Tanti anni fa i miei genitori avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno a Verdura, in riva al mare, per costruirvi una casetta e dare a noi, figli e nipotini, la possibilità di riunirci tutti insieme in estate a villeggiare.
Il proprietario terriero aveva loro venduto, a un prezzo conveniente, la striscia in riva al mare perché poco produttiva. Tutto il suo terreno era coltivato a vigneto e uliveto, anche la striscia a noi venduta; ma questa era danneggiata dall’acqua del mare, che entrando durante le mareggiate, lasciava la salsedine. Lungo il confine ovest correva un condotto di acqua che gli agricoltori della zona usavano per irrigare le colture. Nel terreno di mio padre c’era qualche ulivo, parecchie canne lungo il condotto e un solo filare di viti. Ma l’uva che pendeva polverosa dalle piante era da mosto, non buona da portare a tavola. Mio padre disse che l’avrebbe estirpato per creare spazio alla coltivazione di ortaggi. Mio padre aveva anche fatto costruire un pozzo e acqua ce n’era in abbondanza: un orticello sarebbe stato utile per uso della famiglia.
L’idea di estirpare le viti mi dispiacque. Dissi a mio padre:
- Perché non tentiamo di innestarvi l’uva da tavola ?
- Non vale la pena chiamare un innestatore per così poco.
- Lascia che tenti io. Ho imparato a innestare le rose. Imparerò a innestare le viti.
Mio padre fece ripulire il terreno dalle erbacce e dalle canne e lasciò il filare al suo posto.
Mi rivolsi a Luigi, mio vicino di casa, agricoltore, il quale mi spiegò che la vite si innesta in modo diverso da come io avevo imparato con le rose e me ne diede una dimostrazione con un ramoscello. Io provai davanti a lui a incidere un rametto, a staccare una gemma da un altro rametto e a incastrarla nella incisione. Provai la legatura con un filo di rafia e ringraziai Luigi della preziosa lezione. L’indomani Luigi mi portò dal suo vigneto alcune marze avvolte in una pezza bagnata. Corsi a Verdura con un coltellino affilato e un gomitolo di rafia e iniziai l’operazione d’innesto sotto gli occhi scettici di mio padre. Legai accuratamente con la rafia ogni gemma innestata, per darle modo di aderire strettamente al cilindro legnoso del ramo portainnesto, e al termine del lavoro andai a tuffarmi in mare per un bagno ristoratore. Nei giorni seguenti spesso controllavo se le gemme fossero vive. Pareva di sì. Dopo una settimana sciolsi i lacci, come mi aveva detto Luigi, e vidi che tutte le gemme che avevo innestato erano gonfie e vegete. Era già una vittoria. Le gemme avevano attecchito e sarebbero diventate nuovi rami, che avrebbero dato frutti diversi. Il mio compito era finito. Ora la natura doveva continuare la sua opera.
Finite le vacanze non pensai più alle viti. Una domenica dell’estate successiva andai a trovare i miei genitori con la mia famiglia. Vi trovai anche mio fratello con la sua famiglia. Era una gioia per tutti, grandi e piccini, ritrovarci insieme. Mi padre mi disse che a tavola ci sarebbe stata una sorpresa per me. Cosa poteva essere? Provai a indovinare. Mio padre sorridendo disse di non arrovellarmi perché non sarei riuscita a indovinare. Giunti alla fine del pasto, mio padre si allontanò dalla tavola e ritornò sorridente con un canestro di uva nera, bellissima.
- E’ questa la sorpresa? - dissi io delusa.
- Sì. Sai da dove proviene quest’uva? – disse mio padre.
- Dal mercato ortofrutticolo – risposi.
- No! L’ho raccolta stamattina dalle viti che tu hai innestato.
Guardavo incredula. I grappoli erano grossi, gli acini neri, gonfi e duri. Il canestro fu messo al centro della tavola perché tutti potessimo ammirare.
- Come si chiama questa qualità d’uva ? – qualcuno chiese.
Nessuno sapeva rispondere.
Mio padre disse: - Chiamiamola “Uva di Nietta”.
I bimbi batterono le mani e chiesero subito di mangiarla. Io volli che prima facessimo una foto ricordo.
Maria Elena, sette anni, raccoglie l'uva
Mio fratello aveva portato con sé la macchina fotografica e immortalammo la mia uva. Io e mio padre ci abbracciammo soddisfatti. Avevo quel giorno provato la gioia della creazione, gioia che si rinnovava ogni estate quando la mamma portava a tavola la mia uva.
Purtroppo il filare non ebbe lunga vita. Un inverno, più burrascoso degli altri anni, il mare infuriato e ruggente invase il campo e formò sul terreno un lago salato. Passarono parecchi giorni prima che la terra si asciugasse. Ormai però la salsedine era penetrata nelle radici e aveva inaridito le piante. All’arrivo della primavera le viti non avevano né foglie né gemme. Erano morte e mio padre non poté più mettere a tavola la mia uva. Che desolazione! Nel campo si erano salvate soltanto le canne, che crescevano rigogliose e invasive più di prima.
Avevo provato la gioia della creazione; ora provavo il dolore della distruzione.
Dell’uva di Nietta rimangono soltanto le foto conservate in un album.
Avevo provato la gioia della creazione; ora provavo il dolore della distruzione.
Dell’uva di Nietta rimangono soltanto le foto conservate in un album.
Nietta
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