domenica 5 dicembre 2010

13 e 14 - Due racconti dal viaggio in Messico


San Juan Chamula 15-10-2004

E’ passato un mese dal breve viaggio in Messico (tredici notti e dieci giorni sono pochi per un paese grande sei volte e mezzo l’Italia), viaggio che ho cercato di dilatare guardando e riguardando le riprese con la telecamera, scorrendo sul monitor del computer le seicento fotografie digitali scattate, aggiungendo sotto ogni foto uno scritto per fissare nella memoria quello che ho appreso sul luogo fotografato e le sensazioni provate. Tutto mi è piaciuto del viaggio: le piramidi immense di Teotihuacàn, quelle di Palenque e di Chichèn Itza soffocate dalla giungla e tante altre che non immaginavo così numerose. Sapevo delle favelas di Città del Messico, viste più di una volta nei documentari televisivi, ma non sapevo nulla del Chiapas. Per questa mia ignoranza il Chiapas ha lasciato nella mia mente una traccia molto forte insieme a una sensazione di mistero che emana da tutto ciò che è stato sconosciuto, che non è stato mai immaginato e che perciò si rivela all’improvviso, cogliendoci impreparati e attoniti.
L’unica strada che attraversa il Chiapas è tagliata nella giungla verdissima.
Dopo ogni curva i rilievi della Sierra Madre ricoperti di foreste apparivano nella loro lussureggiante vegetazione in colori e forme sempre diverse che io cercavo di catturare con la telecamera per
portarmele a casa e rivederle, timorosa che la memoria, con il trascorrere del tempo, avrebbe sbiadito immagini e colori.


Sito archeologico di Palenque


Ciò però che mi ha scosso di più del Chiapas è il villaggio indigeno di San Juan Chamula. Gli abitanti sono discendenti dei Maya.

Ragazza Maja tzotzil vestita a festa, fotografata con noi nel villaggio di Zinacantàn


Pelle bruna, olivastra, statura piccola, capelli neri, lisci, lucidi. La scuola è obbligatoria sulla carta, ma la maggior parte dei bambini non ci vanno, perché è distante dalle loro capanne e non hanno mezzi di trasporto se non le proprie gambe.
La guida ci aveva raccomandato di non fotografare e di non filmare. Nei tempi passati gli indigeni non consentivano le visite degli stranieri, perché gelosi della loro vita privata e delle loro tradizioni.


Ritratto della ragazza Maja
tzotzil


Ora consentono che gli stranieri entrino a pagamento nella loro unica chiesetta perché hanno bisogno di denaro per mantenerla.
Nel villaggio c’è una sola stradina con alcune case in muratura, per lo più negozi. Sono considerati ricchi quei pochi che hanno in casa l’acqua e l’elettricità. La stradina arriva in una grande spianata di terra battuta senza case intorno, dove uomini e donne del luogo, accoccolati a terra, espongono la loro povera mercanzia su delle stuoie. I bimbi, scalzi e sporchi, tendevano una mano e chiedevano un peso. La guida ci aveva raccomandato di non dare alcuna moneta ai bambini, per non abituarli all’accattonaggio.
Alcune bimbe portavano addosso un fratellino o una sorellina più piccola dentro un telo di stoffa che le avvolgeva e che si annodava sul petto.
Donne e bambine portano rozze gonne pelose di lana nera spessa e ruvida, nonostante il caldo.
La Chiesetta, unico edificio della piazza, è bianca, con decorazioni verdi e blu, sormontata da tre campane e una croce. Di fronte alla chiesa una grande croce si erge su un podio di tre gradini. Dietro si estende la giungla a perdita d’occhio, che nasconde le capanne degli indigeni. Nessun segno della nostra civiltà era visibile. Il tempo sembrava fermo all’epoca precedente l’arrivo degli spagnoli.

