avanzavano centimetro per centimetro. I fiordi islandesi apparivano meno imponenti, ma era pur sempre bello vederli, dopo essere usciti dalla deprimente solitudine del deserto.
Si incontravano le coloratissime case dei pescatori, qualche automobile e poi una insolita vista: terra spianata, ruspe, gru e una fila di alloggiamenti tutti uguali per operai. L’ Eskifiördur (così si chiamava il fiordo) era stato aggredito dall’uomo per la costruzione di una imponente centrale idroelettrica, da utilizzare per un alluminificio. Il paesaggio del luogo si sarebbe trasformato. Tale imponente opera avrebbe dato impulso ad uno sviluppo economico che avrebbe popolato la zona, poco abitata. Alberto diceva che in Islanda c’erano due correnti discordanti, quella degli ambientalisti, che difendeva l’integrità naturale del fiordo, quella dei progressisti, che difendeva lo sviluppo economico del paese e l’incremento della popolazione in quella zona orientale scarsamente popolata. Quell’opera iniziata aveva intanto creato del malcontento perché la ditta che aveva presso l’appalto era straniera e utilizzava manodopera straniera ad un costo più basso, deludendo così le aspettative di coloro che lottavano per il benessere economico del fiordo orientale e per il suo popolamento.
Dopo aver pranzato in una piccola area di servizio lungo la strada, sostammo a Stödvarfjördur per visitare la casa di Petra Sveinsdóttir, una donna che oggi ha 81 anni, che ha raccolto nella sua casa, come in un museo, una grande quantità di pietre, trovate nelle sue passeggiate nei dintorni.
Nessuno del gruppo mostrava interesse per la mineralogia, deludendo Alberto che aveva proposto quella sosta alla agenzia turistica, da cui dipendeva. Petra Sveinsdóttir che, circondata dai suoi familiari, si fece riprendere dalla mia telecamera, aveva avuto dei riconoscimenti dal Presidente della Repubblica islandese.
Ciò che mi piacque vedere della casa di Petra non erano i suoi minerali, ma l’interno della casa, in cui le stanze erano diventate sale di esposizione dei suoi minerali, tranne la cucina, dove era radunata con la figlia e i nipoti attorno al tavolo, in compagnia di Alberto, che conversava con loro mentre insieme bevevano il caffè, il cui aroma si spandeva nel corridoio. Invece di guardare le vetrine, mi soffermai sulla soglia della sua camera da letto, piccola, dipinta di azzurro, con il suo lettino, una poltrona, una cassettiera e la televisione. La parete a cui era addossato il suo lettino era piena di fotografie fino al soffitto. Da una delle stanze si accedeva ad una verandina esterna, coperta dal tetto e da pareti di vetro, dove stavano alcune sedie di vimini e delle ciotole di fiori coltivati. Il giardinetto intorno era ben curato ed esponeva lungo i vialetti e in ogni angolo tutti i minerali trovati da Petra nell’arco della sua vita. Non si vedevano altre case intorno.
I cognomi islandesi sono patronimici. Quelli dei maschi finiscono con “son” , che significa figlio, quello delle femmine finisce con “dottir”, che significa figlia.
Il cognome di Petra, Sveinsdóttir, significa figlia di Svein.
Se io fossi islandese mi chiamerei Nietta Jhosdóttir, cioè figlia di Giuseppe, mentre mio fratello si chiamerebbe Nino Jhosson (ammesso che Giuseppe in islandese si dica Jho). Il vero cognome del premio nobel per la letteratura 1955, Halldór Laxness , è Gudjónsson, cioè figlio di Gudjón. (Laxness è uno pseudonimo).
Le sterne articheDa quando avevamo lasciato i luoghi desolati dell’interno, i fiordi orientali ci apparivano finalmente rasserenanti. I colori del paesaggio erano diversi dai nostri abituali: le vallate verdissime di muschio, in contrasto con il colore scuro dei monti, il colore del mare, mai azzurro, che da allora era sempre in vista, la strada nera, quando non era asfaltata, non creavano un’atmosfera amena, anzi severa, che però nell’insieme allargava il cuore, dopo aver provato l’incubo di Krafla e del deserto nero. Costeggiando il mare, arrivammo in vista del ghiacciaio Vatnajökull, che arrivava fino alla spiaggia ed era così esteso che non lo perdemmo di vista per per tutta la giornata, viaggiando intorno ad esso.
Lasciata la casa di Petra, sostammo per mezz’ora sulle rive del fiordo ricoperto di soffice muschio, liberi di esplorare gli anfratti, di immergere le mani nell’acqua marina, di andare in cerca di pietre particolari col desiderio di trovarne una colorata da portare a casa, come aveva fatto Petra nel lungo tempo libero della sua vita. Una compagna di viaggio trovò una bella pietra di colore verde, che custodì gelosamente nella sua tasca, dopo averla mostrata agli altri. Anch’io amo le pietre e speravo di essere fortunata come lei. Non trovai nulla di interessante. Trovai invece tra il muschio ciuffi di piccoli fiori rosa, che fotografai come gioielli rari.
Quella passeggiata tra muschio e cielo, mare e montagne ci fondeva con la natura. Non c’era nessuno nel luogo, all’infuori di noi.
Un compagno di viaggio ci venne incontro con qualcosa racchiuso nella mano. Un uccello dal becco rosso volteggiava sulla sua testa in atteggiamento aggressivo. Cosa aveva trovato da mostrarci? Aprì un po’ la mano e apparve un morbido batuffolino pigolante. Era un pulcino di sterna artica. Disse che ce n’erano tanti a terra, nelle concavità del muschio, e quella che volteggiava minacciosa sulle nostre teste era la madre offesa, che cercava di difendere il suo piccolo, prigioniero nella mano di un uomo.
Dopo averlo fotografato (non solo io) il pulcino fu posato a terra, che saltellando si allontanò da noi guidato dalla madre in volo.
Le sterne sono uccelli marini di media grandezza, dal piumaggio bianco con qualche sfumatura grigia o nera sul dorso . Vivono sulle coste dell'oceano, dove si nutrono di pesci e di piccoli invertebrati marini e nidificano sul terreno, sulle spiagge o nelle aree aperte dell'entroterra. Arrivano in Islanda in primavera per nidificare e ripartono con i piccoli in autunno per le coste dell’emisfero antartico. Era la prima volta che le vedevamo da vicino. Guardando attentamente scoprivamo nelle leggere depressioni sia i pulcini appena nati che le uova prossime alla schiusa.
Quel tuffo nella natura ci aveva ristorato lo spirito.
Salimmo sul pullman per raggiungere il paesino di Djúpivogur, per la cena e il pernottamento. Il paesaggio lungo il percorso era incredibilmente bello. Per un lungo tratto campeggiava una montagna di roccia nuda, azzurrognola, a forma di una piramide perfetta. L’associai nella mente alla grande Piramide del Sole della civiltà preazteca, vista l’anno scorso vicino a Città del Messico, e anche alla Piramide egizia di Cheope, vista solo nelle fotografie. Girando col pullman non staccavo lo sguardo da quella piramide naturale, che appariva in angolazione diversa ad ogni curva della strada. Quando arrivammo a destinazione, in un albergo su un porticciolo, e mi avvicinai alla finestra della camera assegnatami, vidi di fronte a me la bella piramide azzurra, dalla cima appuntita.
Durante la cena Alberto ci avvisò che l’indomani non avremmo trovato nessun luogo di ristoro per il pranzo, perciò ci consigliò di andare nel vicino negozio a comprare qualcosa da mangiare, prima della chiusura. Il negozio era piccolo ed esponeva un po’ di tutto, non solo generi alimentari. Riconobbi molta merce di marca italiana: caffè, saponette, dentifrici, cosmetici, ecc. Ci ritirammo nella nostra camera d’albergo per la notte e ci addormentammo riscaldati dalla coperta di piume e dal calore del termosifone acceso.
6° giorno 20 luglio mercoledì
Alle otto del mattino lasciammo il paesino di Djúpivogur. Avevamo indossato la maglia di lana sotto il pullover, i calzettoni e gli scarponi.
Dopo un breve tratto, percorrendo la strada costiera, incontrammo una laguna limitata da un lunghissimo cordone di sabbia nera parallelo al litorale.
Guardando la laguna sulla cartina, di fronte all’isola di Papey, e tenendo conto della scala di riduzione, pensammo che il cordone nero misurasse circa 15 Km. Riconoscevo le montagne che si innalzavano vicino alla costa per averle viste a casa prima della partenza in una bella fotografia che occupava l’intera pagina di una rivista. Alberto, come se avesse letto nel mio pensiero, fece fermare il pullman e ci invitò a scendere per poter fotografare e filmare il meraviglioso panorama che si offriva alla nostra vista.
Superata la laguna cominciò ad apparire il Vatnajökul (jökul = ghiacciaio; Vatnajökul = ghiacciaio di Vatna), la cui superficie di circa 8.500 km² è pari alla somma della superficie di tutti i ghiacciai europei. Non potevamo farci un’idea della sua estensione guardandolo dalla strada costiera. Nella sua interezza avremmo potuto vederlo solo dall’aereo. Ce ne rendemmo un po’ conto allorché la sua vista ci accompagnò per l’intera giornata di viaggio.
Il nostro pullman sostò in una immensa area pianeggiante coperta di ciottoli e muschio, accanto a una lunga fila di altri 126 pullman turistici. Dovevamo percorrere un lungo tratto a piedi per raggiungere la laguna glaciale di Jökullsárlón, che ancora non si vedeva. Fummo colpiti dal volteggiare sulle nostre teste di una fitta colonia di sterne artiche. Altrettanta moltitudine stava a covare le uova depositate nelle ondulazioni del terreno o a coprire i pulcini neonati. Non ne avevo viste mai tante. Alberto ci disse che la vista di quella impressionante colonia aveva ispirato il film thriller di Hitchcock, intitolato “Uccelli”.
A differenza degli uccelli del film, quelle sterne non erano bellicose; ma se qualcuno di noi passando sfiorava un nido, la starna disturbata si alzava in volo, senza allontanarsi, e ci minacciava, afferrandoci i capelli. Ci proteggemmo la testa con i cappucci. Una starna beccò ripetutamente il cappuccio di Maria Elena, che aveva raccolto un pulcino dal suolo e poi rilasciato.
Quando arrivammo dove Alberto si era fermato per attenderci e raggrupparci insieme, non mi raccapezzai subito. Scattai una foto a quelli che mi sembravano strani massi dai colori sfumati tra il celeste e il grigio, senza capire cosa fossero. Seguimmo Alberto che ci fece salire su una barca con quattro ruote. Una ragazza bionda ci fece indossare il salvagente e sedere dove c’era posto. La barca si mise in moto con un rumore simile a quello di un trattore e partì, percorrendo qualche centinaio di metri sul suolo accidentato, fino ad entrare nell’acqua della laguna. Così mi accorsi che eravamo entrati nella laguna glaciale di Jökullsárlón.
Ripreso il viaggio in pullman, la vista del ghiacciaio più grande dell’Islanda non ci lasciò più per quel giorno. Sostammo presso un’altra lingua, dove i ghiacci erano più scuri. Lungo il percorso Alberto diceva che la sabbia nera, rilasciata dallo scioglimento del ghiacciaio, avanza ogni anno di 150 metri. Attraversammo il ponte più lungo dell’isola nell’immensa distesa di sabbie nere, accumulatesi in milioni di anni, che avanzano verso il mare.
Sono le sabbie di Skeidarársandur, liberate dallo scioglimento delle lingue del ghiacciaio. In quella distesa scura non si distinguevano le “sabbie mobili”, rese tali dall’eccessiva quantità di acqua assorbita, nelle quali alcune persone hanno perso la vita.
Girando ancora attorno al ghiacciaio si incontra il Parco Nazionale di Skaftafel, che attraversammo a piedi, lungo un sentiero serpeggiante in salita. Ogni tanto ci volgevamo indietro a guardare dall’alto l’impressionante distesa delle sabbie, che sembravano non avere confini. I numerosi rivoli di acqua che scendevano dal ghiacciaio brillavano al sole come nastri d’argento. Nel Parco scoprimmo un’altro volto dell’Islanda: il verde non era dato soltanto dal muschio, ma da altre piante, tra cui si distinguevano betulle nane e cespugli fioriti. La passeggiata in salita era salutare, favorita dalla bella giornata. Era la prima volta che vedevamo splendere il sole nel cielo. La temperatura si era alzata e potemmo toglierci il giaccone imbottito. Il sentiero arrivava alla bellissima cascata di Svartifoss (= cascata nera), che è una delle attrazioni più visitate dell’isola, fiancheggiata da un’infinità di “colonne” di basalto sospese come le canne di un grande organo. Avevo letto che tutte le acque che scorrono in superficie sono esenti da inquinamento e si possono bere, perciò io e Maria Elena ne raccogliemmo un po’ con le mani e la portammo ripetutamente alla bocca. Chiare, fresche, dolci acque.
Percorrendo un altro sentiero, scendemmo verso la pianura per raggiungere il pullman.
In basso ci attendeva un cartellone illustrato da foto. Alberto ci parlò dell’eruzione del vulcano che si nasconde sotto il ghiacciaio più esteso d’Europa, avvenuta l’ 8 novembre 1996. L’enorme calore sprigionatosi aveva liquefatto il ghiaccio negli strati più profondi, creando un lago bollente, che esplose, spaccando e frammentando lo spessore del ghiaccio soprastante. Ecco la traduzione dal francese:
In seguito all’eruzione dell’8 novembre 1996 nel Vatnajökull, a nord di Grimsvötn, l’enorme piena glaciale che ne seguì tagliò la strada che attraversa le sabbie di Skeidarársandur. La piena gonfiò rapidamente, raggiungendo il suo apogeo dopo 15 ore, poi si riassorbì quasi totalmente in 48 ore. All’inizio si aspettava che fosse dell’ordine di 20.000 m³/s, ma raggiunse 50.000 m³/s. La forza gigantesca del flusso portò enormi blocchi di ghiaccio che causarono molti danni. Il ponte di 363 m di lunghezza sulla Gígjukvisl scomparve completamente. Il ponte del Skeidará subì dei grossi danni. L’estremità scomparve nel fiume per una lunghezza di 176 m, come pure un pilastro intermedio dell’estremità ovest. La strada fu tagliata a ovest del ponte, le dighe di contenimento delle acque nel loro letto furono quasi interamente distrutte e la rampa di terra di 12 m del lato destro del ponte scomparve. In compenso il ponte sulla Sùla restò indenne. Si valutò che i blocchi di ghiaccio che arrivarono fino all’area del ponte sulla Gígjukvisl pesassero fino a 2.000 tonnellate (10x10x20 m) e che quelli che arrivarono fino al ponte sulla Skeidará fossero da 100 a 200 tonnellate.
Fu uno degli sconvolgimenti più gravi della terra, che però non produsse gravi danni essendo la zona spopolata. Il ponte più lungo, che attraversava le sabbie di Skeidarársandur, fu ricostruito ed era quello che avevamo attraversato qualche ora prima per raggiungere il parco e la cascata.
Ci rimettemmo in viaggio nella strada circolare N. 1, scendendo verso sud. Il tempo continuava ad essere bello. Il sole tiepido ci aveva fatto togliere i giacconi invernali. Attraversammo un esteso campo ondulato coperto da un soffice tappeto del colore dell’erba secca.
