L’ultimo giorno del magico viaggio in Egitto, nel novembre 2007, chiesi a Mario Porporino, nostro capogruppo, quale sarebbe stato il prossimo viaggio. Rispose che aveva in mente l’ India. L’idea di andare in India piacque non soltanto a me, ma anche a mia figlia Maria Elena e a una compagna di viaggio del nostro gruppo, Franca, una signora italiana conosciuta in Egitto e residente in Spagna, con la quale avevo familiarizzato e scambiato l’indirizzo di posta elettronica. Tornata in Italia scomparve l’ India dai miei pensieri, ubriacata com’ero dalle immagini grandiose impresse nella mia mente nel paese che fu culla della prima civiltà. Ogni volta che torno a casa da un viaggio entusiasmante, lo prolungo nel tempo mettendo in ordine le riprese fatte con la telecamera, ripassando le migliaia di foto scattate con la macchina digitale, approfondendo la storia legata ad ogni luogo, ad ogni monumento. Rivedere foto e filmati mi fanno rivivere e allungare il viaggio fin quando non arriva l’inverno e la mente si prepara al riposo per risvegliarsi in primavera col desiderio di un altro viaggio, in un altro angolo del mondo. L’idea di un viaggio in India, accantonato per un certo tempo, cominciò a farsi strada e a contagiare non poche persone di nostra conoscenza. Franca, con cui ero in contatto quasi quotidianamente tramite “Skype”, era la più entusiasta di tutte noi, soprattutto quando il nostro capogruppo ci inviò il programma dettagliato del viaggio, limitato allo Stato del Rajasthan (l’India è un subcontinente e non si può visitare in un unico viaggio). Parlandone con le amiche raccolsi le prime adesioni: Mariola, Valentina, Maria, Marisa, Angiola, oltre a Maria Elena e Franca. Lia, che è stata mia compagna in altri viaggi, non volle dire subito di sì per problemi prioritari da risolvere in famiglia; ma quando fu sicura di poter partire diede la sua adesione con tanto entusiasmo. Si aggiunsero poi Ida e Rosalba, ma Angiola e Marisa annullarono il viaggio, l’una per motivi di salute, l’altra di famiglia. Eravamo otto. La data stabilita, dal 18 al 31 ottobre 2008, era buona per tutte: avremmo passato tutta l’estate nella nostra bella Sciacca a goderci il sole e il mare e poi …. in volo per l’Oriente.
Prima della partenza ho avuto tanto tempo per studiare sulla cartina il percorso che avremmo fatto, le città che avremmo visitato, il clima, la storia, la cultura, i monumenti. Avevo cercato in Internet le foto degli alberghi prenotati, dei palazzi dei maraja in cui avremmo alloggiato e ne davo informazione alle amiche che condividevano il mio entusiasmo. Avevo trovato nel web una pagina di Pasolini sulle forti esperienze dello scrittore ricevute a Benares (oggi Varanasi) nel suo viaggio compiuto insieme a Moravia e ad Elsa Morante nel lontano 1960. La lessi pure a Mariola per telefono soffermandoci sui punti più forti, commentando e sforzandoci di immaginare l’atmosfera sconvolgente di quella città, unica al mondo, la città santa, l’anima spirituale dell’India, eterna dimora del dio Shiva, dove ogni induista desidera andare a morire.
(Cliccare due volte sulla cartina per avere il massimo ingrandimento)
La linea blu segna il percorso del nostro viaggio in Rajasthan. Notare la distanza da Varanasi
Lessi pure per telefono a Mariola alcune pagine scritte da altri viaggiatori sul Gange, il fiume sacro, dalle acque putride, marroni, sporche e melmose. Dopo quella lettura il programma del nostro viaggio ci parve monco. La visita a Varanasi, alquanto distante dal nostro percorso di viaggio, avrebbe comportato un altro volo aereo per quella città e il prolungamento del viaggio di almeno altri tre giorni, col conseguente aumento del costo. Avremmo dovuto dissociarci dal gruppo che già si era formato e cercare un altro tour operator che avesse incluso Varanasi nel viaggio in India. Per non scompigliare il programma e le condizioni inizialmente accettati col nostro capogruppo, pensammo che avremmo considerato il viaggio in Rajasthan come un assaggio dell’ India e ci augurammo di ritornarvi per conoscere un altro pezzo di Paese, inclusi Varanasi e il Gange. Io trascorsi le mattinate d’estate al mare, come ogni anno. Di pomeriggio mi documentavo sull’India, interessandomi tra le altre cose anche di cinema. Appresi i nomi di due registe famose e mi procurai i dvd dei loro film che guardai con interesse e feci vedere anche a Mariola. Poi ci scambiavamo i nostri pareri in lunghe conversazioni telefoniche. Le registe preferite e i loro film erano i seguenti:
Mehta Deepa
- Fire
- Water
- Earth
Mira Nair:
- Gli occhi della vita
- Il destino nel nome
- Salam Bombay
- Kamasutra
- Matrimonio indiano
Inoltre vedemmo altri film interessanti, come la vita di Gandhi, Viaggio in India, Passaggio in India e qualche altro di minor valore. Trascorsa l’estate eravamo pronte per il grande viaggio.
Ci attraggono i sari coloratissimi delle donne indiane, che indossano con grazia. Io cerco di fotografarle quando mi passano vicino, e di non farmi notare da loro. Non risparmio foto e riprese. Anche gli altri del gruppo fanno lo stesso.. Attraversiamo le strette strade affollate di gente a piedi o in risciò a pedali; a destra e a sinistra della strada si allineano le bancarelle dei venditori. Oltre ai risciò e ai ciclomotori, circolano i motocarri Ape, che gli indiani chiamano tuc-tuc, che si muovono con destrezza nelle stradine affollate. I tuc-tuc sono i taxi dell'India. Dei bimbi si aggrappano alla scala a pioli attaccata al retro del nostro autobus e ci guardano con curiosità sorridendo davanti alla mia macchina fotografica. La scala a pioli è presente in tutti i bus per permettere ai passeggeri di salire sul tetto del veicolo e di viaggiare all’aperto.
Ci impressiona la sporcizia delle strade. Lasciamo il vecchio centro per una visita al Memoriale di Gandhi, che è un semplice quadrato di pietra nera, posto nel luogo dove venne cremato il Mahatma. Tutt’intorno c’è un grande prato verde, che ispira pace e riposo.
Dopo il pranzo al Ristorante “Lazeez Affaire”, la guida Rajesh, il cui nome da qualcuno viene storpiato in “Radicchio”, ci porta col pullman a Nuova Delhi. Delhi fu la capitale dell'impero britannico delle Indie dal 1912 al 1931. Gli inglesi intrapresero la costruzione di New Delhi a sud dell'antica città e ne fecero la nuova capitale. Dopo l'indipendenza dell'India dalla Gran Bretagna (1947), la città conobbe un rapido sviluppo urbanistico e demografico.
Facciamo due giri in pullman nella piazza circolare per ammirare e fotografare dai finestrini i moderni palazzi del Parlamento e del Governo e poi scendiamo presso la Porta dell'India, che è un arco di trionfo in pietra alto 42 m. su cui sono scritti i nomi degli 85.000 soldati dell'esercito indiano morti nel corso della Prima guerra mondiale nelle operazioni sul fronte nord-occidentale e durante la guerra afghana del 1919.
Ma non ammiriamo solo il monumento, ma l'ampiezza serena del luogo, le famiglie indiane con bambini che vengono a farvi la passeggiata domenicale con i vestiti della festa.
Più di ogni altra cosa, ammiro le ragazze indiane nei loro femminili sari dai colori vivaci. Hanno il viso accuratamente truccato, mani e talvolta anche piedi inanellati, capelli nerissimi e lucidi. Guardo incuriosita una numerosa famiglia scendere da un tuc-tuc, che potrebbe contenere solo tre persone. Mi sento in un altro mondo, tanto diverso dal mio e tutto ciò mi piace. La visita di Nuova Delhi si conclude al "Qutab Minar", la torre più alta dell'India (73 metri). Dichiarata dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”, la torre fu voluta da un sovrano musulmano di origine centroasiatica, che aveva sconfitto i regnanti indù verso la fine del XII secolo. La costruzione iniziò nel 1199.
Prima della partenza ho avuto tanto tempo per studiare sulla cartina il percorso che avremmo fatto, le città che avremmo visitato, il clima, la storia, la cultura, i monumenti. Avevo cercato in Internet le foto degli alberghi prenotati, dei palazzi dei maraja in cui avremmo alloggiato e ne davo informazione alle amiche che condividevano il mio entusiasmo. Avevo trovato nel web una pagina di Pasolini sulle forti esperienze dello scrittore ricevute a Benares (oggi Varanasi) nel suo viaggio compiuto insieme a Moravia e ad Elsa Morante nel lontano 1960. La lessi pure a Mariola per telefono soffermandoci sui punti più forti, commentando e sforzandoci di immaginare l’atmosfera sconvolgente di quella città, unica al mondo, la città santa, l’anima spirituale dell’India, eterna dimora del dio Shiva, dove ogni induista desidera andare a morire.
(Cliccare due volte sulla cartina per avere il massimo ingrandimento)
La linea blu segna il percorso del nostro viaggio in Rajasthan. Notare la distanza da Varanasi
Lessi pure per telefono a Mariola alcune pagine scritte da altri viaggiatori sul Gange, il fiume sacro, dalle acque putride, marroni, sporche e melmose. Dopo quella lettura il programma del nostro viaggio ci parve monco. La visita a Varanasi, alquanto distante dal nostro percorso di viaggio, avrebbe comportato un altro volo aereo per quella città e il prolungamento del viaggio di almeno altri tre giorni, col conseguente aumento del costo. Avremmo dovuto dissociarci dal gruppo che già si era formato e cercare un altro tour operator che avesse incluso Varanasi nel viaggio in India. Per non scompigliare il programma e le condizioni inizialmente accettati col nostro capogruppo, pensammo che avremmo considerato il viaggio in Rajasthan come un assaggio dell’ India e ci augurammo di ritornarvi per conoscere un altro pezzo di Paese, inclusi Varanasi e il Gange. Io trascorsi le mattinate d’estate al mare, come ogni anno. Di pomeriggio mi documentavo sull’India, interessandomi tra le altre cose anche di cinema. Appresi i nomi di due registe famose e mi procurai i dvd dei loro film che guardai con interesse e feci vedere anche a Mariola. Poi ci scambiavamo i nostri pareri in lunghe conversazioni telefoniche. Le registe preferite e i loro film erano i seguenti:
Mehta Deepa
- Fire
- Water
- Earth
Mira Nair:
- Gli occhi della vita
- Il destino nel nome
- Salam Bombay
- Kamasutra
- Matrimonio indiano
Inoltre vedemmo altri film interessanti, come la vita di Gandhi, Viaggio in India, Passaggio in India e qualche altro di minor valore. Trascorsa l’estate eravamo pronte per il grande viaggio.