Interno della chiesa di San Juan Chamula

Entrammo senza immaginare quello che ci aspettava. Il fumo dell’incenso e le luci di miriadi di candele accese sul pavimento e su alcuni tavolinetti offrivano uno spettacolo allucinante, simile ad una cappella di cimitero il giorno dei Morti, dove si accendono i lumini. Ma i lumini della chiesetta di Chamula erano moltiplicati per mille. Le famiglie stavano accoccolate sul pavimento coperto di aghi di pino (non c’erano banchi o sedie) e una sola persona per ogni gruppo pregava litaniando nella lingua locale in modo lento, ripetitivo, per un tempo interminabile. Erano presenti anche i bambini, che se ne stavano tranquilli accanto ai familiari.
Oltre alle candele ardenti, si vedevano allineate a terra, attorno ad ogni gruppo familiare, tante lattine di Coca-Cola e di altre bibite. La Coca-Cola, legata nella mia mente alle immagini del mondo moderno, mi sembrò una nota stonata in quell’atmosfera primitiva.
La guida diceva che dopo un’ora e mezzo di monotona litania, l’orante cade in trance. Colui che prega, spiegava la guida, è lo sciamano, che chiede al santo, a cui si rivolge, un favore: ad esempio la guarigione di un ammalato. Egli fa da tramite tra la terra e il cielo.
Ci fermammo ad osservare un gruppetto di persone che seguiva assorto la preghiera di uno sciamano. Nessuno, neanche i bambini, si lasciava distrarre dalla nostra presenza. Accanto a lui stava inginocchiata una donna dall’aspetto sofferente. A lei erano rivolte le sue attenzioni. Dopo aver imposto la mano sulla sua testa e averla segnata sulla fronte, lo sciamano le fece bere alcune pozioni, che la donna accettò, fiduciosa nel miracolo della guarigione. Alla fine del rito lo sciamano sollevò in alto, verso il fumo dell’incenso, una gallina, che se ne era stata cheta cheta, come stordita, sul pavimento accanto a lui. Tre volte la sollevò in alto, poi le tirò il collo e l’animale, dopo qualche fremito, si acquetò per sempre sul pavimento.
Chiesi sottovoce alla guida se la gallina sarebbe finita in pentola. Mi rispose che con quel rito lo sciamano aveva trasferito la malattia dal corpo della donna ammalata alla gallina, che per questo era stata sacrificata. Pertanto la gallina andava buttata via.
Prima della venuta degli spagnoli, gli indios facevano alle loro divinità dei sacrifici umani. Avendoli gli invasori spagnoli vietati e imposta la religione cattolica, gli indigeni continuarono i sacrifici sostituendo gli esseri umani con gli animali, quasi sempre galline.
Girando lo sguardo verso un altro gruppo di persone, a pregare era una donna mentre allattava un bimbo. Come lo sciamano, ripeteva le stesse parole, con lo stesso monotono ritmo. Accanto a lei, distesa e con le zampe legate, un’altra gallina se ne stava immobile, come se fosse stata drogata. Anch’essa fece la stessa fine. Maria Elena, che non aveva mai visto ammazzare una gallina, era inorridita. Io le spiegai che da bambina parecchie volte avevo visto la mia mamma o la nonna ammazzare allo stesso modo il pollo che veniva portato fumante sulla tavola e che quell’immagine di morte, una volta per me abituale, ora lontana nel ricordo e rinvenuta nella memoria, non suscitava in me lo stesso raccapriccio che in lei.
Girammo il perimetro della chiesa per guardare le statue dei santi nelle nicchie. A differenza delle nostre statue, quelle di Chamula (ma anche tutte le altre del Messico) erano vestite con abiti di stoffa. I santi, che hanno gli stessi nomi dei nostri, portavano parrucche di capelli veri e ciglia vere incollate sul bordo delle palpebre. Ai miei occhi nessuna sacralità emanava da quelle statue; anzi avevano qualcosa di carnevalesco. Pur movendoci in silenzio nella chiesa, mi pareva però di violare con la sola nostra presenza, con la nostra curiosità, l’intima spiritualità di quella gente, gelosa del proprio culto e delle proprie tradizioni. Prima di lasciare la chiesa, mi fermai un po’ a guardare per l’ultima volta quello strano luogo. Uscii all’aria aperta con la strana sensazione di aver fatto un salto indietro nei primordi della storia.
Riflettei che l’uomo, da quando ha cominciato a pensare, ha considerato se stesso superiore agli altri esseri viventi, ma ha sentito sempre il limite delle sue capacità, sia fisiche che intellettive, di fronte a fenomeni naturali non controllabili dalle sue forze. Nacque nella sua mente l’idea della divinità che può tutto, che sa tutto ciò che a lui non è dato sapere. Gli esseri viventi nascono e muoiono. Ma l’uomo, che si considera superiore, non può rassegnarsi alla transitorietà della vita terrena; perciò si è creata una vita ultraterrena dove possa continuare a esistere, ma solo lui, per l’eternità.
Ho visto pregare gli indios di Chamula davanti alle statue dei santi cattolici. Ho visto pregare i cinesi davanti alle statue dei templi buddisti. Ho visto pregare i fedeli cattolici nelle nostre chiese. Ho pensato che questo intimo desiderio di contatto con il divino accomuna tutti gli uomini della terra, in qualsiasi longitudine e latitudine si trovino e a qualsiasi religione appartengano, monoteistica o politeistica.
Tutte le religioni del mondo hanno la stessa radice.
Nietta