La strada scura asfaltata lo tagliava in due parti. Non una casa si vedeva intorno né una traccia di vita; nessun veicolo incrociammo. C’eravamo solo noi. Io riprendevo il paesaggio strano senza capire cosa fosse il soffice e alto tappeto ondulato. Il pullman si fermò e Alberto ci invitò a scendere in quello strano luogo. Ci spiegò che quella distesa tagliata dalla strada era un deserto di lava ricoperto dal muschio. Il colore scuro mi aveva tratto in inganno, perché il muschio che avevo visto prima di allora era verde. Quello che ricopriva la lava era vecchio e secco.
Ci incamminammo sul folto tappeto naturale per toccare con piedi e con mani quello strato morbido che copriva tutto come la neve e ammorbidiva le asperità delle rocce laviche sottostanti. Ci sedemmo sul muschio morbido e ci coricammo anche, come se ci stendessimo su un divano. Io affondai la mano per staccarlo dal suolo e vederne lo spessore (trenta o quaranta centimetri). Girando lo sguardo intorno non si vedeva altro.
Nel tardo pomeriggio arrivammo a Vik, un villaggio sulla costa meridionale abitato da 160 anime. Il luogo era bellissimo per i colori delle montagne, il verde brillante del muschi che ricoprivano le pendici, il colore del mare, in cui spiccavano i neri faraglioni e il colore nero della larga e lunga spiaggia. L’alta parete di basalto a strapiombo sulla spiaggia era popolata da colonie di uccelli, soprattutto i colorati pulcinella di mare, dal dorso nero, ventre bianco, con il becco a strisce rosse, gialle e grigio-azzurre.
Ci era bastata mezz’ora per percorrere a piedi un sentiero fino alla spiaggia, guardare da vicino una grotta sotto la parete lavica di basalto, che si presentava a colonnine lunghe di un grigio compatto, come quelle della cascata di Svartifoss.
Proseguimmo il viaggio per raggiungere il vicino villaggio di Hvolsvöllur per la cena e il pernottamento, sostando lungo il tragitto presso due belle cascate.
La giornata era stata abbastanza lunga per i molti luoghi visitati e la varietà degli scenari. Una cena calda e un buon letto concluse il penultimo giorno del nostro viaggio.
7° giorno 21 luglio giovedì
Dopo colazione, prima di riprendere il viaggio per Reykjavík, ultima tappa del viaggio, io e Maria Elena facemmo un giro da sole fuori dell’albergo. Non c’erano case intorno: di fronte solo una fabbrica di hot-dog. Allontanandoci un po’ ci fermammo a guardare le casette circondate da un piccolo prato verde e qualche albero. Alcune villette avevano a poca istanza un gazebo dalle pareti e tetto di vetro trasparente. All’interno si vedevano delle poltroncine di plastica attorno d un tavolinetto e dei vasi fioriti. Qualche giocattolo abbandonato nel prato rivelava nella casa la presenza di bambini.
La prima tappa della giornata fu la zona dei geyser (in islandese si dice “geysir” e la località di chiama Geysir dal nome del grande geyser che arrivava ad una altezza di 70-80 m, spentosi con il terremoto del 1976).
Quello che noi vedemmo era lo Strokkur, che raggiunge un’altezza di 25-35 m, eruttando ogni cinque minuti una colonna di vapore e acqua bollente, preceduta da una bolla azzurra.Attorno alla pozza di acqua geotermale, una corda tenuta da paletti, segnava il limite di accesso ai visitatori. L’acqua si muoveva senza sosta, come se una mano invisibile la facesse mulinare. Il movimento crescente faceva gridare:
“ Sta arrivando la bolla! Eccola! Eccola!
Desiderio di tutti era fermare l’immagine in una foto. Io con la telecamera e Maria Elena con la macchina fotografica ci tenevamo pronte a premere il pulsante, per cogliere la sequenza del mulinello dell’acqua, della formazione della bolla nel massimo igonfiamento, dell’esplosione verso il cielo e della caduta dell’acqua e del vapore. I primi tentativi andarono delusi, ma la ripetitività del fenomeno ogni cinque minuti e la pazienza ci consentirono di scattare le foto nel momento giusto e di realizzare riprese soddisfacenti. La caduta dell’acqua formava dei rigagnoli a terra, che mi chinavo per tastarne il calore, che diminuiva col freddo dell’aria, ma che non si raffreddava mai per l’arrivo di nuova acqua bollente.
Restammo abbastanza tempo nella zona per memorizzare quelle belle immagini che difficilmente avremmo rivisto. Allargando lo sguardo oltre lo Strokkur, che dominava il paesaggio, si vedeva dappertutto la terra fumare.
Dissi a Alberto che il viaggio era al termine e che ancora non avevamo visto islandesi, tranne quei pochi che la sera ci servivano la cena. Quando arrivammo nella seconda città islandese, Acureyri, non c’era gente per le strade, sia perché era ora di pranzo, sia perché era domenica. Alberto rispose che avremmo visto tanti islandesi nella capitale. Tutti sono circa 280 mila; quelli che vivono nella capitale 180 mila.
Il sole era splendido e la temperatura mite. Dopo aver pranzato nel Caffè della cascata d’oro, raggiungemmo Reykjavík. Occupate le camere e posate le valigie, Alberto sciolse il gruppo dicendo che ognuno era libero di passare il pomeriggio e la serata come voleva. L’indomani ci avrebbe accompagnato all’aeroporto di Keflavik per il nostro ritorno in Italia. Egli sarebbe rimasto un’altra settimana per ripetere il giro dell’Islanda con un altro gruppo di italiani.
A quelli che chiedevano suggerimenti per un’ultima escursione, Alberto propose che si poteva fare un giro in battello per vedere le balene oppure andare nella Laguna blu, a 35 chilometri a sud della capitale.
Io scartai la visita alle balene, perché le avevo viste alcuni anni prima nella foce del fiume San Lorenzo, in Canada. Mi attirava l’idea di fare un bagno nelle acque calde della Laguna Blu. Prima del viaggio avevo visto in una rivista geografica una foto che ritraeva i bagnanti immersi nella laguna, a cielo aperto, tra i vapori naturali e allora avevo pregustato quel bagno all’aria aperta. La presenza di certe alghe conferiscono alle acque una luminosa colorazione azzurra. Ma quando Alberto spiegò che il bagno si faceva in uno stabilimento in vasche all’aperto o coperte, sentii scemare il fascino del paesaggio naturale e con Maria Elena decidemmo di passare l’ultimo pomeriggio a girare per il centro di Reykjavík.
Fatta una doccia rilassante con l’acqua geotermale, uscimmo dall’albergo dopo esserci fornite della pianta della città e avere preso qualche informazione, al banco della reception, sulla strada da percorrere in direzione del centro.
Dopo che ci fummo allontanati dall’albergo Maria Elena mi fece notare in lontananza una grande cupola di vetro luccicante, alta al di sopra delle case, e mi pregò di riprenderla con la telecamera. Io non sapevo cosa fosse e lei mi spiegò, per averlo letto, che era il “Perlan” (“perla”), la gigantesca cupola che sormonta un complesso di cinque enormi serbatoi di acque delle sorgenti geotermali e ospita un geiger artificiale esterno e un altro interno, sale per mostre, concerti e un ristorante girevole. E’ un simbolo di Reykjavík, insieme alla Hallgrímskirkja, la moderna Cattedrale di basalto, che domina la città dall’alto di una collina.
Percorremmo una strada larga, poco trafficata, fino a raggiungere un lago azzurro dalle rive coperte di erba verde, oltre il quale si stendeva la città con la Cattedrale, visibile da ogni parte. Il bel lago nel cuore della città, incorniciato da ville d’epoca e dal moderno municipio, era prima uno stagno, dove i primi abitanti andavano a caccia di anatre.
Girammo metà del suo perimetro ammirando un arcobaleno creato dalla luce attorno uno zampillo che si innalzava nel centro. Le sterne dal becco rosso volteggiavano basse.
La giornata era splendida, quasi estiva, la vista amena. Indossavamo jeans e camiciola dalle maniche corte.
Una disattenzione di Maria Elena ad un tratto turbò la nostra passeggiata: disse di avere lasciato sul tavolo il portafoglio con tutto il suo denaro, e ce n’era tanto, dato che non avevamo comprato nulla. Ormai avevamo percorso tanta strada e tornare indietro significava rimanere in albergo per stanchezza e rinunziare alla visita della città. Non potevamo concludere il nostro viaggio in Islanda senza conoscere la capitale! Scaricavo la mia stizza rimproverando la sua distrazione. Alla fine mia figlia, stizzita anche lei, mi disse: “Se l’avere lasciato i soldi sul tavolo ti fa star male, torniamo in albergo e non parliamone più”.
Per me ritornare indietro era fuori discussione. Cercai di consolarmi ricordando di avere letto che l’’Islanda è un’isola felice, dove disoccupazione e criminalità non esistono. Confidai pure in quello che aveva detto Alberto: “La cassiera dell’albergo non chiude mai il cassetto a chiave, perché non pensa che qualcuno potrebbe rubare. E se qualcuno lo facesse, lei non se ne accorgerebbe!”
Io dicevo a Maria Elena:
“Sarà vero? Speriamo di sì. Scacciamo dalla mente i cattivi pensieri e godiamoci la visita della città.”
Dall’altra sponda dello stagno iniziava il centro. Il Municipio era un palazzo moderno che per metà emergeva dallo stagno come i palazzi di Venezia dalla laguna. Andando avanti si allargava la piazza principale su cui si affacciava il palazzo del Parlamento. Aveva un aspetto modesto, simile ad un magazzino rettangolare di mattoni color marrone, a due piani, con finestre bianche e tetto di lamiera. Dubitavo che quell’edificio fosse il Parlamento, ma poi una tabella con una parola simile all’ inglese mi assicurò che fosse proprio il Parlamento.
La piazza antistante era tutta un prato verde circondato da una bella bordura di fiori viola e sul prato la gioventù di Reykjavík, distesa o seduta a cerchio sull’erba o su una stuoia, conversava tranquillamente. Qualcuno isolato, disteso a pancia in giù, leggeva un libro. Anche giovani coppie sedevano sull’erba con i loro bambini sgambettanti o, se troppo piccoli, in braccio. Era uno spettacolo bellissimo. Inseguivo con la telecamera i bambini islandesi dalla pelle chiara come la porcellana, i capelli lisci biondissimi e gli occhi azzurri e le loro mamme giovanissime, ragazzine. Sui sedili all’esterno del prato gli anziani si godevano il sole. Era giovedì, ma sembrava domenica. Finalmente vedevo tanti islandesi insieme!
Entrammo in un supermercato a curiosare, guardammo le vetrine nella speranza di trovare un bell’oggetto da comprare e portare a casa. Niente di diverso trovammo da quanto già avevamo visto nel nostro giro per l’Islanda. Avevamo in tasca delle corone che volevamo spendere per non portarle in Italia. Non restava altro che tornare nel supermercato e spenderle in generi alimentari. Infatti comprammo pane e frutta per la nostra cena e delle confezioni di salmone affumicato.
Dirigemmo i nostri passi verso la Cattedrale. Non c’era bisogno di farci indicare la via, perché la Cattedrale si vedeva sempre, ovunque fossimo.
Passammo per le vie animate del centro, guardando e fotografando le case. Le più antiche erano di legno rivestito di lamiera laccata; le più moderne in muratura; le une e le altre erano dipinte con tutti i colori della tavolozza, creando un’atmosfera di allegria. In quella luce limpida risaltavano l’azzurro del mare e del cielo, il verde dei prati, i tetti e le facciate multicolori delle case. La Cattedrale era sempre davanti a noi. Man mano che avanzavamo nella strada in salita, la sua sagoma si ingrandiva al nostro sguardo, fino ad apparire gigantesca.
Costruita in basalto e inaugurata nel 1987, dopo oltre 40 anni di lavori, si ispira nelle sua forma pieghettata alle colonne di lava tipiche dell’’Islanda (vedi nella foto 19 le colonnine di basalto della cascata di Svartifoss) . Nella piazza, davanti alla chiesa, si erge la statua di Leifur Ericsson, donata dagli Stati Uniti all’ Islanda, per onorare il navigatore vichingo che per primo vi mise piede, 500 anni prima di Cristoforo Colombo. Appresi che gli italiani si risentirono per il dono americano, che sminuiva l’importanza della scoperta del navigatore genovese. Appresi pure, più tardi, che una statua a Leif Ericsson di trova anche a Boston, dove furono rinvenuti arnesi di fattura vichinga e tracce di abitazioni, oltre a una grande pietra scolpita a caratteri runici, usati prima dell’anno mille, quando fu introdotto in Islanda l’alfabeto latino.Nell’ingresso della torre, alta 75 metri, una ragazza vendeva biglietti per salire con l’ascensore in cima. Non avevamo che pochi spiccioli di corona, ma con la carta di credito potemmo acquistare due biglietti. Dalle finestre della torre si godeva una vista incomparabile della città. I colori vividi dei tetti, dal celeste, all’azzurro, al blu, dal rosso chiaro al rosso scuro, in contrasto con i colori vari delle facciate, formavano un caleidoscopio circondato dall’azzurro chiaro del mare e del cielo. Rivedemmo con una prospettiva diversa il lago diviso in due da un ponte e i giganteschi serbatoi del “Perlan” sormontati dal cupolone di vetro.
Soddisfatte da quella vista, scendemmo a terra e riprendemmo la via del ritorno in albergo, ripassando per il centro, attraversando il ponte del lago, anziché percorrerne il perimetro. Arrivammo in albergo sfinite dalla stanchezza.
La luce del sole, che splende anche di sera, non fa capire l’ora a noi che non siamo abituati a quella latitudine. Sembrava ancora pomeriggio, ma l’orologio segnava le ore venti; perciò avevamo camminato per quattro ore. La luce ci avrebbe consentito di visitare ancora qualche altro posto, ma non ne avevamo voglia. Entrammo nella nostra camera e ritrovammo il portafoglio in bella vista sul tavolo dove Maria Elena lo aveva dimenticato. In un albergo italiano non lo avremmo ritrovato.
Quella sera, l’ultima, rimasi sveglia fino a mezzanotte. Le finestre dei paesi nordici non hanno scuri, ma tende pesanti per non fare filtrare la luce. Scostai le tende per vedere fuori. La luce era impallidita, ma non scomparsa. Si capiva che era notte perché fuori non si vedeva nessuno. Scattai due foto al panorama e altre due l’indomani all’alba per confrontare la luce dei due orari diversi.
Il giorno seguente la partenza per l’aeroporto di Keflavik era prevista per le dieci, perciò, dopo colazione, avevamo alcune ore da trascorrere liberamente. La giornata era tiepida. Affacciateci sulla strada, davanti all’albergo, si vedeva il mare vicino. Una compagna di viaggio sopravvenuta si associò a noi e ci incamminammo tutte e tre verso la spiaggia percorrendo una stretta strada asfaltata in mezzo a un prato verde che fiancheggiava la spiaggia, una sottile striscia di sabbia scura e pietre.
Guardando l’insenatura e le montagne lontane i colori apparivano tenui come se il paesaggio non fosse reale, ma un dipinto ad acquarello.
Eravamo nella periferia della città, pulita e silenziosa.