1° giorno, 18 ottobre 2008, sabato
Il primo giorno è il più noioso perché trascorre in viaggio per raggiungere gli aeroporti in lunghe attese tra un volo e l’altro. Alle 7,30 un pulmino ci trasporta all’aeroporto di Palermo dove incontriamo il nostro capogruppo, Mario Porporino, proveniente da Trapani insieme a un altro gruppo di turisti della sua città. Voliamo alla volta di Roma-Fiumicino. Nel pomeriggio voliamo per Monaco di Baviera e la sera, alle ore 20,00 saliamo sull’airbus per il volo più lungo, sette ore, che ci porta a Delhi dove atterriamo alle ore 3,10 al nostro orologio.
2° giorno, 19 ottobre 2008, domenica
Spostiamo le lancette alle 7,40. Ci viene incontro con un cartello di riconoscimento la guida indiana che ci dà il benvenuto e ci accompagna sull’autobus. E’ un giovane di 25 anni e si chiama Rajesh Tandon. Via via che saliamo sull’autobus Rajesh ci mette intorno al collo una collana di fiori gialli: è un modo gentile di accogliere gli stranieri in India. Ci vengono assegnate le camere all’Hotel Tivoli e alle ore 11,00 tutti quanti siamo pronti per andare alla scoperta di Delhi. La prima tappa è la Moschea del Venerdì, una delle più famose di tutto l'oriente, seconda solo a quella di Istanbul (Moschea di Solimano). Costruita nella metà del ‘600, sorge poco distante dal Forte Rosso, nella parte vecchia di Delhi. A differenza di Delhi, Nuova Delhi ha un aspetto moderno. La città non era che un semplice sobborgo della vecchia Delhi, capitale dell'impero inglese fino al 1931. Costruita dagli inglesi a sud dell’antica città, divenne la nuova capitale e dopo l'indipendenza dell'India dalla Gran Bretagna (1947), la città conobbe un rapido sviluppo urbanistico e demografico. Ci attraggono i sari coloratissimi delle donne indiane, che indossano con grazia. Io cerco di fotografarle quando mi passano vicino, e di non farmi notare da loro. Non risparmio foto e riprese. Anche gli altri del gruppo fanno lo stesso.. Attraversiamo le strette strade affollate di gente a piedi o in risciò a pedali; a destra e a sinistra della strada si allineano le bancarelle dei venditori. Oltre ai risciò e ai ciclomotori, circolano i motocarri Ape, che gli indiani chiamano tuc-tuc, che si muovono con destrezza nelle stradine affollate. I tuc-tuc sono i taxi dell'India. Dei bimbi si aggrappano alla scala a pioli attaccata al retro del nostro autobus e ci guardano con curiosità sorridendo davanti alla mia macchina fotografica. La scala a pioli è presente in tutti i bus per permettere ai passeggeri di salire sul tetto del veicolo e di viaggiare all’aperto.
Ci impressiona la sporcizia delle strade. Lasciamo il vecchio centro per una visita al Memoriale di Gandhi, che è un semplice quadrato di pietra nera, posto nel luogo dove venne cremato il Mahatma. Tutt’intorno c’è un grande prato verde, che ispira pace e riposo.
Dopo il pranzo al Ristorante “Lazeez Affaire”, la guida Rajesh, il cui nome da qualcuno viene storpiato in “Radicchio”, ci porta col pullman a Nuova Delhi. Delhi fu la capitale dell'impero britannico delle Indie dal 1912 al 1931. Gli inglesi intrapresero la costruzione di New Delhi a sud dell'antica città e ne fecero la nuova capitale. Dopo l'indipendenza dell'India dalla Gran Bretagna (1947), la città conobbe un rapido sviluppo urbanistico e demografico.
Facciamo due giri in pullman nella piazza circolare per ammirare e fotografare dai finestrini i moderni palazzi del Parlamento e del Governo e poi scendiamo presso la Porta dell'India, che è un arco di trionfo in pietra alto 42 m. su cui sono scritti i nomi degli 85.000 soldati dell'esercito indiano morti nel corso della Prima guerra mondiale nelle operazioni sul fronte nord-occidentale e durante la guerra afghana del 1919.
Ma non ammiriamo solo il monumento, ma l'ampiezza serena del luogo, le famiglie indiane con bambini che vengono a farvi la passeggiata domenicale con i vestiti della festa.
Più di ogni altra cosa, ammiro le ragazze indiane nei loro femminili sari dai colori vivaci. Hanno il viso accuratamente truccato, mani e talvolta anche piedi inanellati, capelli nerissimi e lucidi. Guardo incuriosita una numerosa famiglia scendere da un tuc-tuc, che potrebbe contenere solo tre persone. Mi sento in un altro mondo, tanto diverso dal mio e tutto ciò mi piace. La visita di Nuova Delhi si conclude al "Qutab Minar", la torre più alta dell'India (73 metri). Dichiarata dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”, la torre fu voluta da un sovrano musulmano di origine centroasiatica, che aveva sconfitto i regnanti indù verso la fine del XII secolo. La costruzione iniziò nel 1199.
Qutab Minar, il minareto più alto dell'India. A destra un particolare
Un’iscrizione dice che la torre fu eretta “per proiettare la luce di Allah sull’Oriente e l’Occidente”. Serviva anche da minareto per l’adiacente moschea, la cui costruzione era iniziata sei anni prima. Nelle decorazioni, di gusto spiccatamente indiano, ai caratteri della scrittura sanscrita si affiancano quelli della scrittura araba. Terminata la visita anche alla moschea vicina, Rajesh ci invita a salire sul pullman per andare in albergo. La giornata sta per concludersi, ma una sorpresa ci attende. Il nostro autobus si ferma un po' prima dell'ingresso del nostro albergo. Una piccola banda musicale suona festosamente. Scendendo in strada ci troviamo nel mezzo di un corteo nuziale. Per noi è uno spettacolo indimenticabile. Lo sposo troneggia su una cavalla bianca ornata da coloratissimi drappi ricamati con perle e lustrini mentre un invitato sorregge uno sfarzoso baldacchino sulla sua testa. Tiene stretto davanti a sé un bimbo, come vuole l'usanza del luogo, con l'augurio che il suo matrimonio sia fecondo di figli.
Gli invitati indossano ricchi abiti e dei suonatori strimpellano chiassosamente. Entriamo in albergo, nelle camere assegnate, e ci prepariamo per la cena. Dopo ci intratteniamo nella hall, dove arrivano gli ultimi invitati al matrimonio, che si festeggia in giardino, all'aperto. Alcuni di noi andiamo a curiosare. I camerieri, che girano con i vassoi, si accorgono di noi e gentilmente ci offrono dei dolciumi. Le donne girano in giardino mostrando i loro sari scintillanti. Ero crucciata per aver lasciato la mia macchina fotografica in camera, ma Lia aveva la sua in borsa, così ha potuto scattare qualche foto.
Gli invitati indossano ricchi abiti e dei suonatori strimpellano chiassosamente. Entriamo in albergo, nelle camere assegnate, e ci prepariamo per la cena. Dopo ci intratteniamo nella hall, dove arrivano gli ultimi invitati al matrimonio, che si festeggia in giardino, all'aperto. Alcuni di noi andiamo a curiosare. I camerieri, che girano con i vassoi, si accorgono di noi e gentilmente ci offrono dei dolciumi. Le donne girano in giardino mostrando i loro sari scintillanti. Ero crucciata per aver lasciato la mia macchina fotografica in camera, ma Lia aveva la sua in borsa, così ha potuto scattare qualche foto.
La stanchezza ci vince, ma siamo tutti soddisfatti della nostra prima giornata in India.
3° giorno, 20 ottobre 2008, lunedì
Stamattina siamo pronti per lasciare Delhi e il suo Territorio per raggiungere la seconda città da visitare. Attraversiamo la capitale guardando dai finestrini dell'autobus e scattando foto ai bei templi che corrono sotto i nostri occhi, ma anche ad immagini che non vorremmo vedere: strade di terra battuta, polverose e sporche di ogni genere di rifiuto, baracche sgangherate di venditori, miscugli di uomini e animali in armoniosa convivenza.
Foto scattata dal finestrino dell'autobus
Usciti dal Territorio di Delhi, entriamo nello stato di Hariana (sono 28 gli stati dell'Unione Indiana). Rajesh ci dice che la capitale, Gurgaon, è una vivace città, sede di aziende di alta tecnologia, caratterizzata da moderni grattacieli, meta ideale per investire nel settore immobiliare. Il viaggio è lento sia per le brutte condizioni delle strade, sia per il traffico caotico e assordante. I guidatori indiani amano suonare il clacson. Rajesh, intorno alle 10,30, ci fa sostare in un locale di servizio, dove ci offre un tè. Il viaggio riprende per raggiungere Narnaul, dove ci aspetta il pranzo. Lungo la strada fotografiamo un gruppo di mucche senza padrone che bivaccano presso un muro. Ci siamo già abituati alla vista degli animali che vivono liberamente insieme agli uomini. Ci siamo abituati a vedere anche dei carri trainati da dromedari. Ora vorrei parlare del nostro autobus, che non ha niente a che vedere con i nostri, più grandi e confortevoli. I finestrini sono apribili e questo mi piace perché mi consentono di fotografare senza il riflesso del vetro. Sopra ogni finestrino c'è un piccolo ventilatore, che a noi non serve perché in ottobre in India non fa caldo. Il guidatore non sta nello stesso scompartimento dei passeggeri: tra noi e lui c'è una parete di vetro, apribile solo nella parte alta. A sinistra del guidatore c'è una panca, che, come ho saputo dopo, viene utilizzata come letto dall'autista. Oltre a lui c'è un ragazzo che fa da assistente. E' incaricato di rifornire il frigo di bottiglie di acqua che vengono rivendute a noi quando ne abbiamo bisogno. L'autista non ha diritto a dormire in albergo a spese dell'agenzia di viaggio, come invece si usa da noi. Questo diritto ce l'ha solo la guida, che pranza con noi e pernotta nello stesso albergo. Pertanto l'autista e l'assistente dormono in pullman. Io non ho mai un posto fisso durante il viaggio. Il desiderio di fotografare o filmare dal punto di vista migliore mi fa cambiare di posto, evitando di disturbare i compagni di viaggio. Alcuni invece utilizzano ogni astuzia per accaparrarsi il sedile in prima fila: fanno colazione alla svelta e si alzano dalla tavola prima degli altri, appostandosi davanti al pullman ancora chiuso. Non si allontanano di un passo e quando vedono arrivare l’autista sono i primi a salire quando lo sportello è aperto. Nelle tappe intermedie, quando si lascia il pullman per una visita a piedi, lasciano qualcosa sui sedili anteriori: una borsa, una giacca, un pacchetto, in modo che chi risale prima di loro desista dalla tentazione di sedersi nei sedili ingombri di oggetti. Questi furbi pensano che nessuno si avveda delle loro manovre. Se ne avvedono tutti, mentre loro non si avvedono di essere circondati da un'aureola di antipatia.