Panico a Chichén Itzà 18-10-2004

Non posso dimenticare del viaggio in Messico un'esperienza che non mi era mai capitata nella vita: la discesa dalla piramide di Chichén Itzà, l'ultima tra le tante piramidi scalate in quel grande paese.

Foto aerea della Piramide di Kukulcàn, il Tempio di Venere e il Tempio dei Guerrieri con annesso gruppo delle Mille Colonne a Chichén Itzà




Foto: Chichén Itzà: Piramide di Kukulcàn.

La somma dei 91 gradini di ciascuna scalinata, cui va aggiunto il basamento superiore, dà un totale di 365, pari ai giorni dell'anno.
Non è la piramide più alta, ma la più ripida, con una scala di 91 gradini su ognuno dei quattro lati, in un'unica rampa che termina con una terrazza stretta come il balcone di una casa; ma il balcone ha la ringhiera. Lassù, dove non c'era alcuna ringhiera, fui colta da un attacco di panico mai provato prima. Mi pareva di essere sul cornicione di un grattacielo. Mi addossai a un muro, mi liberai della telecamera dandola a Maria Elena, che non si accorse del mio disagio. Che mi importava delle riprese?





Foto- Chichén Itzà: mi accingo a salire la Piramide di Kukulcàn, inconsapevole di ciò che mi aspetta

Foto: Anche Lia, sorridente, si accinge alla scalata della Piramide di Chichén Itzà



Volevo avere le mani libere per potermi aggrappare a qualcosa. Chiusi gli occhi per non vedere quanto ero lontana dalla terra. Entrai nell'unica stanza chiusa e mi rifiutai di guardare fuori. Vicino a me c'era una lattina vuota di Coca-Cola lasciata da qualche turista, a cui si erano attaccate una moltitudine di vespe. Essere assaltate dalle vespe in quel momento mi sembrava il male minore. I turisti, soddisfatti della visita alla piramide, a poco a poco cominciavano la discesa. Vederli andar via accresceva in me la paura. Tra poco sarei rimasta sola.

Rimasta la penultima, e non potendo restare lassù, mi decisi a iniziare la discesa.
Al bordo del primo gradino era ancorato un anello metallico a cui era legata una grossa corda che arrivava al pianterreno. Si vede bene nell'ultima foto. Il primo passo da fare era arrivare all'anello, vicino all'orlo del precipizio. Lo guardai per memorizzare la distanza e con gli occhi chiusi per non vedere il vuoto, mi sedetti a terra per sentirmi più sicura, e strisciai fino all'anello e alla corda. Afferratala con la destra e tastando con la sinistra il primo gradino, iniziai la discesa all'indietro, sempre con gli occhi chiusi. Avevo pregato un compagno di viaggio (l'ultimo nella discesa) di scendere dopo di me perché mi guidasse. Ad un certo punto, credendo di essere quasi alla fine, aprii gli occhi, ma li richiusi terrorizzata trovandomi a metà scala. Li riaprii non appena ebbi toccato terra.
Non mi aspettavo una reazione simile. Nei giorni precedenti avevo scalato piramidi anche più alte, senza problemi, in quanto la scala era divisa in più rampe, separate da ampie terrazze, che non mi facevano sentire sull'orlo di un precipizio. Il panorama che si vede da lassù è spettacolare: si ha l'impressione di essere più vicini al cielo che alla terra.
Ma non saprò mai dire cosa si vede dalla piramide di Chichén Itzà.

Nietta

1 commenti:
Ignazio ha detto...
Ciao mamma,
complimenti sei diventata bravissima!
6 aprile 2009 23.39

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