Reykjavík è completamente diversa dalle capitali europee: non ha molta storia alle spalle, non ci sono palazzi monumentali, ma case dalle linee semplici; il traffico automobilistico modesto e ordinato; ovunque c’è pulizia, tranquillità e sicurezza.
Tornammo lentamente indietro ripercorrendo la stessa strada costiera fino all’albergo. Il pullman era pronto per portarci all’aeroporto di Kéflavik. Il viaggio in Islanda era concluso.
Antonietta Cinà Testoni
FI N E
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Tornate a casa ci demmo da fare per documentarci sul paese che la settimana seguente avremmo visitato. Solitamente prima di ogni viaggio ho bisogno di un mese circa di tempo per leggere quanto più libri possibile sulla storia, la geografia, gli usi e i costumi, l’arte, ecc. del paese da visitare. Stavolta avevo pochi giorni, ma sapevo che c’era poco da studiare: c’era solo da vedere e toccare con mano una terra giovane, popolata solo a partire dal IX secolo d.C. Mi vennero in aiuto numerosi periodici, contenenti articoli sull’Islanda, e uno dedicato esclusivamente a essa, ricco di fotografie stupende. Le foto e le descrizioni dei luoghi accesero la mia immaginazione, dandomi l’impressione di aver già visitato quella fredda e lontana isola.
Mettemmo in valigia indumenti estivi per la partenza e il ritorno e altri invernali per il soggiorno, oltre a soprabiti imbottiti con cappuccio, guanti sciarpe, ombrelli, scarponcini e calzettoni di lana.
1° giorno venerdì 15 luglio 2005
Il giorno più pesante e noioso del viaggio, per noi che abitiamo nell’estremo sud dell’Italia, è sempre il primo. Il viaggio partiva da Milano-Malpensa per Reykjavik con volo delle 20,30, ma noi per raggiungere Malpensa dovemmo partire da Sciacca alle sei del mattino per raggiungere l’aeroporto di Palermo, attendere fino alle 12,30 (quasi cinque ore) per arrivare a Malpensa e sostare altre sei ore e mezzo in aeroporto per prendere il volo per Reykjavik. Le ore di attesa oziosa sono estenuanti. Per vincere la noia girammo e ripassamo tutti i negozi dell’aeroporto: Elena comprò due romanzi che iniziammo a leggere. Mangiammo qualcosa comprata al bar e della frutta portata da casa.
Sostavamo in una zona dell’aeroporto dove si sarebbe raccolto il gruppo dei gitanti diretti in Islanda come noi. Provenivano da diverse regioni d’Italia. Tra gli altri c’era un dottore di Ragusa, Di Rosa, con la moglie e una figlia ragazzina. In tutto eravamo ventisei.
Quando salimmo sull’aereo islandese era già trascorsa una giornata.
Dopo mezz’ora indossammo sull’aereo il giaccone imbottito e le calze che previdenti avevamo messo nel bagaglio a mano. Con quel volo lasciavamo il caldo dell’estate per andare incontro al freddo del nord.
Volavamo in direzione del sole, che si vedeva chiaro sopra le nuvole, come se fosse giorno. Maria Elena, vinta dal sonno, dormiva, mentre io guardavo incuriosita il sole che a mezzanotte appariva ancora luminoso sopra le nuvole. Atterrammo all’aeroporto di Keflavik alle ore 0,50 e spostammo di due ore le lancette dell’orologio; perciò in Islanda erano le ore 22,50. La nostra guida, che ci accolse all’arrivo, si chiamava Alberto, uno studente universitario genovese di trentadue anni. Piovigginava. Salimmo su un pullman per raggiungere la capitale, a circa 15 km dall’aeroporto. Durante il percorso vedevamo una distesa pianeggiante tappezzata di muschio verde, su cui spiccava il nastro scuro della strada asfaltata. Pur essendoci ancora la luce solare, come da noi nel tardo pomeriggio, la strada era illuminata dalla luce elettrica dei lampioni. Attraversammo la città addormentata di Reykjavik fino a raggiungere l’albergo. Io e Maria Elena insieme alla famiglia del dottor Di Rosa fummo accompagnati in un altro albergo, non essendoci posto per tutto il gruppo nel primo.
L’autista del pullman, che ci avrebbe accompagnato durante tutto il viaggio, era una bella signora islandese di nome Solveig.
La camera d’albergo era di una sobrietà rara. Un letto a due posti addossato alla parete, senza testiera, senza copriletto, con due piumini bianchi come le lenzuola, un piccolo armadio a due ante bianco di materiale sintetico, un modesto divanetto, qualche sedia e un angolo cottura con alcune stoviglie. Qualche quadretto insignificante alla parete pareva superfluo di fronte a tanta semplicità.
L’esperienza più vivificante della prima notte islandese fu la doccia. Alberto sul pullman ci aveva avvertiti di essere cauti nell’aprire il rubinetto dell’acqua calda, che era geotermale e bollente, e di provare la miscelazione con l’acqua fredda prima di entrare nella doccia.
L’odore di zolfo mi ricordò l’acqua termale di Sciacca, che esce dalle viscere della terra a 70 gradi alimentando la piscina a me nota. La pressione con cui usciva dalla doccia era fortissima e picchiava sulla pelle, facendo scivolar via tutta la stanchezza di una giornata trascorsa nella noia e nelle lunghe attese negli aeroporti. Lo stanzino era saturo di vapore. Non ero mai stata tanto tempo sotto la doccia. La mano scivolava sulla pelle come sul velluto. Il letto, semplice ma confortevole, ci conciliò subito un sonno ristoratore.
2° giorno 16 luglio sabato
Il viaggio iniziò da Reykjavik, percorrendo in senso orario l’unica strada, chiamata N.1, che fa il periplo dell’isola. Il cielo era grigio e piovigginava. La prima sosta fu nel Parco Naturale di Thingvellir, una depressione che segna la spaccatura della placca del continente americano da quello eurasiatico. Questo luogo, a ridosso di una parete lavica, dove c’è un’ottima acustica, fu scelto dai Vikinghi nel IX secolo come sede del primo parlamento.
I primi a raggiungere l’Islanda intorno all’VIII secolo furono probabilmente alcuni monaci irlandesi. In base alla tradizione i primi colonizzatori furono i vichinghi; sul luogo dell’attuale città di Reykjavik il norvegese Ingólfur Arnarson e la sua famiglia fondarono il primo insediamento stabile nell’874. Nei sessant’anni successivi diverse ondate migratorie portarono in Islanda coloni provenienti da diversi paesi nordici, in particolare dalla Norvegia e dalle isole britanniche.
Seduta su una roccia lavica ad ascoltare Alberto parlarci dei primi vichinghi, immaginavo di vederli in quel luogo, ricoperti di pelliccia, seduti sulle rocce nere, addossati alle pareti perpendicolari della faglia, sotto quel cielo plumbeo, discutere delle leggi, approvarle, amministrare la giustizia. Era un luogo poco elevato, dal quale la vista spaziava nella pianura sottostante, avvolta in un velo di nebbia. Non si vedevano le gocce della pioggia, che sembrava polverizzata e sospesa nell’aria. La pianura era un morbido tappeto verde di muschio, macchiato da specchi di acqua superficiale, raccolta nelle conche del terreno o serpeggiante come nastri di colore grigio come il cielo. Poche e brevi file di abeti nani spiccavano sul verde più chiaro del muschio.
Mi piaceva guardare quel paesaggio dalle tinte morbide, malinconico e romantico, tanto diverso da quello assolato e violento della mia terra.
A Thingvellir è proibito costruire case. Si vedono solo una chiesetta e la residenza estiva del primo ministro, con cinque tetti di torba. In esse vengono ospitate le autorità straniere in visita ufficiale al paese.
Si riprese il viaggio verso l’interno, desertico e disabitato, con direzione Nord. La strada era di terra battuta, dove non si incontrava nessuno. C’eravamo solo noi, piccolo gruppo di 28 persone, compresi il nostro accompagnatore e l’autista. Unica vegetazione i muschi, di cui esistono 40 varietà. Il pullman sostò un poco nella zona desertica di Kaldidalur da dove si vedeva nello sfondo il ghiacciaio Langjökull. Riconobbi il paesaggio che si presentava ai nostri occhi, per averlo visto in una foto che occupava l’intera pagina di una rivista sull’Islanda, che avevo letto a casa e che mi aveva colpito. La terra era una distesa pietrosa di colore marrone scuro; in lontananza spiccavano le montagne dalle diverse sfumature di colore, dal blu, al celeste al violetto con chiazze bianche di ghiaccio. Nessun filo di verde. Il cielo nuvoloso con varie sfumature di grigio, più chiaro dove si nascondeva il sole. Vicino alla strada si innalzava un cumulo conico di pietre, che una volta serviva da segnavia. Oggi il cumulo viene accresciuto dai turisti, che deponendo una pietra sulle altre, come si usa nei paesi scandinavi, si augurano di tornare sul luogo. Pensai alle monetine che i turisti gettano nella fontana di Trevi con lo stesso augurio.
Riprendemmo la strada fino ad arrivare in un posto di ristoro per il pranzo. Nell’interno del paese non si incontrano villaggi, né alberghi o ristoranti, né islandesi. Lungo il percorso turistico si incontra qualche posto di ristoro isolato, piccolo, a conduzione familiare, dove un passante può prendere una bevanda, fredda o calda, o sedersi in un tavolo dove consumare il pranzo, ordinato preventivamente. In un angolo dell’unica sala si trovano esposti i souvenirs, per lo più i pesanti maglioni, berretti e guanti, fatti a mano, con i tipici disegni geometrici colorati. Gli unici islandesi incontrati erano i componenti della famiglia, che vive isolata nella fattoria accanto, dove si vede qualche attrezzo agricolo e un trattore, usato per la coltivazione del foraggio per le pecore e i cavalli. L’erba viene raccolta in rotoli e coperta da plastica bianca per non farla marcire.
Ripreso il viaggio dopo il pranzo, vedevamo dal pullman grandi distese verdi punteggiate di balle bianche, tenute all’aperto. Le pecore, che in Islanda sono numericamente il doppio degli uomini, era raro vederle. Perché? Dove erano? Mi aspettavo di incontrare grandi greggi guidate dai pastori, come talvolta mi è capitato di incontrare nei nostri posti! Niente di tutto questo. In estate vengono lasciate libere, in uno spazio senza recinti, senza confini, in una terra dove non c’è la buia notte, a pascolare l’abbondante e fresco muschio.
“Ecco le pecore!” – esclamava qualcuno sul pullman, quando ne avvistava tre.
“Hanno le corna!” – qualcuno metteva in rilievo.
Non avevo visto mai pecore con le corna. Di tanto in tanto incontravamo sul bordo della strada un gruppo di tre pecore.Erano sempre in tre: la mamma con due agnellini. Gli allevatori islandesi, nella stagione delle nascite, lasciano in vita due agnellini per ogni pecora. La mamma pecora in libertà vaga per gli immensi spazi disabitati, ma ricchi di pascolo, seguiti dai due agnellini che allatta. Non esistono greggi in estate. In autunno, prima che la terra venga avvolta dal buio e dai ghiacci, i pastori con i cavalli cercano tutte le pecore in libertà con i loro agnellini e li radunano in luoghi chiusi, dove passeranno la lunga notte invernale.
Anche i cavalli in estate vivono in libertà, come le pecore.Sono diversi dai nostri: più piccoli, con la criniera lunga e folta, discendono da quelli portati nell’isola dagli antichi vikinghi Non hanno subìto incroci di razza, protetti da una legge che vieta che cavalli stranieri arrivino sul suolo islandese.
Non ricordo il significato del nome della prima cascata. Quello della seconda è legato ad una storia del luogo. Due bambini una domenica erano stati lasciati a casa soli dai genitori, che erano usciti per andare a messa. Al ritorno i bimbi non c’erano più. Dopo tante ricerche furono trovati morti nelle acque della cascata.
Interessante fu la successiva sosta presso le sorgenti geotermali di Deildartunghver. Nuvole di vapore a 100 gradi uscivano dalle crepe del suolo roccioso, mentre dal cielo scendeva una pioggia minuta e sottile. Era il primo fenomeno geotermale che vedevo. Il sito delle sorgenti era delimitato da basse transenne per evitare che turisti incauti o curiosi potessero scottarsi. A tutti faceva piacere allungare le mani infreddolite verso quel calore che proveniva da chissà quali profondità della terra. Le rocce bagnate dal vapore avevano i vividi colori del rosso, del giallo e del verde, a secondo dei minerali da esse contenuti.
Riprendemmo il percorso ancora nella strada di terra battuta, ad un certo punto sbarrata da un fiumiciattolo, per attraversare il quale bisognava passare un ponticello rustico, adatto a pochi passanti per volta. Non ebbi il tempo di riflettere come il pullman avrebbe superato l’ostacolo, quando Solveig, la nostra autista, sterzò a sinistra, scansando il ponte, dirigendosi verso il fiume, dove l’acqua era più bassa e lo guadò, riprendendo la stradina di terra battuta e lasciando il ponticello alle nostre spalle.
L’ultima meta della giornata fu il paesino di Saudárkrókur (2.000 abitanti), nello Skagafiördur per la cena e il pernottamento.
Imparai che in Islanda esistono solo due città: Reykjavik, la capitale, a sud-ovest, con 180.000 abitanti, e Acureyri, a nord, con 14.000 abitanti.
Sorgenti geotermali di Deildartunghver
Gli altri centri abitati sono villaggi con poche famiglie, fino a un massimo di 2.000 persone. Gli alberghi si trovano nelle sole due città. Nei grossi villaggi, come Saudárkrókur, i convitti vengono utilizzati in periodo estivo come alberghi per ospitare i turisti. Dopo il primo pernottamento nella capitale, un convitto fu il nostro secondo albergo. La cameretta assegnata a me e a Maria Elena era molto piccola. I piedi del letto a due posti arrivavano a mezzo metro dalla parete di fronte, su cui era attaccata una scaffalatura pensile, unico spazio dove posare gli oggetti e il vestiario. Il bagno era un bugigattolo, formato da un lavandino così piccolo che il getto del rubinetto arrivava a pochi centimetri dal bordo. Non era facile lavarsi i denti senza fare uscire l’acqua dal bordo. In compenso la doccia, anche se piccola, era favolosa per l’enorme getto di acqua calda sulfurea, che si poteva utilizzare senza risparmio, con una sensazione di benessere che non si prova con una comune doccia. La nostra stanza era quella di due studenti a noi sconosciuti, certamente biondissimi, alti e rosei, col naso all’insù, come avevo notato nelle poche persone incontrate nei posti di ristoro. La sera la cena ci fu servita da due bellissimi ragazzini che, piuttosto che trascorrere le vacanze estive nell’ozio, si adoperavano a servire ai tavoli per guadagnare dei soldi. Erano premurosi, un po’ impacciati, perché quel lavoro non era il loro mestiere.
Dopo cena non c’era dove andare. Qualcuno aveva proposto di fare quattro passi fuori dell’albergo-convitto, tanto per non andare a letto presto, ma il freddo pungente della sera scoraggiò tutti. I più coraggiosi, che non temevano il freddo, tornarono dentro dopo aver fatto pochi passi.