Oggi ho scoperto il posto migliore: senza chiedere permesso a nessuno, apro la parete di vetro che ci separa dall'autista, scavalco la parte fissa (non tanto bassa) e mi piazzo nella panca a sinistra del guidatore. Che vista meravigliosa per la telecamera e la macchina fotografica! ma anche per me: ho una visuale frontale e sono in grado di prepararmi subito per la ripresa o lo scatto. Qualcuno, seguendo il mio esempio, mi ha raggiunto in cabina, suscitando un po' di invidia in coloro che non erano in grado di scavalcare. Ida ha voluto provare anche lei, ma ha desistito subito. Ora vi presento in una foto le nostre quattro guide: da destra: Rajesh Tandom, l'autista, di cui non ricordo il nome, Mario Porporino e l'assistente dell'autista.
Osservando il paesaggio, chiacchierando o scherzando arriviamo a Narnaul per il pranzo. Siamo vicini al confine con il Rajastan che raggiungiamo nel pomeriggio. La città del nostro pernottamento è Mandawa, che visiteremo domani. L'albergo di Mandawa, fuori mano, si chiama " Desert Resort Mandawa". Un giovanotto indiano con baffi e turbante arancione ci dà il benvenuto con una collana di fiori e segnandoci la fronte con un punto rosso.
La costruzione è particolare, tutta a pianterreno, con pareti rustiche colore della sabbia, abbellite da disegni decorativi bianchi. Le porte sono chiuse da chiavistelli bloccati da un catenaccio, le stanze spaziose e l'arredamento essenziale. Dopo una doccia ristoratrice ci avviamo in giardino, dove troviamo i nostri tavoli per la cena all'aperto. L'atmosfera è gradevole, l'aria fresca. Rajesh, che conosce le nostre date di nascita, ci ha sorpreso festeggiando il compleanno di un nostro compagno di viaggio, Mimmo Saggio, con torta e musici in costume indiano, che ci hanno allietato con un giro di danza attorno a i tavoli.
Di fronte ai nostri tavoli c'è un teatrino di marionette che suscita la nostra curiosità. Dopo la cena ci avviciniamo per curiosare: le marionette sono in vendita a poche rupie. Tutti ne compriamo due, che rappresentano il marajà e la maranì (la moglie del marajà).
Io, che non amo tenere bambole in mostra nella mia casa, ho comprato una coppia di marionette per portarle in dono a due miei pronipotini.
Prima di entrare Rajesh ci spiega che le haveli sono delle case signorili, testimonianza della ricchezza dei commercianti indiani di un tempo ormai trascorso. Aperte su uno o più cortili interni, ma separate dalla strada da alte mura, erano abitate da più famiglie dello stesso clan in modo che donne, vecchi e bambini non restassero isolati, mentre gli uomini erano lontani con le carovane. Più che la struttura architettonica, quel che le rende originali sono i dipinti murali naif, dai colori netti e vivaci. I primi affreschi, risalenti alla metà del XVIII secolo, hanno quasi esclusivamente carattere religioso o mitologico. In quelli del XIX secolo furono dipinti treni, navi, automobili, biciclette e personaggi di quel periodo.
Visitiamo uno dei cortili interni, abitato. Alcuni bambini stanno seduti su un gradino mentre la mamma cucina per loro le frittelle per la colazione. La scuola apre alle dieci, perciò hanno ancora tempo. La stessa donna lava con cura un bambino e lo veste, incurante della nostra presenza.
Io ho filmato in breve quel momento di vita quotidiana nel cortile: una donna anziana seduta a terra, scalza, passa al setaccio del frumento; la donna giovane cucina le frittelle adoperando molte spezie; i bambini già vestiti ci guardano.
Visitiamo altre haveli camminando a piedi nelle strade malandate fino all'autobus, che riparte per portarci altrove.
Lasciata Mandawa con le sue haveli, attraversiamo, senza fermarci, il villaggio di Fatehpur. A destra e a sinistra della strada si allineano povere baracche che espongono ogni tipo di mercanzia.
Dopo il villaggio il paesaggio appare scarso di vegetazione fino a diventare desertico. Cerco di orientarmi sulla cartina: siamo diretti a Bikaner, situata nel deserto del Thar, lungo una antica via carovaniera.
L'aspetto del paesaggio è monotono, la vegetazione bassa o assente. Maria, vedendomi assorta a guardare la cartina distesa sulle gambe, si avvicina al mio sedile e mi chiede: "Siamo in un deserto?"
Io rispondo:" Sì, è il deserto del Thar. Guarda tu quanto è grande!"
E le mostro la cartina.
Il Deserto di Thar, noto anche come il Gran Deserto Indiano, è una grande ed arida regione nella parte nord-occidentale del subcontinente indiano. Ha una superficie di oltre 200.000 chilometri quadrati e si trova in gran parte nello stato indiano del Rajasthan, e si estende nella parte meridionale degli stati indiani del Punjab, Hariana e Gujarat settentrionale. II deserto si estende anche nella parte orientale del Pakistan e sud-occidentale del Punjab.
Mi accorgo che percorriamo una strada asfaltata, quindi più agevole delle altre. Siamo vicino al confine con il Pakistan. Sorpassiamo una lunga colonna di camionette militari piene di soldati. Inoltre vediamo, lungo il percorso, delle postazioni militari, delle garitte con guardie. Chiediamo a Rajesh il perché della circolazione di mililari nella zona che noi stiamo attraversando. La guida ci spiega che i rapporti tra India e Pakistan sono tesi e che i soldati vanno al confine vicino per difenderlo (non ci sfiorano la mente gli attacchi che accadranno il 26 novembre a Mumbai con un bilancio di 188 morti e circa 300 feriti).
Rajesh non dà altre spiegazioni e nessuno di noi ha voglia di preoccuparsi.
Il viaggio è lungo e di tanto in tanto ci rilassiamo socchiudendo gli occhi. La guida, per tenere desta la nostra attenzione, attacca a parlare del suo argomento preferito, l'induismo. Sin dal primo giorno, nelle tappe di trasferimento da un luogo ad un altro, Rajesh ci ha parlato in modo elementare, come quando si parla ai bambini, di una molteplicità di figure divine, e anche del fatto che i fedeli si distinguono per la loro devozione a un dio particolare.
Tra gli innumerevoli dei, i più importanti sono Brahma, che rappresenta la creazione, Visnù, la conservazione e Shiva, la distruzione (necessaria per la successiva rinascita).
Gli induisti credono nella reincarnazione: se un uomo si comporta male in questa vita, dopo la morte la sua anima torna a vivere in un altro corpo per espiare i peccati commessi: solo chi onora gli dei e si comporta con carità verso gli altri uomini raggiunge la pace eterna, il paradiso di felicità.
Visnù e Shiva sono molto popolari e hanno templi e seguaci in ogni parte dell'India. Inoltre ci sono centinaia di altre divinità, alcune venerate in tutta l'India, altre in alcune regioni o villaggi.
Rajesh, sin dal primo discorso sull'induismo, ha voluto che imparassimo le dieci incarnazioni del dio Visnù, facendocele ripetere più di una volta. Io ricordo le prime cinque, per averle appuntate su un quaderno:
la prima è un pesce;
la seconda una tartaruga;
la terza un cinghiale;
la quarta un mezzo uomo più un mezzo leone;
la quinta un piccolo santone.
Buddha, secondo gli induisti, è una incarnazione di Visnù; ma i buddisti non lo credono.
Un ciclo di reincarnazioni dura 84 mila volte. Dopo si rinasce umani.
Tra le innumerevoli divinità, di cui Rajesh ci ha imbottito la testa, mi è rimasto impresso
Ganesha, un dio molto popolare nell'induismo, che aiuta a superare gli ostacoli, che si prega prima di intraprendere un viaggio, di costruire una casa, di scrivere un libro; è pure dio della saggezza e della prudenza.
Spesso nelle nostre soste ci è capitato di vedere un tempietto a lui dedicato.
Figlio di Shiva e di Parvati, viene rappresentato come un ometto dal ventre prominente e dalla testa di elefante. Pare che Shiva avesse l'abitudine di sorprendere Parvati mentre faceva il bagno. Siccome a Parvati non piaceva essere spiata, raschiò la sua pelle, la mescolò con olii e altri unguenti, modellò una figura e l'asperse con acqua del Gange. Diede così vita a Ganesha perché la proteggesse. Shiva, geloso, lo decapitò. Ma al dolore di Parvati non seppe resistere e ridiede vita al figlio installandogli la testa della prima creatura incontrata. Il caso volle che fosse un elefante.
Chi erano i Maharaja?
Il termine deriva dall’antica parola composta sanscrita (lingua letteraria dell'India classica e lingua sacra dell'induismo) mahat, “grande”, e rajah, “re”. Maharaja dunque significa Grande re.
Il Rajasthan è dunque la terra dei grandi re, dove tutto è superlativo, impressionante e la bellezza mozza il fiato; dove la preziosità inimmaginabile e la pietra trasformata in merletti leggeri, aerei, sembrano essere spuntati come per magia. Noi, che attraversiamo le strade sporche, che siamo circondati da poveri che ci tendono la mano quando scendiamo dall'autobus, o che vogliono venderci per poche rupie i loro souvenirs, entrando in una fortezza, come quella di Bikaner, ci sentiamo catapultati in un mondo magico, che ci fa dimenticare la realtà esterna.
Questa è la prima fortezza che vediamo nel nostro viaggio. Tante altre ne vedremo fino a confonderci la testa a non distinguerle più l'una dall'altra, a non valutare più quale è la più bella, quale la più impressionante.
Il gioiello più prezioso al mondo lo vedremo l'ultimo giorno del nostro viaggio ad Agra, inconfondibile, universalmente riconosciuto come un raro gioiello di pietra, che resta indelebile nella memoria di chi l'ha visto.
Ma le sorprese non sono ancora finite oggi. Ce ne aspetta un'altra all'uscita dalla fortezza di Junagarh, che ci catapulta nel cuore della città di Bikaner, in un bagno di folla vertiginoso.
Non troviamo il nostro autobus ad attenderci, ma una fila di taxi indiani, quei curiosi taxi visti il primo giorno a Dehli, cioè i tuc-tuc, che ci faranno uscire dalla città dopo averla attraversata. Rajesh ci invita a salire a tre a tre. Io sono con Lia e Maria Elena.
C'è trambusto nel salire perché siamo tanti in una volta. Le moto Ape partono strombazzando e ci avventuriamo tutti quanti nel cuore pulsante di una città indiana. Non trovo le parole adatte per esprimere le nostre impressioni. Penso a come racconterò, al mio ritorno a casa, questo inaspettato bagno di folla indiano. Sarà difficile, perciò sporgo dal tuc-tuc la mia telecamera appoggiata sulle gambe, premo il pulsante per avviare le riprese senza inquadratura e registro tutto quanto passa sotto il suo occhio.
Ci pare di essere sulla giostra dell'autoscontro; ma non c'è alcuno scontro. L'autista guida veloce sfiorando quasi i passanti, le mucche, un cinghialino che attraversa la strada tra le gambe della gente, le capre, altri tuc-tuc, senza tenere conto della destra o della sinistra, infilandosi dove c'è spazio, curvando all'improvviso e facendoci sobbalzare e scuotere .... Non ci sono parole. Alle nostre esclamazioni di preoccupazione per il modo di guidare, l'autista si gira verso di noi sorridente e rassicurante. "No problem" - dice - e continua imperterrito a fare la gincana tra gli ostacoli. Abbiamo la sensazione di scontrarci da un momento all'altro. A destra e sinistra sfilano sotto i nostri occhi le baracche, i negozietti, i laboratori dove gli artigiani lavorano allo scoperto, quasi sulla strada: sarti, fabbri, meccanici, ecc.
Un gommista con i ferri del mestiere, sulla strada.
Sotto il gradino scorrono le acque putride della città
I venditori stanno seduti sul gradino davanti alla baracca stracolma di oggetti, dove non c'è posto per una sedia. Non ci sono sedie: gli indiani stanno seduti a terra, sul gradino della casa, sotto cui passa la canaletta delle acque putride, provenienti dall'interno.
Oggi ho scoperto il posto migliore: senza chiedere permesso a nessuno, apro la parete di vetro che ci separa dall'autista, scavalco la parte fissa (non tanto bassa) e mi piazzo nella panca a sinistra del guidatore. Che vista meravigliosa per la telecamera e la macchina fotografica! ma anche per me: ho una visuale frontale e sono in grado di prepararmi subito per la ripresa o lo scatto. Qualcuno, seguendo il mio esempio, mi ha raggiunto in cabina, suscitando un po' di invidia in coloro che non erano in grado di scavalcare. Ida ha voluto provare anche lei, ma ha desistito subito. Ora vi presento in una foto le nostre quattro guide: da destra: Rajesh Tandom, l'autista, di cui non ricordo il nome, Mario Porporino e l'assistente dell'autista.
Osservando il paesaggio, chiacchierando o scherzando arriviamo a Narnaul per il pranzo. Siamo vicini al confine con il Rajastan che raggiungiamo nel pomeriggio. La città del nostro pernottamento è Mandawa, che visiteremo domani. L'albergo di Mandawa, fuori mano, si chiama " Desert Resort Mandawa". Un giovanotto indiano con baffi e turbante arancione ci dà il benvenuto con una collana di fiori e segnandoci la fronte con un punto rosso.
La costruzione è particolare, tutta a pianterreno, con pareti rustiche colore della sabbia, abbellite da disegni decorativi bianchi. Le porte sono chiuse da chiavistelli bloccati da un catenaccio, le stanze spaziose e l'arredamento essenziale. Dopo una doccia ristoratrice ci avviamo in giardino, dove troviamo i nostri tavoli per la cena all'aperto. L'atmosfera è gradevole, l'aria fresca. Rajesh, che conosce le nostre date di nascita, ci ha sorpreso festeggiando il compleanno di un nostro compagno di viaggio, Mimmo Saggio, con torta e musici in costume indiano, che ci hanno allietato con un giro di danza attorno a i tavoli.
Di fronte ai nostri tavoli c'è un teatrino di marionette che suscita la nostra curiosità. Dopo la cena ci avviciniamo per curiosare: le marionette sono in vendita a poche rupie. Tutti ne compriamo due, che rappresentano il marajà e la maranì (la moglie del marajà).
Io, che non amo tenere bambole in mostra nella mia casa, ho comprato una coppia di marionette per portarle in dono a due miei pronipotini.
4° giorno, 21 ottobre 2008, martedì
Lasciamo l'albergo diretti alle "haveli" di Mandawa. Prima di partire per l'India avevo letto nel programma di viaggio che a Mandawa avremmo visitato le "haveli", residenze signorili di ricchi commercianti di un tempo, ma mi ero fatta una idea vaga. Stamattina seguiamo Rajesh a piedi in un quartiere sconcertante: la strada è di terra battuta, sporca di immondizie, lungo un lato scorrono in una canaletta acque nere provenienti dalle case. Possibile che non esistano le fognature? Dobbiamo badare a dove mettere i piedi per non sporcarci. Man mano che avanziamo si formano gruppi di bambini o persone sfaccendate, che, incuriositi dalla nostra presenza, ci seguono. Io mi chiedo: - Dove ci sta portando Rajesh? Dove sono le case signorili? Non vedo intorno altro che sporcizia e povertà.
Sulla destra una canaletta di scolo di acque luride. Ne vedremo in ogni città
Ed ecco arrivati davanti ad una haveli. Sono sconcertata da tanta raffinatezza in un posto così sporco e misero. Ammiriamo gli affreschi.
Tre donne agghindate in modo vistoso posano per una foto.
Ci seguono un po' per curiosità, ma anche per chiedere soldi.
Ci seguono un po' per curiosità, ma anche per chiedere soldi.
Prima di entrare Rajesh ci spiega che le haveli sono delle case signorili, testimonianza della ricchezza dei commercianti indiani di un tempo ormai trascorso. Aperte su uno o più cortili interni, ma separate dalla strada da alte mura, erano abitate da più famiglie dello stesso clan in modo che donne, vecchi e bambini non restassero isolati, mentre gli uomini erano lontani con le carovane. Più che la struttura architettonica, quel che le rende originali sono i dipinti murali naif, dai colori netti e vivaci. I primi affreschi, risalenti alla metà del XVIII secolo, hanno quasi esclusivamente carattere religioso o mitologico. In quelli del XIX secolo furono dipinti treni, navi, automobili, biciclette e personaggi di quel periodo.
Visitiamo uno dei cortili interni, abitato. Alcuni bambini stanno seduti su un gradino mentre la mamma cucina per loro le frittelle per la colazione. La scuola apre alle dieci, perciò hanno ancora tempo. La stessa donna lava con cura un bambino e lo veste, incurante della nostra presenza.
Io ho filmato in breve quel momento di vita quotidiana nel cortile: una donna anziana seduta a terra, scalza, passa al setaccio del frumento; la donna giovane cucina le frittelle adoperando molte spezie; i bambini già vestiti ci guardano.
La cucina nel cortile. Il bimbo, già lavato e vestito,
si accinge a fare colazione prima di andare a scuola.
Una scala ci porta al piano superiore e poi in terrazza, da cui lo sguardo si estende sulla città.si accinge a fare colazione prima di andare a scuola.
Visitiamo altre haveli camminando a piedi nelle strade malandate fino all'autobus, che riparte per portarci altrove.
Lasciata Mandawa con le sue haveli, attraversiamo, senza fermarci, il villaggio di Fatehpur. A destra e a sinistra della strada si allineano povere baracche che espongono ogni tipo di mercanzia.
Dopo il villaggio il paesaggio appare scarso di vegetazione fino a diventare desertico. Cerco di orientarmi sulla cartina: siamo diretti a Bikaner, situata nel deserto del Thar, lungo una antica via carovaniera.
L'aspetto del paesaggio è monotono, la vegetazione bassa o assente. Maria, vedendomi assorta a guardare la cartina distesa sulle gambe, si avvicina al mio sedile e mi chiede: "Siamo in un deserto?"
Io rispondo:" Sì, è il deserto del Thar. Guarda tu quanto è grande!"
E le mostro la cartina.
Il Deserto di Thar, noto anche come il Gran Deserto Indiano, è una grande ed arida regione nella parte nord-occidentale del subcontinente indiano. Ha una superficie di oltre 200.000 chilometri quadrati e si trova in gran parte nello stato indiano del Rajasthan, e si estende nella parte meridionale degli stati indiani del Punjab, Hariana e Gujarat settentrionale. II deserto si estende anche nella parte orientale del Pakistan e sud-occidentale del Punjab.
Mi accorgo che percorriamo una strada asfaltata, quindi più agevole delle altre. Siamo vicino al confine con il Pakistan. Sorpassiamo una lunga colonna di camionette militari piene di soldati. Inoltre vediamo, lungo il percorso, delle postazioni militari, delle garitte con guardie. Chiediamo a Rajesh il perché della circolazione di mililari nella zona che noi stiamo attraversando. La guida ci spiega che i rapporti tra India e Pakistan sono tesi e che i soldati vanno al confine vicino per difenderlo (non ci sfiorano la mente gli attacchi che accadranno il 26 novembre a Mumbai con un bilancio di 188 morti e circa 300 feriti).
Rajesh non dà altre spiegazioni e nessuno di noi ha voglia di preoccuparsi.
Il viaggio è lungo e di tanto in tanto ci rilassiamo socchiudendo gli occhi. La guida, per tenere desta la nostra attenzione, attacca a parlare del suo argomento preferito, l'induismo. Sin dal primo giorno, nelle tappe di trasferimento da un luogo ad un altro, Rajesh ci ha parlato in modo elementare, come quando si parla ai bambini, di una molteplicità di figure divine, e anche del fatto che i fedeli si distinguono per la loro devozione a un dio particolare.
Tra gli innumerevoli dei, i più importanti sono Brahma, che rappresenta la creazione, Visnù, la conservazione e Shiva, la distruzione (necessaria per la successiva rinascita).
Gli induisti credono nella reincarnazione: se un uomo si comporta male in questa vita, dopo la morte la sua anima torna a vivere in un altro corpo per espiare i peccati commessi: solo chi onora gli dei e si comporta con carità verso gli altri uomini raggiunge la pace eterna, il paradiso di felicità.
Visnù e Shiva sono molto popolari e hanno templi e seguaci in ogni parte dell'India. Inoltre ci sono centinaia di altre divinità, alcune venerate in tutta l'India, altre in alcune regioni o villaggi.
Rajesh, sin dal primo discorso sull'induismo, ha voluto che imparassimo le dieci incarnazioni del dio Visnù, facendocele ripetere più di una volta. Io ricordo le prime cinque, per averle appuntate su un quaderno:
la prima è un pesce;
la seconda una tartaruga;
la terza un cinghiale;
la quarta un mezzo uomo più un mezzo leone;
la quinta un piccolo santone.
Buddha, secondo gli induisti, è una incarnazione di Visnù; ma i buddisti non lo credono.
Un ciclo di reincarnazioni dura 84 mila volte. Dopo si rinasce umani.
Tra le innumerevoli divinità, di cui Rajesh ci ha imbottito la testa, mi è rimasto impresso
Ganesha, un dio molto popolare nell'induismo, che aiuta a superare gli ostacoli, che si prega prima di intraprendere un viaggio, di costruire una casa, di scrivere un libro; è pure dio della saggezza e della prudenza.
Spesso nelle nostre soste ci è capitato di vedere un tempietto a lui dedicato.
Figlio di Shiva e di Parvati, viene rappresentato come un ometto dal ventre prominente e dalla testa di elefante. Pare che Shiva avesse l'abitudine di sorprendere Parvati mentre faceva il bagno. Siccome a Parvati non piaceva essere spiata, raschiò la sua pelle, la mescolò con olii e altri unguenti, modellò una figura e l'asperse con acqua del Gange. Diede così vita a Ganesha perché la proteggesse. Shiva, geloso, lo decapitò. Ma al dolore di Parvati non seppe resistere e ridiede vita al figlio installandogli la testa della prima creatura incontrata. Il caso volle che fosse un elefante.
Io e Maria Elena posiamo accanto all'immagine di Ganesha, a Fort
Pokhran, nella città di Pokhran, dove l'indomani sostiamo per il pranzo
Mai visto niente di più prezioso
Sono ancora tante le foto che vorrei inserire nel mio racconto, ma queste sole bastano per avere una idea della raffinatezza artistica e del lusso in cui vivevano i Maharaja nel Rajasthan dei secoli passati.Pokhran, nella città di Pokhran, dove l'indomani sostiamo per il pranzo
Avvicinandoci alla città di Bikaner, dove sosteremo per il pranzo e il pernottamento, Rajesh interrompe tutte le sue storielle mitologiche e comincia a darci alcune notizie sulla città.