Vorrei fermare un po’ l’attenzione sull’abbigliamento delle persone del gruppo. La famiglia del medico di Ragusa fu la più sprovveduta. La moglie e la figlia indossavano sull’abbigliamento estivo una giacca a vento imbottita e non patirono il freddo; ma il medico non portò con sé neanche un pullover di lana. Sugli indumenti estivi indossava soltanto un leggerissimo giubbotto a vento e si lamentava per il freddo patito. Colpevolizzava la moglie che lo aveva trascinato in un paese così freddo, lui che non amava salire neanche sull’Etna, dove la temperatura è più bassa per l’altitudine. Egli medico, la moglie professoressa, la figlia studentessa liceale: nessuno dei tre aveva mai letto in un libro di geografia il clima dell’Islanda?
E che dire della moglie di un imprenditore del nord che aveva messo in valigia alcuni abiti eleganti, da indossare la sera a cena? In un ambiente così spartano, dove la parole che significano inutile e superfluo forse non esistono nel dizionario islandese, come erano ridicoli i suoi tacchi a spillo e le magliette scollate e luccicanti!.
Io e Maria Elena e le altre persone del gruppo avevamo indovinato i capi di abbigliamento, tutti sportivi, caldi, comodi.
3° giorno 17 luglio domenica
Non si pernottava mai nello stesso posto, perciò ogni mattina bisognava mettere in ordine le valigie, chiuderle e portarle davanti al bagagliaio aperto del pullman. Solveig, che aveva un fisico robusto, pensava a caricarle a bordo. Era gentile e disponibile. Peccato che fosse impossibile comunicare con lei. Io talvolta le esprimevo la mia simpatia con un sorriso o con un gesto e scattandole qualche foto per ricordo. Alberto, che conosceva bene l’islandese, conversava correntemente con lei ed io, che preferivo stare sul pullman in prima fila per poter fare le riprese con la telecamera, ascoltavo volentieri quella lingua, mai sentita pronunziare prima, senza capire nulla.
La lingua islandese è quella antica dei vichinghi norvegesi (norreno), che è rimasta pura nel tempo grazie alla posizione geograficamente isolata del paese e alla forte tradizione letteraria. Mentre nella Scandinavia la lingua originaria si è evoluta nel corso dei secoli, dando origine allo svedese e al norvegese e al danese, la lingua islandese è rimasta quella originaria, sicché ancor oggi i lettori moderni non hanno grandi difficoltà a leggere l'Edda (raccolta di 29 carmi in antico islandese) e le saghe medievali (lunghi racconti in prosa di argomento epico-avventuroso con l'introduzione di elementi fiabeschi).
La politica linguistica adottata nel XVIII secolo impedì l'introduzione di parole straniere; perciò termini tecnici e scientifici internazionali vengono tuttora espressi con composti di parole islandesi; inoltre vengono recuperati termini arcaici e vengono creati neologismi su radici di parole islandesi. L'alfabeto latino fu introdotto con il cristianesimo verso l'anno 1000, ma furono conservati gli antichi caratteri runici ð (eth, equivalente a th sonoro) e þ (thorn, indicante th sordo), così come æ e ö.
Ammiro l’amore del popolo islandese per la propria lingua e le proprie tradizioni culturali, che mi fa riflettere su quanto avviene invece nella nostra lingua, che si è imbastardita con l’afflusso di vocaboli ed espressioni straniere, per lo più inglesi. Non c’è articolo di giornale che si possa leggere scorrevolmente per l’intoppo di innumerevoli barbarismi, che si incontrano. Eppure esistono nella nostra lingua le parole equivalenti! Dovremmo tenere a portata di mano un vocabolario inglese, anziché quello italiano, per non rischiare di non capire nulla o in modo approssimativo.
Gli islandesi conservano gelosamente sia la razza dei loro cavalli che la loro lingua originaria.
Saudárkrókur è il nome del paese nel cui convitto avevamo pernottato e che ci apprestavamo a lasciare, non senza sostare prima nel porto peschereccio su un fiordo del Mar Glaciale Artico (Skagafiördur). La mattinata era grigia, ma senza pioggia. Numerosi pescherecci erano fermi nel porto, mentre sulla spiaggia una notevole quantità di merluzzo senza testa pendeva dagli essiccatoi.
Le teste, che pendevano da essiccatoi separati, sono utilizzate per ricavarne farina per l’alimentazione animale. Alberto ci spiegava che la pesca e l'industria di trasformazione ittica rappresentano la maggiore risorsa economica del paese e permette agli abitanti uno dei redditi più alti di Europa: circa il 20% della popolazione attiva è occupato in questo settore.
I ciottoli della spiaggia erano neri, come pure la sabbia del bagnasciuga per la loro origine vulcanica; il mare era di colore azzurro spento, tendente al grigio, perché il cielo era grigio. Raccolsi dalla spiaggia tre pietre per portarmele a casa come ricordo. Nel lasciare il paese Alberto, che conosce bene l'Islanda per esserci stato ben sette volte, ci raccontava come i giovani trascorrono le sere d’inverno: percorrono in auto, avanti e indietro, la strada principale che costeggia il mare. Comodamente seduti in auto e al caldo, si incontrano, fermano l’auto, aprono i finestrini e conversano e poi ripercorrono la stessa strada, fermandosi nuovamente all’incrocio con altri amici, sempre rimanendo dentro l’auto. Si capisce perché fanno così: il freddo glaciale non consente di passeggiare a piedi all’aperto e di fermarsi a conversare.
Dopo un breve percorso di strada che costeggiava il fiordo, ci allontanammo un po’ verso l’interno, fermandoci in uno dei posti più interessanti del nostro viaggio. Un’ampia distesa verde punteggiata da bianche balle di fieno si apriva alla nostra vista. A pochi passi dalla sosta del pullman ci trovammo davanti a una grande fattoria, coperta da tanti tetti di torba in cui cresceva una folta erba verde. A guardarla dall’esterno, la facciata sembrava formata da sei casette attaccate l’una all’altra, ma guardandola all’interno era una unica grande costruzione di torba, nella quale ogni locale aveva un suo tetto spiovente pure di torba coperta di verde, sostenuta da travi di legno.
La fattoria, trasformata nel 1952 in Museo di Cultura Popolare si trova nella località di Glaumbær e conserva oggetti appartenuti alla stessa fattoria e ad altre della zona. Le abitazioni che costituiscono la casa colonica sono di diversi periodi, le più recenti risalenti al 1876-79, la più antica, la cucina, costruita intorno al 1750.Dall'entrata fino al soggiorno si stende un buio corridoio di circa 20 metri, dal quale si aprono, su entrambi i lati, tutte le stanze principali della fattoria. Nel corridoio si trovano due porte, che evitano l'entrata del freddo dal portone dentro le stanze.
Pianta della fattoria di Glaumbær
La porta interna, con gli infissi di legno, è degna di attenzione: i chiodi sono anche di legno e sia i cardini che i ganci sono di legname alla deriva. Nelle pareti del corridoio sono infilate delle lampade di olio di balena, che venivano accese per illuminare i passaggi nelle grandi occasioni e nelle feste religiose.
Fattoria di Glaumbær
La cucina è il vano più antico, costruito nel 1750, ed ha funzionato per tutto il periodo di vita della fattoria fino al 1950, anche se negli ultimi anni veniva usata solamente per la preparazione del sanguinaccio e come lavanderia. Inoltre si usava per affumicare gli alimenti: la carne veniva appesa nelle travi e ivi affumicata. Il legno dell'intera fattoria si è mantenuto intatto, proprio a causa del fumo e della fuliggine che lo hanno protetto dalla muffa, e del calore proveniente dal focolare, che lo ha essiccato. Le travi più antiche sono state ora sostituite da altre più recenti. La materie utilizzate per produrre calore erano la torba e gli escrementi di ovini,
La stanza più interessante è il soggiorno. contemporaneamente sala da pranzo, sala di soggiorno, bottega e dormitorio della famiglia, luogo in cui si cardava, si filava, si faceva la maglia, si follava, si tesseva e si cuciva. Ognuno sedeva nel proprio letto ed alla fine della giornata di lavoro i ragazzi si coricavano nel letti alla destra dell'entrata, e le ragazze nei letti sotto le finestre.
Il soggiorno di Glaumbær, costruito nel 1876, contiene 11 letti, simili a dei cassetti di legno, tutti attaccati in fila a destra e a sinistra della stanza, con uno stretto passaggio tra le due file: dato che per ogni letto potevano dormire anche due per volta, c'era posto per 22 persone nella stanza, quando ce n'era bisogno. Durante le lunghe notti invernali, si lavorava al lume delle minuscole lampade ad olio, mentre un membro della famiglia leggeva racconti o recitava poesie. Ogni tanto giungevano cantastorie itineranti, che raccontavano storie per la famiglia.
Quando arrivava il momento di dormire, le persone si toglievano i soprabiti, e, rimanendo vestiti, si infilavano sotto le coperte di lana e il caldo piumino, di produzione locale. Ogni letto aveva la sua sponda, spesso intagliata, che di giorno veniva appesa alla parete e poi rimessa davanti al letto, per tenere ferme le lenzuola al loro posto.
Non essendoci riscaldamento nella stanza, il calore proveniva soltanto dalle persone stesse, e si manteneva costante, grazie al perfetto isolamento che la costruzione in torba forniva.
Nel soggiorno si conservano oggetti utilizzati per la lavorazione della lana, arcolai, pettini, fusi e seggiole, astucci per i ferri e altro.
Nelle masserie si conservano botti per la conservazione del sanguinaccio e del latte fermentato.
Le spazzole per lavare i recipienti e le funi erano di crine di cavallo.
All’interno del soggiorno e della camera degli ospiti le pareti di torba e il soffitto erano coperte da assi di legno, mentre in cucina e nelle masserie le pareti di torba erano scoperte e sorrette da travi di legno.
La stanza detta “gusa” (cioè spruzzo) veniva usata come camera da letto, studio o per abitazione. Il nome deriva da un'antica leggenda: tanto tempo fa abitava a Glaumbaer una vecchia stizzosa, la quale, quando era di cattivo umore, apriva la porta e svuotava il suo orinale sui vivaci bambini, che passavano per il corridoio. Durante i lunghi inverni, il prete era solito insegnare al bambini le lettere in questa stanza.
Mi è difficile immaginare come si potesse vivere il lungo e buio inverno artico in un ambiente più simile ad una tana sotterranea, con poche finestre e piccolissime, per non disperdere il calore, in tante persone a stretto contatto di gomito.
Oggi quasi tutte le abitazioni sono riscaldate da impianti che utilizzano le abbondantissime sorgenti naturali di acqua calda.
A pochi passi dalla fattoria c’era una casa gialla, adibita a posto di ristoro per i turisti. Tutte le case islandesi, sono di legno rivestito di lamiera verniciata con tinte vivaci
Nella casa gialla a primo piano un banco esponeva dolci e torte preparati in casa. Una scala di legno portava al piano superiore, dove c’era una stanza adibita a museo, in cui si mostravano mobili, suppellettili, capi di vestiario, ritratti dei secoli passati, ecc.
Riprendemmo la strada n.1 che costeggia i fiordi per raggiungere la vicina Acureyri, un po’ sotto il Circolo Polare Artico, seconda città dell’Islanda con 15.000 abitanti. Si trova nel fiordo di Eyjafiordur, sul Mar Glaciale artico. Lungo il viaggio il paesaggio si presentava arido; le montagne rivestite di muschio e velate dalla nebbia.
Arrivammo alle 12,30 e avevamo quattro ore di tempo libero. Sul pullman Alberto aveva proposto al gruppo di trascorrere qualche ora in uno stabilimento geotermale, con varie piscine dove l’acqua veniva mantenuta a diversi gradi, crescendo dai 30 fino ai 40 gradi. Ne parlava in modo entusiastico: egli avrebbe trascorso lì il tempo libero e convinse il gruppo a seguirlo nelle piscine. Aggiunse che era rigorosamente obbligatorio farsi la doccia nudi davanti a tutti, per mostrare di aver lavato bene la parte intima. A questo punto un “oh” di disappunto si levò in coro nel pullman. Il senso del pudore smorzò l’entusiasmo appena nato per un bagno caldo in piscina. Coloro che subito avevano aderito alla proposta si mostrarono perplessi. Alberto si girò verso di noi sorridendo divertito. Si aspettava la nostra reazione. Chissà quante volte l’aveva sentita nel suo lavoro di guida agli italiani! Tornò alla carica precisando che gli spogliatoi erano divisi per uomini e donne. Pausa di riflessione. Alcuni dissero di volere andare, altri che ci avrebbero pensato. Scesi dal pullman, tutti seguirono Alberto. Io e Maria Elena ci dissociammo, preferendo girare per la città, dopo aver consumanto un pasto in un ristorante del centro. La piscina geotermale l’abbiamo a Sciacca e bagni ne abbiamo fatti tanti. Preferivamo andare in cerca di nuove emozioni.
Era domenica, ma gran parte dei negozi erano aperti. Eravamo desiderose di comprare qualcosa di tipico del paese da portare a casa in ricordo del viaggio. Ma nulla meritava di essere acquistato. I souvenirs erano paccottiglia; i pesanti maglioni islandesi, vantati in qualche rivista che avevamo letto a casa, erano grossolani e non indossabili col nostro clima. Lo erano pure berretti, sciarpe, guanti e calzettoni. Mentre curiosavamo nel negozio, la proprietaria sferruzzava dietro il bancone. Tutti gli indumenti di lana esposti nei negozi sono lavorati a mano dalle donne islandesi. Non comprammo nulla, ma ci divertimmo a fotografare vari maglioni, nell’eventualità che, tornate a casa, ci venisse voglia di riprodurne uno con i caratteristici disegni geometrici, utilizzando però un filato più sottile e morbido.
Esaurito il giro dei negozi e consumato un pranzo leggero in un ristorante del centro, ci avvicinammo al porto, dove sostavano alcune navi da crociera. Da lì, alzando lo sguardo, si vedeva la cattedrale luterana in stile moderno sulla sommità di un’altura. Salimmo la lunga scalinata e ci fermammo davanti alla cattedrale a guardare il panorama sottostante. Lo sguardo abbracciava tutta la città e il fiordo.
Per la prima volta vedemmo degli alberi in un parco intorno alla chiesa. La posizione di Acureyri, riparata dai venti gelidi artici, consente la vegetazione di alberi di modesta altezza e un piccolo orto botanico.
Il nostro abbigliamento era decisamente invernale, adatto a ripararci dall’aria pungente. Entrammo nella cattedrale, di modesta ampiezza e spoglia di ornamenti, e dopo un breve riposo sedute su un banco, scendemmo la scalinata fino alla piazza del centro. Ci piaceva fotografare le case, dall’architettura diversa dalla nostra. La maggior parte di esse erano rivestite di lamiera dipinta: se i colori erano forti (rosso scuro, blu) i tetti erano chiari; al contrario, se le pareti erano chiare, i tetti erano dipinti di rosso o di qualche altro colore forte. Incontrammo alcuni del nostro gruppo, che ci fermarono dicendo: “Non vi ho visto nelle piscine! Non sapete cosa vi siete perse! “ Una anziana signora milanese, piccolina e arzilla, ci spiegò la meraviglia delle piscine: “Dapprima siamo entrati in quella con l’acqua a trenta gradi, poi nella successiva con l’acqua a trentacinque, poi a trentotto e infine a quaranta gradi! Ci stavamo cuocendo!” Io spiegai che a Sciacca, dove noi viviamo, abbiano una grande piscina con la stessa acqua meravigliosa e avevamo preferito girare per la città alla ricerca di immagini nuove e per fare un giro per i negozi.