Circondata da una cinta muraria di sette chilometri, sorge in mezzo al deserto di Thar, conservando l'atmosfera delle antiche città-oasi carovaniere, dove facevano tappa i mercanti provenienti dall'estremo oriente, per portare sete, spezie e profumi nel Mediterraneo.
Circondata da una cinta muraria di sette chilometri, sorge in mezzo al deserto di Thar, conservando l'atmosfera delle antiche città-oasi carovaniere, dove facevano tappa i mercanti provenienti dall'estremo oriente, per portare sete, spezie e profumi nel Mediterraneo.
Al periodo moderno del Maharaja Ganga Singh, che governò per 56 anni, risale il famoso "Ganga Canal", imponente costruzione per l'irrigazione che convoglia sin qui le preziose acque dell'Himalaya.
Capolavoro architettonico dello stesso Maharaja è anche il Lalgarh Palace, reggia eretta tra il 1902- 1926, da pochi anni trasformata in albergo, dove fra poco pranzeremo e passeremo la notte. La famiglia reale di Bikaner vive ancora in una parte del palazzo.
Capolavoro architettonico dello stesso Maharaja è anche il Lalgarh Palace, reggia eretta tra il 1902- 1926, da pochi anni trasformata in albergo, dove fra poco pranzeremo e passeremo la notte. La famiglia reale di Bikaner vive ancora in una parte del palazzo.
Reggia di Lalgarh Palace, dove oggi pranzeremo e alloggeremo
Entriamo nella reggia di Lalgarh Palace alle ore 13,30. Prendiamo possesso delle camere assegnate, spaziose e bellissime, e ci affrettiamo a raggiungere la stanza da pranzo. Lungo i corridoi ci incontriamo ed esprimiamo la nostra meraviglia per essere ospitati nel palazzo di un maharaja. Dopo il pranzo torniamo nelle camere, ci guardiamo intorno, scattiamo foto all'interno e all'esterno sporgendoci dalla finestra. Io e Lia, con cui divido la stanza, cerchiamo quella di Maria Elena e Valentina. A differenza della nostra, la stanza delle ragazze non ha finestre aperte, ma pareti traforate, fatte apposta perché le donne possano guardare fuori senza essere viste.
Poco prima delle ore 16,00 lasciamo le stanze per andare a visitare la fortezza di Junagarh.Passando per un lungo e largo corridoio mi soffermo a guardare delle foto in bella vista su un mobile: sono i ritratti dei padroni del palazzo, il Maharaja Dr. Karni Singhji e la Principessa Rajyashree Kumar che abitano in una parte a loro riservata.
Con l'autobus raggiungiamo la fortezza di Junagarh. Costruita nel 1588 è uno dei pochi forti del Rajasthan che non occupa la cima di una collina e le sue uniche difese sono le sue possenti mura con 37 bastioni e il fossato che le circonda. Non è stata mai espugnata. Ma le regine, i cui mariti morivano in battaglia, si uccidevano come loro partecipazione estrema. Questo gesto veniva immortalato riproducendo sulla parete antistante la porta principale del forte l'impronta sanguinante delle loro mani.
L'immagine macabra delle mani rosse di sangue, come si vede nella foto sopra, a sinistra, mi ha fortemente impressionato. Tale forma di suicidio collettivo si chiama "joar".
Nell'interno della fortezza si intrecciano numerosi palazzi dagli straordinari intarsi di pietra, come si vede nelle foto sottostanti.
Poco prima delle ore 16,00 lasciamo le stanze per andare a visitare la fortezza di Junagarh.Passando per un lungo e largo corridoio mi soffermo a guardare delle foto in bella vista su un mobile: sono i ritratti dei padroni del palazzo, il Maharaja Dr. Karni Singhji e la Principessa Rajyashree Kumar che abitano in una parte a loro riservata.
Con l'autobus raggiungiamo la fortezza di Junagarh. Costruita nel 1588 è uno dei pochi forti del Rajasthan che non occupa la cima di una collina e le sue uniche difese sono le sue possenti mura con 37 bastioni e il fossato che le circonda. Non è stata mai espugnata. Ma le regine, i cui mariti morivano in battaglia, si uccidevano come loro partecipazione estrema. Questo gesto veniva immortalato riproducendo sulla parete antistante la porta principale del forte l'impronta sanguinante delle loro mani.
L'immagine macabra delle mani rosse di sangue, come si vede nella foto sopra, a sinistra, mi ha fortemente impressionato. Tale forma di suicidio collettivo si chiama "joar".
Nell'interno della fortezza si intrecciano numerosi palazzi dagli straordinari intarsi di pietra, come si vede nelle foto sottostanti.
Mai visto niente di più prezioso
Chi erano i Maharaja?
Il termine deriva dall’antica parola composta sanscrita (lingua letteraria dell'India classica e lingua sacra dell'induismo) mahat, “grande”, e rajah, “re”. Maharaja dunque significa Grande re.
Il Rajasthan è dunque la terra dei grandi re, dove tutto è superlativo, impressionante e la bellezza mozza il fiato; dove la preziosità inimmaginabile e la pietra trasformata in merletti leggeri, aerei, sembrano essere spuntati come per magia. Noi, che attraversiamo le strade sporche, che siamo circondati da poveri che ci tendono la mano quando scendiamo dall'autobus, o che vogliono venderci per poche rupie i loro souvenirs, entrando in una fortezza, come quella di Bikaner, ci sentiamo catapultati in un mondo magico, che ci fa dimenticare la realtà esterna.
Questa è la prima fortezza che vediamo nel nostro viaggio. Tante altre ne vedremo fino a confonderci la testa a non distinguerle più l'una dall'altra, a non valutare più quale è la più bella, quale la più impressionante.
Il gioiello più prezioso al mondo lo vedremo l'ultimo giorno del nostro viaggio ad Agra, inconfondibile, universalmente riconosciuto come un raro gioiello di pietra, che resta indelebile nella memoria di chi l'ha visto.
Ma le sorprese non sono ancora finite oggi. Ce ne aspetta un'altra all'uscita dalla fortezza di Junagarh, che ci catapulta nel cuore della città di Bikaner, in un bagno di folla vertiginoso.
Non troviamo il nostro autobus ad attenderci, ma una fila di taxi indiani, quei curiosi taxi visti il primo giorno a Dehli, cioè i tuc-tuc, che ci faranno uscire dalla città dopo averla attraversata. Rajesh ci invita a salire a tre a tre. Io sono con Lia e Maria Elena.
C'è trambusto nel salire perché siamo tanti in una volta. Le moto Ape partono strombazzando e ci avventuriamo tutti quanti nel cuore pulsante di una città indiana. Non trovo le parole adatte per esprimere le nostre impressioni. Penso a come racconterò, al mio ritorno a casa, questo inaspettato bagno di folla indiano. Sarà difficile, perciò sporgo dal tuc-tuc la mia telecamera appoggiata sulle gambe, premo il pulsante per avviare le riprese senza inquadratura e registro tutto quanto passa sotto il suo occhio.
Ci pare di essere sulla giostra dell'autoscontro; ma non c'è alcuno scontro. L'autista guida veloce sfiorando quasi i passanti, le mucche, un cinghialino che attraversa la strada tra le gambe della gente, le capre, altri tuc-tuc, senza tenere conto della destra o della sinistra, infilandosi dove c'è spazio, curvando all'improvviso e facendoci sobbalzare e scuotere .... Non ci sono parole. Alle nostre esclamazioni di preoccupazione per il modo di guidare, l'autista si gira verso di noi sorridente e rassicurante. "No problem" - dice - e continua imperterrito a fare la gincana tra gli ostacoli. Abbiamo la sensazione di scontrarci da un momento all'altro. A destra e sinistra sfilano sotto i nostri occhi le baracche, i negozietti, i laboratori dove gli artigiani lavorano allo scoperto, quasi sulla strada: sarti, fabbri, meccanici, ecc.
Un gommista con i ferri del mestiere, sulla strada.
Sotto il gradino scorrono le acque putride della città
Uno dei tanti negozi della città. Lo spazio interno è di pochi medri quadri
I tuc-tuc ci riportano ai piedi della fortezza di Junagarh, nelle cui vicinanze c'è il nostro autobus che ci attende.
Il giro in tuc-tuc è stata una esperienza indimenticabile.
Torniamo nel Palazzo del Maharaja, che è il nostro albergo a Bikaner, e dopo una doccia ristoratrice ci prepariamo per la cena. Stasera si festeggia un altro compleanno, quello di Ida, con torta e battimani. Dopo cena ci intratteniamo in giardino, dove due danzatrici in costume, accompagnate da alcuni musici, allietano la nostra serata (foto sotto).
Sono le ore 17,30. I tuc-tuc si fermano nei pressi del tempio jainista di Bhandasar che visitiamo a piedi scalzi, come vuole il regolamento. Ho un vago ricordo della visita e una sola foto.
I tuc-tuc ci riportano ai piedi della fortezza di Junagarh, nelle cui vicinanze c'è il nostro autobus che ci attende.
Il giro in tuc-tuc è stata una esperienza indimenticabile.
Torniamo nel Palazzo del Maharaja, che è il nostro albergo a Bikaner, e dopo una doccia ristoratrice ci prepariamo per la cena. Stasera si festeggia un altro compleanno, quello di Ida, con torta e battimani. Dopo cena ci intratteniamo in giardino, dove due danzatrici in costume, accompagnate da alcuni musici, allietano la nostra serata (foto sotto).
5° giorno – 22 ottobre 2008 - mercoledì
Stamattina, riposati e di buon umore per l’intensa giornata vissuta ieri, partiamo per la meta prevista dal programma: Jaisalmer, Km 340, circa 7 ore di viaggio.
La strada che percorriamo è nel deserto. Il colore predominante è quello della sabbia dorata, punteggiata da rade piante o arbusti. In lontananza si vede il profilo dei Monti Aravalli.
Il paesaggio è sempre uguale.
Dopo quasi due ore e mezzo di viaggio, durante il quale Rajesh instancabile racconta le storie della mitologia induista, che ascoltiamo distrattamente o non ascoltiamo affatto, per chiacchierare tra noi o sonnecchiare, ci fermiamo per visitare un villaggio nel deserto. Gli abitanti ci vengono incontro circondando il nostro pullman e invitandoci a comprare le loro povere cose: collanine, braccialetti, elefantini, ecc. Ci avviciniamo alle loro primitive capanne, fatte con sterco di vacca essiccato, impastato con la sabbia. Si vedono ammucchiati in un posto i pani di sterco, che vengono utilizzati sia per la costruzione che come combustibile. In un angolino si vede una fontanella di sabbia bagnata con lo sterco sbriciolato nel mezzo, pronto per l’impasto, come si vede nella foto sottostante.
Le donne e le bambine indossano sari dai colori vivacissimi, che spiccano sull’oro della sabbia, e portano gioielli altrettanto vistosi: grandi bracciali, che coprono quasi interamente le due braccia, anche fino agli omeri; anelli alle dita delle mani e anche dei piedi, orecchini, qualche bottoncino al naso, cavigliere; si dipingono mani e piedi con l'henné.
Si fanno fotografare volentieri e noi ne approfittiamo per portare a casa le immagini del loro mondo a noi sconosciuto.
Ci avviamo verso il pullman per proseguire il nostro viaggio, seguiti dalla gente del luogo, uomini, donne e bambini, che si accalcano per convincerci a comprare le loro chincaglierie e qualcuno quasi entra per contrattare ancora, prima che la portiera si chiuda, come si vede nella foto sotto.
Riprendiamo il viaggio: il paesaggio del deserto non varia. Lungo il percorso facciamo sosta due volte in stazioni di servizio per sgranchirci le gambe, usare le toilettes, prendere qualche bibita al bar e distrarci nel negozio di souvenir. Valentina si avvolge intorno al corpo un bel drappo a fantasia azzurro a mo' di sari e si fa fotografare. Io e altre compagne acquistiamo delle borse di stoffa colorata, statuette di legno raffiguranti il dio Ganesha con la testa di elefante e quattro braccia, ed altri souvenirs. Lia contratta tenacemente una collana di turchesi, ma il venditore non molla e lei rinunzia.
Rajesh ci ricorda che il tempo concesso per la sosta è finito e bisogna riprendere il viaggio. Saliti tutti sul pullman, prima che la portiera si chiuda, il venditore raggiunge svelto Lia che già si era seduta al suo posto, e le dà la collana al prezzo offertogli da lei, ora soddisfatta per averla spuntata.
E' mezzogiorno, perciò manca circa un'ora per il pranzo. Chiedo a Rajesh dove pranzeremo oggi. Risponde:
" Nel Forte Pokhran, nella città che ha lo stesso nome".
Lo prego di scrivere di suo pugno, sul mio quaderno di appunti, il nome della città e lui gentilmente lo fa. Glielo chiedo sempre, trattandosi di parole straniere che non saprei scrivere. Così posso consultare il libro-guida del Touring Club Italiano, che tengo sempre con me in borsa, e informarmi in anticipo su quello che c'è di interessante da vedere. Ognuno cerca di passare il tempo come meglio crede. Guardare dal finestrino il deserto non ci interessa più, abbiamo guardato abbastanza. Valentina trae fuori dal suo zainetto un mazzo di carte e propone, a chi lo desideri, una partita. Aderiscono Mario Porporino, Marcella e Maria. I quattro si sistemano in fondo al pullman, appoggiano sulle gambe un cartone abbastanza grande per poggiarvi le carte e così giocano fino all'arrivo al Forte Pokhran. Sono le ore 13,00.
Riprendiamo il viaggio e alle ore 16,15 arriviamo nel meraviglioso albergo " Fort Rajada" a Jaisalmer.
Siamo accolti con collane di fiori e tovaglioli umidi per rinfrescarci le mani.
Abbiamo il tempo di fare una doccia e poi usciamo con Rajesh che ci accompagna in un negozio di pashmine e di tappeti.
Ci fanno sedere nella stanza dei tappeti e ci offrono del tè; poi ci fanno passare in quella delle pashmine.
Un esperto tibetano, che parla italiano, ci mostra delle sciarpe di pashmina, che è la fibra naturale più lussuosa, morbida e calda che ci sia al mondo.
Si ricava dalla Capra Hircus, la stessa che fornisce il cashmere, con la differenza che la pashmina si ottiene esclusivamente da una determinata parte del collo dell’animale. La fibra della pashmina, infatti, ha un diametro di 12 micron contro i 16 dei migliori cashmere. Per farci notare la leggerezza di una sciarpa di pashmina, ha fatto passare quest'ultima dentro l'anello, che si era tolto dal dito.
Un'altra simile, di lana comune, apparentemente leggera, non passa dentro l'anello.
Le pashmine hanno un costo elevato, soprattutto se sono ricamate e alla lana si mescola la seta.
Quasi tutti compriamo le pashmine, quelle più semplici e ad un prezzo accessibile, (30 euro ciascuna), sia per noi stesse che per portarle in dono alle persone care.
Poi Rajesh ci accompagna in un negozio di oggetti d'argento. Entriamo in una stanza, dove non vediamo vetrine. Ci sono delle panche lungo le pareti e la moquette sul pavimento. Ci dicono di toglierci le scarpe per non sporcare la moquette, ma ci rifiutiamo. Pur di vendere, i mercanti tollerano che restiamo con le scarpe. Non vediamo però niente nella stanza. Dopo un po' arriva un uomo con un sacco pieno, che rovescia sul pavimento. Escono fuori collane, bracciali, orecchini, soprammobili, tutti d'argento finemente lavorato, con pietre semipreziose incastonate. Per esaminare i gioelli siamo costretti a inginocchiarci a terra e a cercare nel mucchio qualcosa che attiri il nostro interesse.
Sembriamo tante galline a cui viene gettato il mangime. L'uomo del sacco ritorna con un altro che svuota a terra, come il primo. Per ogni oggetto dobbiamo chiedere il prezzo, che non ci pare conveniente; inoltre buttate a terra così alla rinfusa, le cose perdono il loro valore.
Io non ho interesse a comprare alcunché. Torniamo in albergo delusi. Credo che stasera i venditori non abbiano fatto affari con noi.
Dopo cena acquisto un bracciale di corallo nel negozio dell'albergo.
Davanti a questa folla di figure scolpite, Rajesh sfodera tutta le sue conoscenze mitologiche raffigurate sul marmo.
La strada che percorriamo è nel deserto. Il colore predominante è quello della sabbia dorata, punteggiata da rade piante o arbusti. In lontananza si vede il profilo dei Monti Aravalli.
Il paesaggio è sempre uguale.
Dopo quasi due ore e mezzo di viaggio, durante il quale Rajesh instancabile racconta le storie della mitologia induista, che ascoltiamo distrattamente o non ascoltiamo affatto, per chiacchierare tra noi o sonnecchiare, ci fermiamo per visitare un villaggio nel deserto. Gli abitanti ci vengono incontro circondando il nostro pullman e invitandoci a comprare le loro povere cose: collanine, braccialetti, elefantini, ecc. Ci avviciniamo alle loro primitive capanne, fatte con sterco di vacca essiccato, impastato con la sabbia. Si vedono ammucchiati in un posto i pani di sterco, che vengono utilizzati sia per la costruzione che come combustibile. In un angolino si vede una fontanella di sabbia bagnata con lo sterco sbriciolato nel mezzo, pronto per l’impasto, come si vede nella foto sottostante.
Le donne e le bambine indossano sari dai colori vivacissimi, che spiccano sull’oro della sabbia, e portano gioielli altrettanto vistosi: grandi bracciali, che coprono quasi interamente le due braccia, anche fino agli omeri; anelli alle dita delle mani e anche dei piedi, orecchini, qualche bottoncino al naso, cavigliere; si dipingono mani e piedi con l'henné.
Si fanno fotografare volentieri e noi ne approfittiamo per portare a casa le immagini del loro mondo a noi sconosciuto.
Ci avviamo verso il pullman per proseguire il nostro viaggio, seguiti dalla gente del luogo, uomini, donne e bambini, che si accalcano per convincerci a comprare le loro chincaglierie e qualcuno quasi entra per contrattare ancora, prima che la portiera si chiuda, come si vede nella foto sotto.
Riprendiamo il viaggio: il paesaggio del deserto non varia. Lungo il percorso facciamo sosta due volte in stazioni di servizio per sgranchirci le gambe, usare le toilettes, prendere qualche bibita al bar e distrarci nel negozio di souvenir. Valentina si avvolge intorno al corpo un bel drappo a fantasia azzurro a mo' di sari e si fa fotografare. Io e altre compagne acquistiamo delle borse di stoffa colorata, statuette di legno raffiguranti il dio Ganesha con la testa di elefante e quattro braccia, ed altri souvenirs. Lia contratta tenacemente una collana di turchesi, ma il venditore non molla e lei rinunzia.
Rajesh ci ricorda che il tempo concesso per la sosta è finito e bisogna riprendere il viaggio. Saliti tutti sul pullman, prima che la portiera si chiuda, il venditore raggiunge svelto Lia che già si era seduta al suo posto, e le dà la collana al prezzo offertogli da lei, ora soddisfatta per averla spuntata.
E' mezzogiorno, perciò manca circa un'ora per il pranzo. Chiedo a Rajesh dove pranzeremo oggi. Risponde:
" Nel Forte Pokhran, nella città che ha lo stesso nome".
Lo prego di scrivere di suo pugno, sul mio quaderno di appunti, il nome della città e lui gentilmente lo fa. Glielo chiedo sempre, trattandosi di parole straniere che non saprei scrivere. Così posso consultare il libro-guida del Touring Club Italiano, che tengo sempre con me in borsa, e informarmi in anticipo su quello che c'è di interessante da vedere. Ognuno cerca di passare il tempo come meglio crede. Guardare dal finestrino il deserto non ci interessa più, abbiamo guardato abbastanza. Valentina trae fuori dal suo zainetto un mazzo di carte e propone, a chi lo desideri, una partita. Aderiscono Mario Porporino, Marcella e Maria. I quattro si sistemano in fondo al pullman, appoggiano sulle gambe un cartone abbastanza grande per poggiarvi le carte e così giocano fino all'arrivo al Forte Pokhran. Sono le ore 13,00.
I quattro giocatori in fondo al pullman, da sinistra a destra,
sono Mario Porporino, Marcella, Valentina e Maria
sono Mario Porporino, Marcella, Valentina e Maria
Pokhran , distante 110 chilometri da Jaisalmer, è nel mezzo del deserto di Thar.
Nei tempi passati è stata un rilevante centro carovaniero e conserva una bella fortezza del XIV secolo, oggi adibita ad albergo, ristorante e museo.
Dopo il pranzo in una grande sala della fortezza, ci tratteniamo ancora per una visita.
Nei tempi passati è stata un rilevante centro carovaniero e conserva una bella fortezza del XIV secolo, oggi adibita ad albergo, ristorante e museo.
Dopo il pranzo in una grande sala della fortezza, ci tratteniamo ancora per una visita.
Riprendiamo il viaggio e alle ore 16,15 arriviamo nel meraviglioso albergo " Fort Rajada" a Jaisalmer.
Siamo accolti con collane di fiori e tovaglioli umidi per rinfrescarci le mani.
Abbiamo il tempo di fare una doccia e poi usciamo con Rajesh che ci accompagna in un negozio di pashmine e di tappeti.
Ci fanno sedere nella stanza dei tappeti e ci offrono del tè; poi ci fanno passare in quella delle pashmine.
Un esperto tibetano, che parla italiano, ci mostra delle sciarpe di pashmina, che è la fibra naturale più lussuosa, morbida e calda che ci sia al mondo.
Si ricava dalla Capra Hircus, la stessa che fornisce il cashmere, con la differenza che la pashmina si ottiene esclusivamente da una determinata parte del collo dell’animale. La fibra della pashmina, infatti, ha un diametro di 12 micron contro i 16 dei migliori cashmere. Per farci notare la leggerezza di una sciarpa di pashmina, ha fatto passare quest'ultima dentro l'anello, che si era tolto dal dito.