Ma le nostre aspettative erano andate deluse, non essendoci tanto d’interessante da vedere, e niente da comprare. Per passare il tempo che ancora ci rimaneva rifacemmo il giro degli stessi negozi. In uno incontrammo il dottor Di Rosa intento a provare delle giacche di lana o imbottite perché, sprovvisto com’era di indumenti invernali, si stava rovinando la vacanza a causa del freddo. La circonferenza della sua pancia era tale che nessuna giacca gli andava bene. Si sentiva goffo e impacciato. La moglie lo aiutava a sfilarsi gli indumenti che provava, mentre la figlia guardava perplessa. Infine non comprò nulla. Forse pensava che, tornato in Italia, non avrebbe più utilizzato una di quelle giacche costose e quindi non valeva la pena spendere denaro per pochi giorni di viaggio. I prezzi in Islanda erano molto più cari dei nostri e la qualità inferiore. Preferì patire il freddo, forse sperando che nei giorni seguenti l’avaro sole si sarebbe scoperto e lo avrebbe riscaldato! Io e Maria Elena aguzzammo lo sguardo sugli oggetti esposti sui banchi o nelle vetrine: ci pareva impossibile non provare la gioia di acquistare un oggettino anche da nulla, ma gradevole, da portare in Italia. Nella nostra grande casa a Sciacca ho creato degli angolini per ricordare i nostri viaggi: c’è l’angolino cinese con i draghi di legno, le statuine dell’esercito di terracotta, un quadro con il mio nome scritto con i caratteri cinesi, un altro con le banconote incollate in bella mostra su uno sfondo di carta bianco, ecc. C’è la zona del Messico, con le pelli dipinte di Palenque, le statuette di ossidiana di Teotihuàcan, o di terracotta di Monte Albàn, ecc. Tralascio l’elenco di altri innumerevoli oggetti comprati in viaggio, sparsi in tutta la casa e che guardo sempre con piacere. Tra tutti avrei avuto piacere di collocare in un angolino almeno un oggetto che mi ricordasse l’Islanda, ma mi rifiutavo di ricomprare paccottiglia. La cosa che suscitò in me una certa emozione fu vedere nell’espositore dei libri, un volume del premio Nobel 1955 per la letteratura, Halldór Laxness. Avevo letto il libro parecchi anni prima, preso in prestito alla Biblioteca Comunale di Sciacca. L’avevo preso a caso dallo scaffale in cui erano raccolti tutti i premi Nobel per la letteratura e mi aveva tanto interessato. Se ne avessi avuto il tempo l’avrei riletto prima della partenza per l’Islanda. Sarebbe stato il miglior oggetto che avrei potuto comprare come ricordo, se fosse stato scritto in italiano. Lo rigiravo tra le mani, fissando la foto dell’autore sulla copertina e poi lo riposi sul banco, dopo aver pregato Maria Elena di scattarmi una foto con il libro in mano.
Ecco l’emozione più gratificante provata ad Acureyri.
Tornata a Sciacca, ripresi subito in prestito il volume, contenente il romanzo Salka Walka, ed altri racconti, in tutto 700 pagine, e lo rilessi in pochi giorni con uno spirito nuovo. Il libro che avevo letto prima del viaggio mi faceva immaginare con qualche perplessità i luoghi, la vita e i sentimenti dei personaggi, l’ambiente. La rilettura invece mi fece rivedere i fiordi che avevo visto, l’atmosfera plumbea e piovigginosa in cui gli islandesi vivono la maggior parte dell’anno, il duro lavoro della pesca e della lavorazione del pesce. Pagina dopo pagina mi pareva di sentire l’odore del pesce, il vento gelido penetrare nelle ossa e di vedere la casa della protagonista Salka Walka, simile alla fattoria di Glaumbær, con le pareti di torba, senza il riscaldamento moderno.
Ammiro gli islandesi per il coraggio di vivere in una terra avara di ogni cosa, impossibile da dominare, a cui si sono assoggettati per sopravvivere e penso a quanto siamo fortunati noi del Mediterraneo a godere del calore e dello splendore del sole, della luce sfavillante, del profumo dei fiori, del sapore dei frutti, del mare caldo d’estate, delle stelle della notte, che lassù in estate la luce impedisce di vedere. La piazza di Acureyri era adorna da grosse ciotole di fiori multicolori, non nati e sbocciati sotto il cielo, ma nel chiuso delle serre riscaldate artificialmente.
Ormai, nella seconda e ultima città dell’Islanda non c’era nulla da scoprire. All’orario stabilito salimmo tutti quanti sul pullman e ci lasciammo il fiordo alle spalle.
Dopo circa tre quarti d’ora di strada Alberto ci fece scendere presso la Cascata degli Dei (Godafoss). La temperatura ci sembrava ancora più bassa: un vento gelido indolenziva le labbra e le mani. Avrei potuto mettere i guanti di lana che tenevo nella tasca della giacca, ma non lo feci per non essere impedita nelle riprese con la telecamera e nello scattare le foto.
Una storia del luogo, scritta in un tabellone in varie lingue, che io lessi dal francese, mancando la traduzione italiana, racconta che nell’anno 1000, il capo della regione di Ljósavatn, sul quale incombeva la responsabilità di decidere se gli islandesi dovessero adottare il cristianesimo, tornato da una seduta del Parlamento, dove ora c’è il Parco Nazionale di Thingvellir, visitato il primo giorno, fece accettare ai suoi compatrioti la nuova religione. Rientrato nella sua regione, gettò le statue delle divinità pagane nella cascata. Il nome di Godafoss (La caduta degli dei) deriverebbe da questo avvenimento.
Proseguimmo il viaggio per raggiungere l’albergo con la nebbia e la pioggerellina. Il gruppo si divise per mancanza di posti nell’albergo-convitto del paesino di Laugar; io con Maria Elena e la famiglia Di Rosa alloggiammo in una bella fattoria agrituristica non molto distante da Laugar, gestita da una famiglia che viveva nella stessa costruzione, trasformata in alberghetto.
Ricordo bene la stanza, a piano terra, grande, semplice, con due finestre rettangolari basse, da cui si vedeva il verdeggiante panorama e una vasca all’aperto piena di acqua sulfurea calda a pochi passi dalle nostre finestre. Accanto gli spogliatoi. Vedemmo immersi nella vasca fumante due coniugi, che non si curavano della pioggerellina e del freddo dell’aria.
Ricordai che anch’io nel mese di dicembre avevo fatto parecchi bagni nella piscina di Sciacca, quando ancora era a cielo aperto (ora è coperta da pareti e tetto apribili), provando una incredibile sensazione di benessere. L’acqua, mantenuta ovviamente più calda nei mesi invernali, era così avvolgente col suo calore protettivo, che il freddo dell’aria esterna non riusciva a penetrare. Nessun brivido provavo nell’uscire dalla vasca e il calore immagazzinato in un’ora di immersione si manteneva per parecchio tempo. La vasca della fattoria era alta quanto un uomo e aveva un diametro di non più di due metri. Intorno alla vasca un prato verdissimo rorido di acquerugiola in contrasto con il grigiore del cielo; attorno alla piscina di Sciacca invece palme, buganvillee e altri rampicanti fioriti, e un cielo azzurro smagliante sopra la testa, come immagino sia il Paradiso terrestre.
La cena fu consumata tutti insieme nel convitto di Laugar, dove noi e i Di Rosa arrivammo accompagnati da Solveig in pullman.
nell’albergo-convitto per la cena. Visibile la pioggia che bagna i vetri.
4° giorno, 18 luglio lunedìKRAFLAL’indomani, dopo una bella colazione nella fattoria agrituristica, nel tepore della sala da pranzo, uscimmo fuori per sistemare i bagagli sul pullman e partire per una nuova meta. Il freddo era pungente e l’erba bagnata ci inzuppava gli scarponcini. Dissi a Maria Elena: “ Se l’estate è come il nostro inverno, com’è l’inverno in Islanda?” Lo dissi pure a Alberto perché mi parlasse dell’inverno islandese, dato che egli lo aveva provato tante volte. Mi rispose sbrigativamente che fa molto freddo. Ero delusa: in teoria lo sapevo anch’io, ma c’è freddo e freddo. Anche da noi in Sicilia diciamo che c’è freddo in inverno; ma il freddo siciliano non è quello islandese. Mi piacerebbe trovarmi per qualche giorno in quell’isola, che immagino tutta bianca di neve e al buio. Oltre al freddo invernale, vorrei provare solo per qualche giorno quali sensazioni si provano senza vedere il sole. Penso che non potrei sopportare a lungo il buio o la luce artificiale.
Eravamo ancora nell’Islanda settentrionale a est di Acureyri.
Alberto ci annunciò che saremmo andati verso l’interno, a Krafla, la zona vulcanica più attiva, con un’altitudine di 600 m. Costeggiammo per un tratto il grande lago Mývatn, profondo 4 m, in un paesaggio che somigliava a quello lunare. Mývatn significa “lago dei moscerini”. L’acqua calda consente la vita ai moscerini, di cui si nutrono tanti tipi di uccelli.
Il lago riceve le fredde acque del fiume Laxa, che sono le più ricche di salmone. Ci capitò di vedere qualche pescatore protetto da lunghi stivali di gomma, immerso fino alle ginocchia, per la pesca del salmone con la lenza.
L’acqua calda, nata nelle grotte sotterranee del lago Mývatn, viene convertita in energia geotermica e utilizzata per riscaldare le case. In alcuni punti raggiunge i 70°.
Scattai una foto dal pullman ad una centrale geotermica. Di tanto in tanto si vedevano le pecore islandesi con i loro agnellini, sempre in gruppi di tre.
Quella che finora avevamo percorso non era una strada, ma terra battuta dalle ruote dei veicoli che si avventuravano in un una zona che mai avevo immaginato potesse esistere. Dei paletti infissi al suolo e una corda come il filo di Arianna segnavano il percorso da seguire per addentrarci nell’altopiano vulcanico e poter ritornare al pullman.
Il freddo era più forte che altrove. Per me non era un problema: fasciai la testa con un foulard di lana e me la coprii con il cappuccio imbottito del giaccone. Maria Elena si avvolse il collo con una sciarpa e si coprì la testa con il cappuccio del giaccone imbottito di piume d’oca. Camminavamo in fila sulla lava girando lo sguardo intorno, con la sensazione di essere fuori dal pianeta Terra e fuori dal tempo. Il vulcano Krafla non era una montagna conica col cratere in cima, come l’Etna o il Vesuvio, gli unici che ho visto da vicino, ma era un esteso territorio, senza confini ai nostri occhi, dalle cui crepe fuoriusciva la lava durante le eruzioni. L’ultima eruzione risale a venti anni fa.
A Krafla si può vedere come l’ Islanda sia emersa dal mare milioni di anni fa in seguito alle continue eruzioni scaturite dal fondo dell’oceano e si sia avvicinata sempre più alla superficie per il continuo accumularsi della lava. Quella su cui camminavamo era la più recente, porosa come una spugna e tagliente come una miriade di piccolissimi rasoi. A piedi nudi ci saremmo tagliuzzati la pelle.
Il filo di Arianna ci condusse in una zona fumante. Dalle profondità della terra fuoriusciva acqua sulfurea, e vapore caldo, formando una larga pozza dai bordi giallastri e verdognoli. Notammo che dappertutto usciva vapore tiepido dagli alveoli della lava spugnosa, in contrasto con il freddo dell’aria. I paletti col filo di Arianna finivano presso quel piccolo stagno di acqua sulfurea, ma noi continuammo ad addentrarci, seguendo i passi di Alberto, la cui presenza ci dava sicurezza. Se ci fossimo trovati soli, ci saremmo sentiti come naufraghi in mezzo all’oceano. Non era facile orientarsi, essendo il cielo coperto e la luce grigia e uniforme. Facendo perno su noi stessi e girando lo sguardo a 360 gradi, non si vedeva altro che lava più o meno nera, talvolta rossiccia, a seconda dei minerali contenuti. L’impressione generale era quella di una terra in cui un grande incendio avesse distrutto tutto e lasciato carbone e cenere ancora fumanti.
Non dimenticherò mai Krafla, in cui la realtà supera l’immaginazione. La solitudine angosciante del luogo e la mancanza di orientamento evocavano l’immagine dell’Inferno.
Alberto spiegava che col passare degli anni il vapore che usciva dalla lava avrebbe sgretolato la roccia e vi sarebbe nata la prima forma di vita: il muschio.
Il miglior souvenir che avrei potuto portare a casa era la lava di Krafla. Raccolsi due pietre porose e le conservai dentro lo zaino. Anche Maria Elena a mia insaputa ne aveva raccolto altre due e conservate nel suo zaino. Dopo vedemmo il dottor Di Rosa chinarsi e raccogliere anche lui una pietra e osservarla da vicino. Alberto se ne accorse e lo redarguì severamente, dicendo che era proibito portarsi via la lava di Krafla. Mi sembrò che esagerasse e intervenni in difesa del nostro compagno di viaggio, dicendo che togliere una pietra in quell’immensità era come togliere una goccia d’acqua dall’oceano. Alberto ribatté che ogni anno 180 mila turisti visitano Krafla e che se ognuno portasse via una pietra l’aspetto del paesaggio cambierebbe. Il dottor Di Rosa, quasi intimidito, disse che non aveva nessuna intenzione di portarsi a casa la pietra e che l’aveva raccolta in mano soltanto per guardarla da vicino e mostrarla alla moglie che gli era accanto e lo sosteneva. Io e Maria Elena ci guardammo in faccia, senza alcun senso di colpa, contente che Alberto non si fosse accorto delle nostre pietre, conservate nello zaino come reliquie preziose.Ora le quattro pietre sono in un vassoio di ceramica a far mostra si sé nel soggiorno. Sono bellissime, frastagliate e porose più delle spugne marine, dai colori diversi: una è completamente nera; la più grande è ancora più scura con qualche striatura violacea; la terza quasi tutta rossiccia; la più piccola è bicolore, bianca da un lato, dall’altro sembra sia stata spruzzata di marrone e di grigio. Tornata a Sciacca ebbi timore a tenere in casa le quattro pietre, ricordando quanto Alberto aveva spiegato sul posto, cioè che la lava su cui camminavamo liberava continuamente “radon”, elemento naturale radioattivo, nocivo alla salute se fossimo rimasti esposti per lungo tempo in quella zona. Per tutta l’estate tenni le pietre in un balcone all’aperto. Poi, temendo che si deteriorassero, le collocai nel soggiorno, dove entro raramente. Tornammo indietro, a riprendere il pullman. Ci spostammo verso sud, nel cuore dell’Islanda, nella zona del vulcano Askja. Alberto ci accompagnò a piedi fin sul bordo di un cratere. Non si vedeva subito il cratere a causa della nebbia. Sporgendomi dall’orlo e aguzzando la vista, vidi come attraverso un velo il fondo pieno di acqua calda. Forse il velo di nebbia era appesantito dal vapore del lago vulcanico. Quel lago vulcanico si chiamava “Viti”, che in lingua islandese vuol dire “Inferno”.