Un'altra simile, di lana comune, apparentemente leggera, non passa dentro l'anello.
Le pashmine hanno un costo elevato, soprattutto se sono ricamate e alla lana si mescola la seta.
Quasi tutti compriamo le pashmine, quelle più semplici e ad un prezzo accessibile, (30 euro ciascuna), sia per noi stesse che per portarle in dono alle persone care.
Poi Rajesh ci accompagna in un negozio di oggetti d'argento. Entriamo in una stanza, dove non vediamo vetrine. Ci sono delle panche lungo le pareti e la moquette sul pavimento. Ci dicono di toglierci le scarpe per non sporcare la moquette, ma ci rifiutiamo. Pur di vendere, i mercanti tollerano che restiamo con le scarpe. Non vediamo però niente nella stanza. Dopo un po' arriva un uomo con un sacco pieno, che rovescia sul pavimento. Escono fuori collane, bracciali, orecchini, soprammobili, tutti d'argento finemente lavorato, con pietre semipreziose incastonate. Per esaminare i gioelli siamo costretti a inginocchiarci a terra e a cercare nel mucchio qualcosa che attiri il nostro interesse.
Sembriamo tante galline a cui viene gettato il mangime. L'uomo del sacco ritorna con un altro che svuota a terra, come il primo. Per ogni oggetto dobbiamo chiedere il prezzo, che non ci pare conveniente; inoltre buttate a terra così alla rinfusa, le cose perdono il loro valore.
Io non ho interesse a comprare alcunché. Torniamo in albergo delusi. Credo che stasera i venditori non abbiano fatto affari con noi.
Dopo cena acquisto un bracciale di corallo nel negozio dell'albergo.
6° giorno, 23 ottobre 2008, giovedì
Stamattina andiamo a visitare il vicino lago artificiale di Gadsisar, per arrivare al quale facciamo piacevolmente un tratto di strada a piedi. Osserviamo che le mucche, che incontrimo spesso nel nostro cammino, sono animali educati, discreti: vanno dove vogliono e ti ignorano.
Mariola, che in occasione di questo viaggio ha comprato una macchina fotografica digitale, prova gusto a usarla e di tanto in tanto le chiedo di scattarmi una foto quando mi passa una mucca accanto, visto che io non mi posso fotografare da sola. Eccone una, mentre Maria riprende il lago che abbiamo già raggiunto.A differenza delle nostre, le mucche indiane sono di taglia più piccola e hanno un gibbo sul collo più o meno pronunziato. Quelle di città vivono di elemosina o frugano nell'immondizia. Chiedo a Rajesh dove trovano riparo quando piove. Risponde che vengono ospitate nelle case indiane, sotto qualche tettoia, e quando la pioggia è cessata, le mandano via. Le povere mucche di strada offrono il loro latte ai poveri quando ne hanno bisogno. La carità è reciproca.
Il lago è davanti a noi. Appena ci avviciniamo alla riva, accorrono verso di noi frotte di grossi pesci baffuti, color del fango. Sono brutti a vedersi. Rajesh spiega che sono i pesci gatto, considerati sacri a Shiva, a cui è dedicato un tempietto che tra poco visiteremo. Sono supernutriti dagli indiani e quando c'è gente si ammassano a riva in attesa del cibo.
Mariola, che in occasione di questo viaggio ha comprato una macchina fotografica digitale, prova gusto a usarla e di tanto in tanto le chiedo di scattarmi una foto quando mi passa una mucca accanto, visto che io non mi posso fotografare da sola. Eccone una, mentre Maria riprende il lago che abbiamo già raggiunto.A differenza delle nostre, le mucche indiane sono di taglia più piccola e hanno un gibbo sul collo più o meno pronunziato. Quelle di città vivono di elemosina o frugano nell'immondizia. Chiedo a Rajesh dove trovano riparo quando piove. Risponde che vengono ospitate nelle case indiane, sotto qualche tettoia, e quando la pioggia è cessata, le mandano via. Le povere mucche di strada offrono il loro latte ai poveri quando ne hanno bisogno. La carità è reciproca.
Il lago è davanti a noi. Appena ci avviciniamo alla riva, accorrono verso di noi frotte di grossi pesci baffuti, color del fango. Sono brutti a vedersi. Rajesh spiega che sono i pesci gatto, considerati sacri a Shiva, a cui è dedicato un tempietto che tra poco visiteremo. Sono supernutriti dagli indiani e quando c'è gente si ammassano a riva in attesa del cibo.
Il lago artificiale Gadsisar, vicino a Jaisalmer, è in realtà una grande
pozzanghera, che si riempie durante le piogge monsoniche
pozzanghera, che si riempie durante le piogge monsoniche
I pesci gatto del lago Gadsisar, sacri al dio Shiva
L'utilizzo di questo simbolo come oggetto di adorazione è una tradizione senza tempo in India.
Nel corso del nostro viaggio ne vedremo altri, anche di dimensioni maggiori. Ricordo di avere visto una giovane donna pregare davanti ad uno shivalingam simile a quello della foto, in un tempietto sotto il livello della strada, in una città in cui le scimmie vivevano indisturbate come le vacche. Rajesh ci ha detto che le donne, prima del matrimonio pregano Shiva perché il futuro marito abbia la virilità del dio.
Rajesh, come si vede nella foto sopra, ci raduna davanti al tempietto di Shiva per darci delle spiegazioni, prima di entrarvi pochi per volta, essendovi poco spazio. All'interno vedremo lo Shivalingam, oggetto di adorazione. Si tratta del simbolo fallico del dio in congiunzione con il simbolo del sesso femminile, che rappresentano insieme la creazione.
L'utilizzo di questo simbolo come oggetto di adorazione è una tradizione senza tempo in India.
Nel corso del nostro viaggio ne vedremo altri, anche di dimensioni maggiori. Ricordo di avere visto una giovane donna pregare davanti ad uno shivalingam simile a quello della foto, in un tempietto sotto il livello della strada, in una città in cui le scimmie vivevano indisturbate come le vacche. Rajesh ci ha detto che le donne, prima del matrimonio pregano Shiva perché il futuro marito abbia la virilità del dio.
Un giovane sacerdote canta una preghiera allo shivalingam
Lasciamo il lago per andare a visitare la fortezza di Jaisalmer, che ieri sera abbiamo visto da lontano, al nostro arrivo.
La visione ieri è stata suggestiva: sembrava sorgere dall'oscurità come un miraggio.
Ho cancellato le foto, perché troppo buie e non rendevano l'idea del fascino proveniente da una costruzione tanto imponente, che Rajesh dice contenere all'interno tremila famiglie (tutta la città conta 40 mila abitanti).
Ma oggi il resto della mattinata, fino all'ora del pranzo, è dedicata alla fortezza di Jaisalmer, che lascerà nella nostra mente un ricordo indimenticabile.
Arroccata su una collina alta 80 metri, circondata da mura di 9 metri di altezza con 99 bastioni per una lunghezza di 5 chilometri, sembra creata con la stessa sabbia del deserto.
All'interno si trovano il Palazzo Reale, templi jainisti e indù, e numerose abitazioni private: un quarto della popolazione di Jaisalmer vive dentro le mura della fortezza.
L'arenaria gialla di tutte le costruzioni ha dato a Jaisalmer il nome di "città d'oro".
Dentro la fortezza ci sono sette templi jainisti. Ne visitiamo due. E' proibito entrare con oggetti o capi di abbigliamenti in pelle, perciò consegniamo borse, borselli, cinture, scarpe ecc.
La visione ieri è stata suggestiva: sembrava sorgere dall'oscurità come un miraggio.
Ho cancellato le foto, perché troppo buie e non rendevano l'idea del fascino proveniente da una costruzione tanto imponente, che Rajesh dice contenere all'interno tremila famiglie (tutta la città conta 40 mila abitanti).
Ma oggi il resto della mattinata, fino all'ora del pranzo, è dedicata alla fortezza di Jaisalmer, che lascerà nella nostra mente un ricordo indimenticabile.
Arroccata su una collina alta 80 metri, circondata da mura di 9 metri di altezza con 99 bastioni per una lunghezza di 5 chilometri, sembra creata con la stessa sabbia del deserto.
All'interno si trovano il Palazzo Reale, templi jainisti e indù, e numerose abitazioni private: un quarto della popolazione di Jaisalmer vive dentro le mura della fortezza.
L'arenaria gialla di tutte le costruzioni ha dato a Jaisalmer il nome di "città d'oro".
Veduta della città di Jaisalmer dalla Fortezza
Fu fondata nel 1156 dal principe Jaisal Singh, che decise di spostare qui la capitale per consiglio di un santo eremita.
Subì tremendi assedi, che talvolta si conclusero col macabro rito dei suicidi collettivi, detti "johar": per non cader in mano ai nemici e conservare il loro onore, le donne e i bambini si gettavano nel fuoco, mentre gli uomini combattevano fino alla morte.Entrati nella fortezza, si ha l'impressione di essere in una città lontana nel tempo. E' una città nella città, con palazzi, negozi, bancarelle, stradine strette che non consentono la circolazione di mezzi motorizzati. E' piacevole camminare a piedi, senza il frastuono del traffico.Ci soffermiamo a guardare e fotografare il Palazzo reale (foto sopra), detto palazzo del Marharawal, che in realtà è un intricato insieme di edifici collegati, di epoche diverse.
A sinistra: un balcone del palazzo del Marharawal
Come si vede nella foto, è un notevole esempio della perizia raggiunta dagli artigiani di Jaisalmer nell'arte di lavorare la pietra.
Subì tremendi assedi, che talvolta si conclusero col macabro rito dei suicidi collettivi, detti "johar": per non cader in mano ai nemici e conservare il loro onore, le donne e i bambini si gettavano nel fuoco, mentre gli uomini combattevano fino alla morte.Entrati nella fortezza, si ha l'impressione di essere in una città lontana nel tempo. E' una città nella città, con palazzi, negozi, bancarelle, stradine strette che non consentono la circolazione di mezzi motorizzati. E' piacevole camminare a piedi, senza il frastuono del traffico.Ci soffermiamo a guardare e fotografare il Palazzo reale (foto sopra), detto palazzo del Marharawal, che in realtà è un intricato insieme di edifici collegati, di epoche diverse.
A sinistra: un balcone del palazzo del Marharawal
Come si vede nella foto, è un notevole esempio della perizia raggiunta dagli artigiani di Jaisalmer nell'arte di lavorare la pietra.
Dentro la fortezza ci sono sette templi jainisti. Ne visitiamo due. E' proibito entrare con oggetti o capi di abbigliamenti in pelle, perciò consegniamo borse, borselli, cinture, scarpe ecc.
Davanti a questa folla di figure scolpite, Rajesh sfodera tutta le sue conoscenze mitologiche raffigurate sul marmo.
Il marmo come una trina
Mucche e tuc-tuc nella Fortezza di Jaisalmer
Alle ore 14,00 arriviamo al villaggio di "Sardargarh", dominato da una fortezza, cinta da mura.