NámafjallLe emozioni non erano finite. Era mezzogiorno quando il pullman ci portò nelle vicine solfatare di Námafjall, Io ero impreparata a quella vista, come a Krafla. Nuvole di vapore uscivano dal suolo e si spandevano nell’aria. Camminando a piedi si incontravano pozze di fango bollente azzurrognolo che gorgogliava come il budino che bolle sul fuoco. Erano tante e le ripresi con la telecamera. Maria Elena faceva altrettanto con la macchina fotografica digitale. Andando oltre venivamo investiti da calde nuvole di vapore e da un rumore che si faceva più forte man mano che avanzavamo. Il rumore, simile a quello di un trattore in moto, proveniva da piccoli coni vulcanici, alti poco più di un metro, vuoti all’interno, da cui usciva una grossa nuvola di vapore caldo. Infreddoliti come eravamo dopo la visita a Krafla, ad uno ad uno ci infilammo dentro la nuvola, provando una piacevole sensazione avvolgente di benessere. C’erano a Námafjall parecchi coni che emettevano vapore e li provammo tutti, incuranti di inumidirci i capelli e i vestiti. Non potevamo tralasciare di provare una sensazione nuova e irripetibile. Un cartello spiegava che a mille metri di profondità il vapore supera i 200 gradi, accompagnato da gas, tra cui l’idrogeno solforato cha dà alle sorgenti il loro odore caratteristico.
La faglia.Era ora di pranzo, ma prima di arrivare al più vicino posto di ristoro ci fermammo in una zona dove si vede tangibilmente la faglia che spacca in due l’Islanda da sud-ovest (l’avevamo vista il primo giorno nel Parco Nazionale di Thingvellir, sede del primo Parlamento vichingo e di Europa) fino a nord-est, dove ci travavamo. La faglia si presentava lunga fin dove arrivava la vista.
Secondo la “Teoria della tettonica a zolle e della deriva dei continenti “, la litosfera terrestre (lo strato più esterno della Terra) è suddivisa in numerose placche, o zolle tettoniche, che si muovono incessantemente le une rispetto alle altre, trascinate dalle correnti che agitano lo strato semifluido sottostante, tra circa 100 e 250 km di profondità. Secondo i geologi, ci sono una ventina di placche. Lungo i loro margini è concentrata la maggior parte dell'attività sismica rilevata sulla Terra.Ora, la faglia che noi vedevamo divide l’Islanda in due parti, una situata sulla zolla americana, l’altra su quella euroasiatica, che col passare di chissà quanti anni, si allontaneranno fino a creare due isole.
La faglia che divide il continente americano
(a destra) da quello eurasiatico
La faglia era stretta, tanto che potevamo mettere un piede sulla zolla americana e l’altro su quella eurasiatica. Alberto, che sul pullman ci aveva parlato per sommi capi della tettonica a zolle, si divertiva a vederci scattare tante foto mentre ognuno di noi divaricava le gambe sopra la faglia.
Era sollevata di circa due metri rispetto al livello della strada e somigliava ai labbri di una ferita.
Prima di salire sulla scarpata della faglia scendemmo in una piccola grotta sottostante, dove c’era un laghetto di acqua calda.
Dopo la breve sosta, il pullman ci portò in un luogo di ristoro, dove il pranzo era self-service e costava il prezzo fisso di 1.400 corone a persona (una corona equivale a € 1,30, perciò il pranzo costava poco più di 18 euro).
Il locale, era piccolo, ma c’era posto per tutti. Alberto, che lo conosceva bene, ci aveva parlato di quello che avremmo potuto mangiare. Tra le tante stranezze culinarie islandesi di cui parlava, ricordo solo la carne di balena lasciata imputridire sotto la sabbia e tagliata in cubetti. In ogni mio viaggio all’estero la cucina occupa nella mia mente l’ultimo dei miei pensieri. Non ricordo mai le pietanze consumate all’estero, tranne quando sono troppo strane per le nostre abitudini, come la carne arrostita con la marmellata ad Aquisgrana, la banana fritta in Scozia, le tortillas in Messico, il panetto senza crosta in Cina, cotto a vapore, in cestini di vimini, in pila uno sull’altro, sopra un recipiente di acqua bollente su una fiamma che produceva vapore continuo. Di ritorno a casa una sola volta tentai di cuocere alcuni panetti in un cestino posato su una pentola in ebollizione, senza riuscire a ottenere qualcosa di commestibile.
Nel ristorante vicino alla faglia, passavamo davanti ai tavoli col piatto in mano per guardare i vari cibi esposti e scegliere. Io volevo andare sul sicuro, scegliendo pietanze che riconoscevo, come una zuppa vegetale, pesce e insalata; Maria Elena invece, per curiosità, era attratta da cibi che non si capiva di che natura fossero. Tra alcuni cibi incomprensibili c’erano dei cubetti più piccoli dei dadi. Ci sedemmo al nostro tavolo e cominciammo a mangiare. Ad un tratto vidi Maria Elena fare una smorfia di disgusto. Il cubetto nauseabondo, appena assaggiato era probabilmente la carne marcia di balena, di cui aveva parlato Alberto. Io mangiai con soddisfazione tutto quello che avevo scelto, senza sorprese.
Trascorsa circa un’ora per il pranzo proseguimmo per il Parco di Dimmurborgir, un luogo straordinario, dove i fenomeni vulcanici avevano creato delle alture di lava porosa, frastagliata, con guglie, tali da far pensare a dei bui castelli medioevali. Infatti quelle formazioni rocciose erano chiamate Castelli neri. Alberto nel centro del gruppo esponeva le spiegazioni date dai geologi al fenomeno. Io non potevo ascoltare, rapita com’ero dalla visione degli innumerevoli castelli neri e dal desiderio di filmare e fotografare, che mi costringeva spesso a fermarmi per le inquadrature, col timore di rimanere indietro rispetto al gruppo, che continuava a camminare per gli impervi sentieri, mentre ascoltava Alberto.
Ad ogni svolta del sentiero apparivano nuovi castelli spiccanti sul verde delle betulle nane, che sono l’unica vegetazione, resa possibile perché il luogo è riparato del vento.
Guardavo senza immaginare come si fossero formati. Perdevo i discorsi di Alberto, ma pensavo che a casa avrei trovato qualche spiegazione in una enciclopedia o nelle riviste che avevo frettolosamente letto prima della partenza. All’uscita dal parco mi venne in aiuto un cartello che illustrava le ipotesi sulla formazione dei Castelli neri di Dimmurborgir. Non avevo tempo per leggere e tradurre dal francese (la lingua italiana era assente). Fotografai il tabellone con le didascalie, che avrei tradotto ed esaminato con più agio al ritorno a casa.
Riporto il tabellone, confessando di non aver capito granché, ma non mi importa, tanto più che si tratta di ipotesi, non di cosa certa. 1 2 3 4
Traduzione dal francese di un tabellone del luogo:
Ipotesi sulla formazione di DimmurborgirFigura 1- Il magma fuso si riversa in una depressione piena di acqua o di paludi, e forma un lago di lava. Lo strato inferiore si solidifica istan taneamente. La lava di superficie si solidifica rapidamente.
Figura 2 - Il magma riscalda l’acqua del fondo trascinando una imponente formazione di vapore vicino alla superficie, sotto lo strato di lava supe-riore. Il vapore si sprigiona attra-verso i camini e il magma che lo circonda indurisce.
Figura 3- La roccia che delimitava il lago si spezza. La lava fusa scorre dentro i camini di fuga del vapore, seguendo il letto di lava più vecchio. La crosta su-perficiale scende.
Figura 4- Restano blocchi e creste, resti di camini di vapore, ecc. separati da canali e brecce attraverso cui è uscito il magma.
La quarta giornata di viaggio non era ancora finita. Troppe cose avevamo visto in un solo giorno e temevo che, tornate a casa, avrei fatto confusione. Le immagini e le esperienze nuove si accumulavano dilatando il tempo, come se non fossero passati quattro giorni, ma molti di più. Per timore di non ricordare i nomi dei luoghi visitati, spesso difficili da pronunziare, prendevo appunti su un quaderno segnando le date e controllando sulla carta geografica i luoghi attraversati. Gli appunti mi avrebbero aiutato a riconoscerli nelle foto. La data e l’ora che la macchina fotografica digitale segna automaticamente mi avrebbero aiutato a mettere in ordine cronologico le immagini che si accumulavano nella mia mente.
Lasciati i Castelli neri di Dimmuborgir e viaggiando verso l’interno ci fermammo presso una fattoria, che Alberto diceva essere l’unica abitazione di quel luogo desertico, che era l’altopiano di Modrudalur. Non arrivava la corrente elettrica, che nella fattoria veniva prodotta con un generatore. La costruzione era di torba, all’interno rivestita di assi di legno.
L’unica fattoria dell’altopiano di Modrudalur, costruita con
strati di torba. Sul tetto cresce una folta erbetta 18-7-2005.
strati di torba. Sul tetto cresce una folta erbetta 18-7-2005.
La famiglia che vi abitava gestiva un posto di ristoro per i turisti. Dietro il banco una ragazza serviva le bevande che desideravamo. Non c’era grande varietà di scelta. Io mi ristorai con una tazza di cioccolata calda.
La ragazza era giovanissima e stentavo a credere che potesse vivere in un luogo così isolato, senza scambi con altre persone che non fossero turisti di passaggio come noi. Supponevo che la famiglia soggiornasse in quell’altopiano solo in estate e che in inverno si dedicasse ad altra attività lavorativa in un altro luogo meno ostile. La vista di un trattore nella distesa verde circostante mi fece supporre che la terra intorno venisse coltivata a foraggio per l’allevamento del bestiame. Non chiesi spiegazioni a Alberto, che era parco di risposte, quando gli rivolgevamo delle domande, e rimasi con mille dubbi. Andati via i turisti, passata l’estate, quanta solitudine, quanto silenzio, quanto buio. Se la vita nella nostra terra spesso ci sembra stressante, quella vita mi pareva deprimente. Provai a immaginare un abitante della fattoria guidare un’automobile in una delle nostre città, dove il traffico è intenso e non si sa dove parcheggiarla.
E i ragazzi della fattoria come passano il tempo libero? Conoscono la frenesia del sabato sera dei nostri giovani?
Ripreso il viaggio, attraversammo una delle zone più aride da me viste, il deserto nero, nell’altopiano di Modrudalur. Non è difficile capire perché il deserto è nero. L’Islanda è una terra giovane, nata dalle sovrapposizioni delle eruzioni vulcaniche. La terra, le sabbie, le rocce sono tutte nere perché di origine lavica. Anche i ghiacciai che coprono i vulcani mostrano delle zone grigie perché imprigionano i materiali di lava sgretolati.
La sosta fu brevissima per foto e riprese. Poi risalimmo sul pullman per raggiungere l’ultima tappa della giornata, la cittadina di Egilsstadir (1.000 ab.), capoluogo dell’Islanda dell’Est, per la cena e il pernottamento.
5° giorno 19 luglio martedì
I fiordi orientali e la casa di Petra
Eravamo ormai usciti dall’interno desertico e ripreso la strada N.1, asfaltata, che costeggiava i fiordi. Il paesaggio era cambiato. Al nero del deserto succedeva il verde dei fiordi. Il clima era meno ostile anche se piovigginava, come ogni giorno dall’inizio del viaggio. I fiordi islandesi, che nella carta geografica appaiono frastagliati come quelli norvegesi, erano invece completamente diversi e deludenti per chi avesse già visitato la Norvegia. Le coste che vedevamo erano basse o poco alte sul livello del mare, ricoperte di muschio in basso, di macchie bianche di ghiaccio sulle creste.
Un cimitero francese con 49 tombe ricorda che il villaggio era, alla fine del XIX secolo a all’inizio del XX, uno dei principali porti di attracco dei marinai francesi sulle coste islandesi, quando le campagne di pesca francesi conoscevano un apogeo tra il 1880 e il 1914. Le ultime golette francesi toccarono terra a Fáskruosfiordur verso il 1930
Ricordo invece l’emozione fortissima provata nel vedere i fiordi norvegesi da ogni punto di vista: dalla nave, dal pullman, dall’aereo. Avevo scritto su una cartolina inviata a parenti che la realtà superava l’immaginazione. Montagne coperte di betulle, alte e a picco sul mare, mostravano la loro superba bellezza, specchiandosi sulle piatte acque, verdi come le betulle e ferme come quelle dei laghi. Infatti laghi chiusi sembravano le acque dei fiordi per il serpeggiare delle montagne, sui cui fianchi era scavata una stretta strada costiera, sulla quale due pullman che si incrociavano passavano grazie alla perizia degli autisti, che avanzavano centimetro per centimetro. I fiordi islandesi apparivano meno imponenti, ma era pur sempre bello vederli, dopo essere usciti dalla deprimente solitudine del deserto.
Si incontravano le coloratissime case dei pescatori, qualche automobile e poi una insolita vista: terra spianata, ruspe, gru e una fila di alloggiamenti tutti uguali per operai. L’ Eskifiördur (così si chiamava il fiordo) era stato aggredito dall’uomo per la costruzione di una imponente centrale idroelettrica, da utilizzare per un alluminificio. Il paesaggio del luogo si sarebbe trasformato. Tale imponente opera avrebbe dato impulso ad uno sviluppo economico che avrebbe popolato la zona, poco abitata. Alberto diceva che in Islanda c’erano due correnti discordanti, quella degli ambientalisti, che difendeva l’integrità naturale del fiordo, quella dei progressisti, che difendeva lo sviluppo economico del paese e l’incremento della popolazione in quella zona orientale scarsamente popolata. Quell’opera iniziata aveva intanto creato del malcontento perché la ditta che aveva presso l’appalto era straniera e utilizzava manodopera straniera ad un costo più basso, deludendo così le aspettative di coloro che lottavano per il benessere economico del fiordo orientale e per il suo popolamento.
Dopo aver pranzato in una piccola area di servizio lungo la strada, sostammo a Stödvarfjördur per visitare la casa di Petra Sveinsdóttir, una donna che oggi ha 81 anni, che ha raccolto nella sua casa, come in un museo, una grande quantità di pietre, trovate nelle sue passeggiate nei dintorni.
Nessuno del gruppo mostrava interesse per la mineralogia, deludendo Alberto che aveva proposto quella sosta alla agenzia turistica, da cui dipendeva. Petra Sveinsdóttir che, circondata dai suoi familiari, si fece riprendere dalla mia telecamera, aveva avuto dei riconoscimenti dal Presidente della Repubblica islandese.
Ciò che mi piacque vedere della casa di Petra non erano i suoi minerali, ma l’interno della casa, in cui le stanze erano diventate sale di esposizione dei suoi minerali, tranne la cucina, dove era radunata con la figlia e i nipoti attorno al tavolo, in compagnia di Alberto, che conversava con loro mentre insieme bevevano il caffè, il cui aroma si spandeva nel corridoio. Invece di guardare le vetrine, mi soffermai sulla soglia della sua camera da letto, piccola, dipinta di azzurro, con il suo lettino, una poltrona, una cassettiera e la televisione. La parete a cui era addossato il suo lettino era piena di fotografie fino al soffitto. Da una delle stanze si accedeva ad una verandina esterna, coperta dal tetto e da pareti di vetro, dove stavano alcune sedie di vimini e delle ciotole di fiori coltivati. Il giardinetto intorno era ben curato ed esponeva lungo i vialetti e in ogni angolo tutti i minerali trovati da Petra nell’arco della sua vita. Non si vedevano altre case intorno.
I cognomi islandesi sono patronimici. Quelli dei maschi finiscono con “son” , che significa figlio, quello delle femmine finisce con “dottir”, che significa figlia.
Il cognome di Petra, Sveinsdóttir, significa figlia di Svein.
Se io fossi islandese mi chiamerei Nietta Jhosdóttir, cioè figlia di Giuseppe, mentre mio fratello si chiamerebbe Nino Jhosson (ammesso che Giuseppe in islandese si dica Jho). Il vero cognome del premio nobel per la letteratura 1955, Halldór Laxness , è Gudjónsson, cioè figlio di Gudjón. (Laxness è uno pseudonimo).
Le sterne articheDa quando avevamo lasciato i luoghi desolati dell’interno, i fiordi orientali ci apparivano finalmente rasserenanti. I colori del paesaggio erano diversi dai nostri abituali: le vallate verdissime di muschio, in contrasto con il colore scuro dei monti, il colore del mare, mai azzurro, che da allora era sempre in vista, la strada nera, quando non era asfaltata, non creavano un’atmosfera amena, anzi severa, che però nell’insieme allargava il cuore, dopo aver provato l’incubo di Krafla e del deserto nero. Costeggiando il mare, arrivammo in vista del ghiacciaio Vatnajökull, che arrivava fino alla spiaggia ed era così esteso che non lo perdemmo di vista per per tutta la giornata, viaggiando intorno ad esso.
Lasciata la casa di Petra, sostammo per mezz’ora sulle rive del fiordo ricoperto di soffice muschio, liberi di esplorare gli anfratti, di immergere le mani nell’acqua marina, di andare in cerca di pietre particolari col desiderio di trovarne una colorata da portare a casa, come aveva fatto Petra nel lungo tempo libero della sua vita. Una compagna di viaggio trovò una bella pietra di colore verde, che custodì gelosamente nella sua tasca, dopo averla mostrata agli altri. Anch’io amo le pietre e speravo di essere fortunata come lei. Non trovai nulla di interessante. Trovai invece tra il muschio ciuffi di piccoli fiori rosa, che fotografai come gioielli rari.
Quella passeggiata tra muschio e cielo, mare e montagne ci fondeva con la natura. Non c’era nessuno nel luogo, all’infuori di noi.
Un compagno di viaggio ci venne incontro con qualcosa racchiuso nella mano. Un uccello dal becco rosso volteggiava sulla sua testa in atteggiamento aggressivo. Cosa aveva trovato da mostrarci? Aprì un po’ la mano e apparve un morbido batuffolino pigolante. Era un pulcino di sterna artica. Disse che ce n’erano tanti a terra, nelle concavità del muschio, e quella che volteggiava minacciosa sulle nostre teste era la madre offesa, che cercava di difendere il suo piccolo, prigioniero nella mano di un uomo.
Un pulcino di sterna artica
Dopo averlo fotografato (non solo io) il pulcino fu posato a terra, che saltellando si allontanò da noi guidato dalla madre in volo.
Le sterne sono uccelli marini di media grandezza, dal piumaggio bianco con qualche sfumatura grigia o nera sul dorso . Vivono sulle coste dell'oceano, dove si nutrono di pesci e di piccoli invertebrati marini e nidificano sul terreno, sulle spiagge o nelle aree aperte dell'entroterra. Arrivano in Islanda in primavera per nidificare e ripartono con i piccoli in autunno per le coste dell’emisfero antartico. Era la prima volta che le vedevamo da vicino. Guardando attentamente scoprivamo nelle leggere depressioni sia i pulcini appena nati che le uova prossime alla schiusa.
Quel tuffo nella natura ci aveva ristorato lo spirito.
Salimmo sul pullman per raggiungere il paesino di Djúpivogur, per la cena e il pernottamento. Il paesaggio lungo il percorso era incredibilmente bello. Per un lungo tratto campeggiava una montagna di roccia nuda, azzurrognola, a forma di una piramide perfetta. L’associai nella mente alla grande Piramide del Sole della civiltà preazteca, vista l’anno scorso vicino a Città del Messico, e anche alla Piramide egizia di Cheope, vista solo nelle fotografie. Girando col pullman non staccavo lo sguardo da quella piramide naturale, che appariva in angolazione diversa ad ogni curva della strada. Quando arrivammo a destinazione, in un albergo su un porticciolo, e mi avvicinai alla finestra della camera assegnatami, vidi di fronte a me la bella piramide azzurra, dalla cima appuntita.
Durante la cena Alberto ci avvisò che l’indomani non avremmo trovato nessun luogo di ristoro per il pranzo, perciò ci consigliò di andare nel vicino negozio a comprare qualcosa da mangiare, prima della chiusura. Il negozio era piccolo ed esponeva un po’ di tutto, non solo generi alimentari. Riconobbi molta merce di marca italiana: caffè, saponette, dentifrici, cosmetici, ecc. Ci ritirammo nella nostra camera d’albergo per la notte e ci addormentammo riscaldati dalla coperta di piume e dal calore del termosifone acceso.
6° giorno 20 luglio mercoledì
Alle otto del mattino lasciammo il paesino di Djúpivogur. Avevamo indossato la maglia di lana sotto il pullover, i calzettoni e gli scarponi.
Dopo un breve tratto, percorrendo la strada costiera, incontrammo una laguna limitata da un lunghissimo cordone di sabbia nera parallelo al litorale.
Guardando la laguna sulla cartina, di fronte all’isola di Papey, e tenendo conto della scala di riduzione, pensammo che il cordone nero misurasse circa 15 Km. Riconoscevo le montagne che si innalzavano vicino alla costa per averle viste a casa prima della partenza in una bella fotografia che occupava l’intera pagina di una rivista. Alberto, come se avesse letto nel mio pensiero, fece fermare il pullman e ci invitò a scendere per poter fotografare e filmare il meraviglioso panorama che si offriva alla nostra vista.
Superata la laguna cominciò ad apparire il Vatnajökul (jökul = ghiacciaio; Vatnajökul = ghiacciaio di Vatna), la cui superficie di circa 8.500 km² è pari alla somma della superficie di tutti i ghiacciai europei. Non potevamo farci un’idea della sua estensione guardandolo dalla strada costiera. Nella sua interezza avremmo potuto vederlo solo dall’aereo. Ce ne rendemmo un po’ conto allorché la sua vista ci accompagnò per l’intera giornata di viaggio.
Il nostro pullman sostò in una immensa area pianeggiante coperta di ciottoli e muschio, accanto a una lunga fila di altri 126 pullman turistici. Dovevamo percorrere un lungo tratto a piedi per raggiungere la laguna glaciale di Jökullsárlón, che ancora non si vedeva. Fummo colpiti dal volteggiare sulle nostre teste di una fitta colonia di sterne artiche. Altrettanta moltitudine stava a covare le uova depositate nelle ondulazioni del terreno o a coprire i pulcini neonati. Non ne avevo viste mai tante. Alberto ci disse che la vista di quella impressionante colonia aveva ispirato il film thriller di Hitchcock, intitolato “Uccelli”.
A differenza degli uccelli del film, quelle sterne non erano bellicose; ma se qualcuno di noi passando sfiorava un nido, la starna disturbata si alzava in volo, senza allontanarsi, e ci minacciava, afferrandoci i capelli. Ci proteggemmo la testa con i cappucci. Una starna beccò ripetutamente il cappuccio di Maria Elena, che aveva raccolto un pulcino dal suolo e poi rilasciato.
Quando arrivammo dove Alberto si era fermato per attenderci e raggrupparci insieme, non mi raccapezzai subito. Scattai una foto a quelli che mi sembravano strani massi dai colori sfumati tra il celeste e il grigio, senza capire cosa fossero. Seguimmo Alberto che ci fece salire su una barca con quattro ruote. Una ragazza bionda ci fece indossare il salvagente e sedere dove c’era posto. La barca si mise in moto con un rumore simile a quello di un trattore e partì, percorrendo qualche centinaio di metri sul suolo accidentato, fino ad entrare nell’acqua della laguna. Così mi accorsi che eravamo entrati nella laguna glaciale di Jökullsárlón.
Laguna glaciale di Jökullsárlón
Eravamo sodddisfatti della navigazione. Rimanemmo liberi per un po’ di tempo per poter mangiare ciò che avevamo comprato la sera prima e gironzolare nei dintorni.
Alberto si mise a spiegare, ma io non lo ascoltavo, tanto ero presa dalle immagini nuove che si presentavano alla mia vista impreparata. La barca avanzava tra una miriade di icebergs dalle forme e sfumature più svariate.
La maggior parte di essi erano bianchi, ma ce n’erano alcuni striati di nero o di grigio, avendo imprigionato nella loro massa le particelle sgretolate della roccia lavica. Allora capii che quei massi più o meno azzurrognoli o grigi che avevo fotografato prima, senza ancora vedere la laguna, erano icebergs.
La maggior parte di essi erano bianchi, ma ce n’erano alcuni striati di nero o di grigio, avendo imprigionato nella loro massa le particelle sgretolate della roccia lavica. Allora capii che quei massi più o meno azzurrognoli o grigi che avevo fotografato prima, senza ancora vedere la laguna, erano icebergs.
Ripreso il viaggio in pullman, la vista del ghiacciaio più grande dell’Islanda non ci lasciò più per quel giorno. Sostammo presso un’altra lingua, dove i ghiacci erano più scuri. Lungo il percorso Alberto diceva che la sabbia nera, rilasciata dallo scioglimento del ghiacciaio, avanza ogni anno di 150 metri. Attraversammo il ponte più lungo dell’isola nell’immensa distesa di sabbie nere, accumulatesi in milioni di anni, che avanzano verso il mare.
Sono le sabbie di Skeidarársandur, liberate dallo scioglimento delle lingue del ghiacciaio. In quella distesa scura non si distinguevano le “sabbie mobili”, rese tali dall’eccessiva quantità di acqua assorbita, nelle quali alcune persone hanno perso la vita.
Girando ancora attorno al ghiacciaio si incontra il Parco Nazionale di Skaftafel, che attraversammo a piedi, lungo un sentiero serpeggiante in salita. Ogni tanto ci volgevamo indietro a guardare dall’alto l’impressionante distesa delle sabbie, che sembravano non avere confini. I numerosi rivoli di acqua che scendevano dal ghiacciaio brillavano al sole come nastri d’argento. Nel Parco scoprimmo un’altro volto dell’Islanda: il verde non era dato soltanto dal muschio, ma da altre piante, tra cui si distinguevano betulle nane e cespugli fioriti. La passeggiata in salita era salutare, favorita dalla bella giornata. Era la prima volta che vedevamo splendere il sole nel cielo. La temperatura si era alzata e potemmo toglierci il giaccone imbottito. Il sentiero arrivava alla bellissima cascata di Svartifoss (= cascata nera), che è una delle attrazioni più visitate dell’isola, fiancheggiata da un’infinità di “colonne” di basalto sospese come le canne di un grande organo. Avevo letto che tutte le acque che scorrono in superficie sono esenti da inquinamento e si possono bere, perciò io e Maria Elena ne raccogliemmo un po’ con le mani e la portammo ripetutamente alla bocca. Chiare, fresche, dolci acque.
Svartifoss (= cascata nera)
Percorrendo un altro sentiero, scendemmo verso la pianura per raggiungere il pullman.
In basso ci attendeva un cartellone illustrato da foto. Alberto ci parlò dell’eruzione del vulcano che si nasconde sotto il ghiacciaio più esteso d’Europa, avvenuta l’ 8 novembre 1996. L’enorme calore sprigionatosi aveva liquefatto il ghiaccio negli strati più profondi, creando un lago bollente, che esplose, spaccando e frammentando lo spessore del ghiaccio soprastante. Ecco la traduzione dal francese:
In seguito all’eruzione dell’8 novembre 1996 nel Vatnajökull, a nord di Grimsvötn, l’enorme piena glaciale che ne seguì tagliò la strada che attraversa le sabbie di Skeidarársandur. La piena gonfiò rapidamente, raggiungendo il suo apogeo dopo 15 ore, poi si riassorbì quasi totalmente in 48 ore. All’inizio si aspettava che fosse dell’ordine di 20.000 m³/s, ma raggiunse 50.000 m³/s. La forza gigantesca del flusso portò enormi blocchi di ghiaccio che causarono molti danni. Il ponte di 363 m di lunghezza sulla Gígjukvisl scomparve completamente. Il ponte del Skeidará subì dei grossi danni. L’estremità scomparve nel fiume per una lunghezza di 176 m, come pure un pilastro intermedio dell’estremità ovest. La strada fu tagliata a ovest del ponte, le dighe di contenimento delle acque nel loro letto furono quasi interamente distrutte e la rampa di terra di 12 m del lato destro del ponte scomparve. In compenso il ponte sulla Sùla restò indenne. Si valutò che i blocchi di ghiaccio che arrivarono fino all’area del ponte sulla Gígjukvisl pesassero fino a 2.000 tonnellate (10x10x20 m) e che quelli che arrivarono fino al ponte sulla Skeidará fossero da 100 a 200 tonnellate.
Fu uno degli sconvolgimenti più gravi della terra, che però non produsse gravi danni essendo la zona spopolata. Il ponte più lungo, che attraversava le sabbie di Skeidarársandur, fu ricostruito ed era quello che avevamo attraversato qualche ora prima per raggiungere il parco e la cascata.
Ci rimettemmo in viaggio nella strada circolare N. 1, scendendo verso sud. Il tempo continuava ad essere bello. Il sole tiepido ci aveva fatto togliere i giacconi invernali. Attraversammo un esteso campo ondulato coperto da un soffice tappeto del colore dell’erba secca.
La strada scura asfaltata lo tagliava in due parti. Non una casa si vedeva intorno né una traccia di vita; nessun veicolo incrociammo. C’eravamo solo noi. Io riprendevo il paesaggio strano senza capire cosa fosse il soffice e alto tappeto ondulato. Il pullman si fermò e Alberto ci invitò a scendere in quello strano luogo. Ci spiegò che quella distesa tagliata dalla strada era un deserto di lava ricoperto dal muschio. Il colore scuro mi aveva tratto in inganno, perché il muschio che avevo visto prima di allora era verde. Quello che ricopriva la lava era vecchio e secco.
Ci incamminammo sul folto tappeto naturale per toccare con piedi e con mani quello strato morbido che copriva tutto come la neve e ammorbidiva le asperità delle rocce laviche sottostanti. Ci sedemmo sul muschio morbido e ci coricammo anche, come se ci stendessimo su un divano. Io affondai la mano per staccarlo dal suolo e vederne lo spessore (trenta o quaranta centimetri). Girando lo sguardo intorno non si vedeva altro.
Nel tardo pomeriggio arrivammo a Vik, un villaggio sulla costa meridionale abitato da 160 anime. Il luogo era bellissimo per i colori delle montagne, il verde brillante del muschi che ricoprivano le pendici, il colore del mare, in cui spiccavano i neri faraglioni e il colore nero della larga e lunga spiaggia. L’alta parete di basalto a strapiombo sulla spiaggia era popolata da colonie di uccelli, soprattutto i colorati pulcinella di mare, dal dorso nero, ventre bianco, con il becco a strisce rosse, gialle e grigio-azzurre.
Ci era bastata mezz’ora per percorrere a piedi un sentiero fino alla spiaggia, guardare da vicino una grotta sotto la parete lavica di basalto, che si presentava a colonnine lunghe di un grigio compatto, come quelle della cascata di Svartifoss.
La costa di Vik formata da colonne di basalto, che è una roccia vulcanica proveniente dal magma solidificatosi velocemente a contatto con l'aria o con l'acqua
Proseguimmo il viaggio per raggiungere il vicino villaggio di Hvolsvöllur per la cena e il pernottamento, sostando lungo il tragitto presso due belle cascate.
La giornata era stata abbastanza lunga per i molti luoghi visitati e la varietà degli scenari. Una cena calda e un buon letto concluse il penultimo giorno del nostro viaggio.
7° giorno 21 luglio giovedì
Dopo colazione, prima di riprendere il viaggio per Reykjavík, ultima tappa del viaggio, io e Maria Elena facemmo un giro da sole fuori dell’albergo. Non c’erano case intorno: di fronte solo una fabbrica di hot-dog. Allontanandoci un po’ ci fermammo a guardare le casette circondate da un piccolo prato verde e qualche albero. Alcune villette avevano a poca istanza un gazebo dalle pareti e tetto di vetro trasparente. All’interno si vedevano delle poltroncine di plastica attorno d un tavolinetto e dei vasi fioriti. Qualche giocattolo abbandonato nel prato rivelava nella casa la presenza di bambini.
La prima tappa della giornata fu la zona dei geyser (in islandese si dice “geysir” e la località di chiama Geysir dal nome del grande geyser che arrivava ad una altezza di 70-80 m, spentosi con il terremoto del 1976).
Quello che noi vedemmo era lo Strokkur, che raggiunge un’altezza di 25-35 m, eruttando ogni cinque minuti una colonna di vapore e acqua bollente, preceduta da una bolla azzurra.Attorno alla pozza di acqua geotermale, una corda tenuta da paletti, segnava il limite di accesso ai visitatori. L’acqua si muoveva senza sosta, come se una mano invisibile la facesse mulinare. Il movimento crescente faceva gridare:
“ Sta arrivando la bolla! Eccola! Eccola!
Desiderio di tutti era fermare l’immagine in una foto. Io con la telecamera e Maria Elena con la macchina fotografica ci tenevamo pronte a premere il pulsante, per cogliere la sequenza del mulinello dell’acqua, della formazione della bolla nel massimo igonfiamento, dell’esplosione verso il cielo e della caduta dell’acqua e del vapore. I primi tentativi andarono delusi, ma la ripetitività del fenomeno ogni cinque minuti e la pazienza ci consentirono di scattare le foto nel momento giusto e di realizzare riprese soddisfacenti. La caduta dell’acqua formava dei rigagnoli a terra, che mi chinavo per tastarne il calore, che diminuiva col freddo dell’aria, ma che non si raffreddava mai per l’arrivo di nuova acqua bollente.
Restammo abbastanza tempo nella zona per memorizzare quelle belle immagini che difficilmente avremmo rivisto. Allargando lo sguardo oltre lo Strokkur, che dominava il paesaggio, si vedeva dappertutto la terra fumare.
Era giunto il momento di andare.
Per raggiungere il pullman, che ci aspettava sulla strada fuori di quella zona, attraversammo a piedi quella terra bagnata e fumante di vapori.
La tappa successiva fu presso la bellissima cascata di Gullfoss (cascata d’oro) e nel vicino locale Gullfosskaffi (Gull = oro; Foss = cascata; kaffi = caffè. Gullfosskaffi significa Caffé della Cascata d’oro), che era insieme bar, ristorante, emporio che esponeva gli stessi prodotti islandesi che avevamo già visto in altri posti di ristoro.Per raggiungere il pullman, che ci aspettava sulla strada fuori di quella zona, attraversammo a piedi quella terra bagnata e fumante di vapori.
Dissi a Alberto che il viaggio era al termine e che ancora non avevamo visto islandesi, tranne quei pochi che la sera ci servivano la cena. Quando arrivammo nella seconda città islandese, Acureyri, non c’era gente per le strade, sia perché era ora di pranzo, sia perché era domenica. Alberto rispose che avremmo visto tanti islandesi nella capitale. Tutti sono circa 280 mila; quelli che vivono nella capitale 180 mila.
Il sole era splendido e la temperatura mite. Dopo aver pranzato nel Caffè della cascata d’oro, raggiungemmo Reykjavík. Occupate le camere e posate le valigie, Alberto sciolse il gruppo dicendo che ognuno era libero di passare il pomeriggio e la serata come voleva. L’indomani ci avrebbe accompagnato all’aeroporto di Keflavik per il nostro ritorno in Italia. Egli sarebbe rimasto un’altra settimana per ripetere il giro dell’Islanda con un altro gruppo di italiani.
A quelli che chiedevano suggerimenti per un’ultima escursione, Alberto propose che si poteva fare un giro in battello per vedere le balene oppure andare nella Laguna blu, a 35 chilometri a sud della capitale.
Io scartai la visita alle balene, perché le avevo viste alcuni anni prima nella foce del fiume San Lorenzo, in Canada. Mi attirava l’idea di fare un bagno nelle acque calde della Laguna Blu. Prima del viaggio avevo visto in una rivista geografica una foto che ritraeva i bagnanti immersi nella laguna, a cielo aperto, tra i vapori naturali e allora avevo pregustato quel bagno all’aria aperta. La presenza di certe alghe conferiscono alle acque una luminosa colorazione azzurra. Ma quando Alberto spiegò che il bagno si faceva in uno stabilimento in vasche all’aperto o coperte, sentii scemare il fascino del paesaggio naturale e con Maria Elena decidemmo di passare l’ultimo pomeriggio a girare per il centro di Reykjavík.
Fatta una doccia rilassante con l’acqua geotermale, uscimmo dall’albergo dopo esserci fornite della pianta della città e avere preso qualche informazione, al banco della reception, sulla strada da percorrere in direzione del centro.
Dopo che ci fummo allontanati dall’albergo Maria Elena mi fece notare in lontananza una grande cupola di vetro luccicante, alta al di sopra delle case, e mi pregò di riprenderla con la telecamera. Io non sapevo cosa fosse e lei mi spiegò, per averlo letto, che era il “Perlan” (“perla”), la gigantesca cupola che sormonta un complesso di cinque enormi serbatoi di acque delle sorgenti geotermali e ospita un geiger artificiale esterno e un altro interno, sale per mostre, concerti e un ristorante girevole. E’ un simbolo di Reykjavík, insieme alla Hallgrímskirkja, la moderna Cattedrale di basalto, che domina la città dall’alto di una collina.
Percorremmo una strada larga, poco trafficata, fino a raggiungere un lago azzurro dalle rive coperte di erba verde, oltre il quale si stendeva la città con la Cattedrale, visibile da ogni parte. Il bel lago nel cuore della città, incorniciato da ville d’epoca e dal moderno municipio, era prima uno stagno, dove i primi abitanti andavano a caccia di anatre.
Girammo metà del suo perimetro ammirando un arcobaleno creato dalla luce attorno uno zampillo che si innalzava nel centro. Le sterne dal becco rosso volteggiavano basse.
La giornata era splendida, quasi estiva, la vista amena. Indossavamo jeans e camiciola dalle maniche corte.
Una disattenzione di Maria Elena ad un tratto turbò la nostra passeggiata: disse di avere lasciato sul tavolo il portafoglio con tutto il suo denaro, e ce n’era tanto, dato che non avevamo comprato nulla. Ormai avevamo percorso tanta strada e tornare indietro significava rimanere in albergo per stanchezza e rinunziare alla visita della città. Non potevamo concludere il nostro viaggio in Islanda senza conoscere la capitale! Scaricavo la mia stizza rimproverando la sua distrazione. Alla fine mia figlia, stizzita anche lei, mi disse: “Se l’avere lasciato i soldi sul tavolo ti fa star male, torniamo in albergo e non parliamone più”.
Per me ritornare indietro era fuori discussione. Cercai di consolarmi ricordando di avere letto che l’’Islanda è un’isola felice, dove disoccupazione e criminalità non esistono. Confidai pure in quello che aveva detto Alberto: “La cassiera dell’albergo non chiude mai il cassetto a chiave, perché non pensa che qualcuno potrebbe rubare. E se qualcuno lo facesse, lei non se ne accorgerebbe!”
Io dicevo a Maria Elena:
“Sarà vero? Speriamo di sì. Scacciamo dalla mente i cattivi pensieri e godiamoci la visita della città.”
Dall’altra sponda dello stagno iniziava il centro. Il Municipio era un palazzo moderno che per metà emergeva dallo stagno come i palazzi di Venezia dalla laguna. Andando avanti si allargava la piazza principale su cui si affacciava il palazzo del Parlamento. Aveva un aspetto modesto, simile ad un magazzino rettangolare di mattoni color marrone, a due piani, con finestre bianche e tetto di lamiera. Dubitavo che quell’edificio fosse il Parlamento, ma poi una tabella con una parola simile all’ inglese mi assicurò che fosse proprio il Parlamento.
La piazza antistante era tutta un prato verde circondato da una bella bordura di fiori viola e sul prato la gioventù di Reykjavík, distesa o seduta a cerchio sull’erba o su una stuoia, conversava tranquillamente. Qualcuno isolato, disteso a pancia in giù, leggeva un libro. Anche giovani coppie sedevano sull’erba con i loro bambini sgambettanti o, se troppo piccoli, in braccio. Era uno spettacolo bellissimo. Inseguivo con la telecamera i bambini islandesi dalla pelle chiara come la porcellana, i capelli lisci biondissimi e gli occhi azzurri e le loro mamme giovanissime, ragazzine. Sui sedili all’esterno del prato gli anziani si godevano il sole. Era giovedì, ma sembrava domenica. Finalmente vedevo tanti islandesi insieme!
Entrammo in un supermercato a curiosare, guardammo le vetrine nella speranza di trovare un bell’oggetto da comprare e portare a casa. Niente di diverso trovammo da quanto già avevamo visto nel nostro giro per l’Islanda. Avevamo in tasca delle corone che volevamo spendere per non portarle in Italia. Non restava altro che tornare nel supermercato e spenderle in generi alimentari. Infatti comprammo pane e frutta per la nostra cena e delle confezioni di salmone affumicato.
Dirigemmo i nostri passi verso la Cattedrale. Non c’era bisogno di farci indicare la via, perché la Cattedrale si vedeva sempre, ovunque fossimo.
Passammo per le vie animate del centro, guardando e fotografando le case. Le più antiche erano di legno rivestito di lamiera laccata; le più moderne in muratura; le une e le altre erano dipinte con tutti i colori della tavolozza, creando un’atmosfera di allegria. In quella luce limpida risaltavano l’azzurro del mare e del cielo, il verde dei prati, i tetti e le facciate multicolori delle case. La Cattedrale era sempre davanti a noi. Man mano che avanzavamo nella strada in salita, la sua sagoma si ingrandiva al nostro sguardo, fino ad apparire gigantesca.
Costruita in basalto e inaugurata nel 1987, dopo oltre 40 anni di lavori, si ispira nelle sua forma pieghettata alle colonne di lava tipiche dell’’Islanda (vedi nella foto 19 le colonnine di basalto della cascata di Svartifoss) . Nella piazza, davanti alla chiesa, si erge la statua di Leifur Ericsson, donata dagli Stati Uniti all’ Islanda, per onorare il navigatore vichingo che per primo vi mise piede, 500 anni prima di Cristoforo Colombo. Appresi che gli italiani si risentirono per il dono americano, che sminuiva l’importanza della scoperta del navigatore genovese. Appresi pure, più tardi, che una statua a Leif Ericsson di trova anche a Boston, dove furono rinvenuti arnesi di fattura vichinga e tracce di abitazioni, oltre a una grande pietra scolpita a caratteri runici, usati prima dell’anno mille, quando fu introdotto in Islanda l’alfabeto latino.Nell’ingresso della torre, alta 75 metri, una ragazza vendeva biglietti per salire con l’ascensore in cima. Non avevamo che pochi spiccioli di corona, ma con la carta di credito potemmo acquistare due biglietti. Dalle finestre della torre si godeva una vista incomparabile della città. I colori vividi dei tetti, dal celeste, all’azzurro, al blu, dal rosso chiaro al rosso scuro, in contrasto con i colori vari delle facciate, formavano un caleidoscopio circondato dall’azzurro chiaro del mare e del cielo. Rivedemmo con una prospettiva diversa il lago diviso in due da un ponte e i giganteschi serbatoi del “Perlan” sormontati dal cupolone di vetro.
Soddisfatte da quella vista, scendemmo a terra e riprendemmo la via del ritorno in albergo, ripassando per il centro, attraversando il ponte del lago, anziché percorrerne il perimetro. Arrivammo in albergo sfinite dalla stanchezza.
La luce del sole, che splende anche di sera, non fa capire l’ora a noi che non siamo abituati a quella latitudine. Sembrava ancora pomeriggio, ma l’orologio segnava le ore venti; perciò avevamo camminato per quattro ore. La luce ci avrebbe consentito di visitare ancora qualche altro posto, ma non ne avevamo voglia. Entrammo nella nostra camera e ritrovammo il portafoglio in bella vista sul tavolo dove Maria Elena lo aveva dimenticato. In un albergo italiano non lo avremmo ritrovato.
Quella sera, l’ultima, rimasi sveglia fino a mezzanotte. Le finestre dei paesi nordici non hanno scuri, ma tende pesanti per non fare filtrare la luce. Scostai le tende per vedere fuori. La luce era impallidita, ma non scomparsa. Si capiva che era notte perché fuori non si vedeva nessuno. Scattai due foto al panorama e altre due l’indomani all’alba per confrontare la luce dei due orari diversi.
Il giorno seguente la partenza per l’aeroporto di Keflavik era prevista per le dieci, perciò, dopo colazione, avevamo alcune ore da trascorrere liberamente. La giornata era tiepida. Affacciateci sulla strada, davanti all’albergo, si vedeva il mare vicino. Una compagna di viaggio sopravvenuta si associò a noi e ci incamminammo tutte e tre verso la spiaggia percorrendo una stretta strada asfaltata in mezzo a un prato verde che fiancheggiava la spiaggia, una sottile striscia di sabbia scura e pietre.
Guardando l’insenatura e le montagne lontane i colori apparivano tenui come se il paesaggio non fosse reale, ma un dipinto ad acquarello.
Reykjavik : un paesaggio da acquarello
Sulla nostra destra si allineavano le villette linde dai tetti blu, rossi, verdi, circondate da un giardinetto; sulla sinistra una fascia di prato verde, la sabbia nera e il mare. Una ragazza in canottiera e pantaloncini faceva footing sul prato. Ad uno dei sedili che si trovavano lungo la strada era appoggiata una bicicletta incustodita. Pensai alle tante biciclette viste nelle città italiane legate con la catena ad un palo.Eravamo nella periferia della città, pulita e silenziosa.
Reykjavík è completamente diversa dalle capitali europee: non ha molta storia alle spalle, non ci sono palazzi monumentali, ma case dalle linee semplici; il traffico automobilistico modesto e ordinato; ovunque c’è pulizia, tranquillità e sicurezza.
Tornammo lentamente indietro ripercorrendo la stessa strada costiera fino all’albergo. Il pullman era pronto per portarci all’aeroporto di Kéflavik. Il viaggio in Islanda era concluso.
Antonietta Cinà Testoni
FI N E
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