Entrati nella fortezza, trasciniamo i nostri bagagli in un viottolo in salita, fino ad arrivare in un bellissimo cortile, adorno di prato verde e aiole fiorite.
Le camere sono ampie, con una veranda all'ingresso, di fronte a un giardino, e finestrelle che danno sul porticato, che gira intorno al cortile, dove si pranza. La stanza da bagno è grandissima.
La fortezza non è un albergo, ma la residenza del maharaja Mahipal e della sua famiglia. Una parte di essa è stata adattata per accogliere i turisti.
In uno dei grandi cortili che abbiamo attraversato, abbiamo visto tante jeep allineate sotto una tettoia, utilizzate per fare escursioni nel bosco del Maharaja o nel vicino villaggio contadino di Sardargarh e al vicino lago.
Dopo un riposino in camera dobbiamo riunirci fuori, alle ore 16,15 per un safari in jeep.
Io non mi sento in forma: temo di aver preso qualche infezione intestinale e sono in allarme. Per precauzione prendo una pillola di Loperamide e così posso godermi l'escursione.
Anche il maharaja partecipa alla gita con noi, guidando la prima jeep: accanto a lui c'è Rajesh; nel sedile posteriore ci sono Mariola, Lia e i coniugi Saggio.
La prima sosta la facciamo sotto un albero gigantesco, vecchio di 400 anni, sotto il quale il capo villaggio riunisce i suoi consiglieri, per prendere delle decisioni che riguardano gli abitanti.
Poi entriamo nel villaggio, dove siamo accolti festosamente dai bambini, che corrono vociando dietro le nostre jeep, mentre le mamme si affacciano sulla soglia incuriosite dalla nostra presenza.
Il primo a scendere dalla jeep è il marharaja (nella foto in jeans e maglietta), che gentilmente apre lo sportello della vettura per far scendere i passeggeri. Rajesh oggi indossa un camicione indiano, di color arancione.
Ci fermiamo a guardare un pozzo, da cui gli abitanti tirano l'acqua col secchio, come ai tempi del medioevo.
I bambini, meravigliosi, ci seguono, non per chiedere qualcosa, ma perché attratti dalla nostra diversità, mostrando di gradire essere fotografati.
L'intera facciata è riccamente decorata con iscrizioni coraniche in marmo nero, arabeschi e motivi floreali in pietra dura.
All'interno (è vietato fotografare e usare la telecamera) le decorazioni con versi del corano e motivi floreali sono eccezionali per la raffinatezza e delicatezza degli intarsi di pietre dure e semipreziose nel marmo madreperlaceo. Per realizzare un solo fiore di 3 cm si sono utilizzati più di 50 pezzi distinti di pietre semipreziose.
Sulla opposta riva del fiume si vedono alcuni blocchi di marmo nero che, secondo il progetto dell'imperatore, sarebbero dovuti servire per costruire un mausoleo gemello, ma in marmo nero. Il Taj Mahal nero non fu costruito perché il figlio Aurangzeb detronizzò il padre megalomane e lo rinchiuse nel Forte Rosso di Agra, prima che le casse dello Stato si svuotassero completamente.
L'imperatore Shah Jahan, dalla sua prigione guardava da lontano la sua diletta creatura.
Girare intorno al Taj Mahal, all'esterno e all'interno, dà una emozione indicibile. Ci hanno fatto calzare delle pantofole di feltro, perché un granello di polvere non lo oltraggi, mentre degli inservienti, con pezze di lana, lucidano il marmo delle pareti, del pavimento, dei gradini delle scale, come se lucidassero un gioiello.
Tutto ciò che vedo intorno a me è un trionfo di bellezza e armonia. Girando nei giardini stupendi, in mezzo ai quali una vasca di acqua fa da specchio, mi allontano dal monumento che non mi appare più come una costruzione materiale, ma come un disegno etereo su un foglio di carta velina, o come una nuvola bianca che ha assunto la forma del mausoleo sullo sfondo del cielo.
Rajesh ci raduna all'uscita per andare a visitare il Forte Rosso, quel forte dove il creatore del prezioso mausoleo finì i suoi giorni guardandolo da lontano.
Io mi volgo indietro ancora una volta a guardare e riprendo insieme agli altri la via che ci porta al pullman per una visita al Forte Rosso di Agra.
Come altri forti visti nel Rajasthan, anche questo è un gigantesco complesso, costruito dall'imperatore Abkar per scopi militari, tra il 1565 e 1l 1573. Divenne residenza imperiale sotto Shah Jahan, che vi costruì i palazzi reali, le sale delle udienze e una moschea. Il figlio Aurangzed lo completò con palazzi, cortili, giardini e fortificazioni.
Nell'interno è stato utilizzato il marmo bianco, riccamente decorato nello stile del Taj Mahal.
Finestre del Forte Rosso di Agra, da cui l'imperatore Shah Jahan, prigioniero, guardava il Taj Mahal pensando alla moglie prediletta. A destra: il Taj Mahal come lo vediamo dal Forte Rosso
Sono le ore 11,00; la visita al Forte Rosso, anch'esso meraviglioso, si conclude.
Riprendiamo il pullman per tornare in albergo per il pranzo, con una sosta presso un negozio di spezie, dove si fanno gli ultimi acquisti. Io non mi intendo di spezie e non sono interessata.
Dopo il pranzo si parte per Delhi, dove arriviamo alle ore 8,30, dopo cinque ore di viaggio.
Dopo cena si festeggia il compleanno di Valentina, con torta e regalo offerti da Rajesh; ma ci sono anche per noi dei regalini ricordo: una collana di lacrime di Shiva e un foulard per le donne; una cravatta per gli uomini. La serata si conclude con un discorso di Mario Porporino, che ringrazia la guida per i bei giorni che ci ha fatto trascorrere, e di Rajesh, che si congeda da noi sinceramente commosso.
Pernottiamo nello stesso albergo del primo giorno. Il soggiorno in India si conclude stasera. Domani si torna in Italia.
(Finito di scrivere oggi, 24 maggio 2009, martedì)
I templi jainisti sono tra le migliori opere architettoniche dell'India. Il più grande lo visiteremo domani, a Ranakpur, dopo pranzo.
Abbiamo appreso qualche nozione fondamentale su alcune religioni indiane, che sono difficili da capire per un occidentale.
Il jainismo è la dottrina della non-violenza e dell'amore universale. La regola è "Vivi e lascia vivere, ama tutti e servi tutti", dove per "tutti" si intende ogni essere vivente (umano, animale, vegetale), ma anche la terra, l'aria, l'acqua.
Può capitare (ma a noi non è capitato) di vedere fedeli che camminano spazzando la strada davanti a sé per non calpestare involontariamente qualche insetto. Altri portano una garza alla bocca per non correre il rischio di ingerire e uccidere i microrganismi presenti nell'aria.
Il giorno che eravamo arrivati a Bikaner, Rajesh ci ha detto che in una città, distante da noi una trentina di chilometri, c'è un tempio dove si venerano i topi, il tempio di "Karni Mata". I fedeli li nutrono con latte, cereali, cocco, tutti desiderosi di incrociare il passo con un topo bianco, segno sicuro di buona fortuna. Dopo che i topi si sono saziati, i fedeli mangiano i resti.
Provo disgusto a ricordarmene.
Per il jainismo non esistono un dio o più dei creatori: l'universo è increato ed eterno. Ogni essere vivente è rappresentazione dell'Eterno a aspira a separarsi dal corpo materiale per rifondersi nell'Assoluto. L'armonia spirituale dell'Universo si raggiunge con la pratica della non-violenza e con l'impegno individuale al fine di liberare l'anima dal ciclo trasmigratorio che la incatena alla materia.
Nel jainismo, come nell'induismo, è presente il concetto di "karma", che è l'insieme delle azioni compiute da un individuo nelle vite precedenti: chi si è comportato bene nelle vite precedenti ha un karma positivo; chi invece ha fatto del male ha un karma negativo. Nella vita corrente o in quelle successive pagherà o sarà ripagato per le azioni compiute in precedenza.
A differenza dell'induismo, in cui l'uomo subisce il proprio karma, nel jainismo è l'individuo che interviene direttamente sul proprio karma ed è responsabile nel processo della sua liberazione dal ciclo delle trasmigrazioni, per unificarsi all'Assoluto.
In India vivono circa due milioni di jainisti. I fedeli di questa religione non ripudiano l'organizzazione castale e si occupano prevalentemente di banche e di ogni sorta di commercio, che non richieda uccisione di animali o distruzione di vegetali; pertanto escludono dalla loro attività l'agricoltura, perché l'aratro semina morte.
Abbiamo appreso qualche nozione fondamentale su alcune religioni indiane, che sono difficili da capire per un occidentale.
Il jainismo è la dottrina della non-violenza e dell'amore universale. La regola è "Vivi e lascia vivere, ama tutti e servi tutti", dove per "tutti" si intende ogni essere vivente (umano, animale, vegetale), ma anche la terra, l'aria, l'acqua.
Può capitare (ma a noi non è capitato) di vedere fedeli che camminano spazzando la strada davanti a sé per non calpestare involontariamente qualche insetto. Altri portano una garza alla bocca per non correre il rischio di ingerire e uccidere i microrganismi presenti nell'aria.
Il giorno che eravamo arrivati a Bikaner, Rajesh ci ha detto che in una città, distante da noi una trentina di chilometri, c'è un tempio dove si venerano i topi, il tempio di "Karni Mata". I fedeli li nutrono con latte, cereali, cocco, tutti desiderosi di incrociare il passo con un topo bianco, segno sicuro di buona fortuna. Dopo che i topi si sono saziati, i fedeli mangiano i resti.
Provo disgusto a ricordarmene.
Per il jainismo non esistono un dio o più dei creatori: l'universo è increato ed eterno. Ogni essere vivente è rappresentazione dell'Eterno a aspira a separarsi dal corpo materiale per rifondersi nell'Assoluto. L'armonia spirituale dell'Universo si raggiunge con la pratica della non-violenza e con l'impegno individuale al fine di liberare l'anima dal ciclo trasmigratorio che la incatena alla materia.
Nel jainismo, come nell'induismo, è presente il concetto di "karma", che è l'insieme delle azioni compiute da un individuo nelle vite precedenti: chi si è comportato bene nelle vite precedenti ha un karma positivo; chi invece ha fatto del male ha un karma negativo. Nella vita corrente o in quelle successive pagherà o sarà ripagato per le azioni compiute in precedenza.
A differenza dell'induismo, in cui l'uomo subisce il proprio karma, nel jainismo è l'individuo che interviene direttamente sul proprio karma ed è responsabile nel processo della sua liberazione dal ciclo delle trasmigrazioni, per unificarsi all'Assoluto.
In India vivono circa due milioni di jainisti. I fedeli di questa religione non ripudiano l'organizzazione castale e si occupano prevalentemente di banche e di ogni sorta di commercio, che non richieda uccisione di animali o distruzione di vegetali; pertanto escludono dalla loro attività l'agricoltura, perché l'aratro semina morte.
Mucche e tuc-tuc nella Fortezza di Jaisalmer
Abbiamo visto quanto di più prezioso sia stato costruito nella cittadella di Jaisalmer nel corso dei secoli. Ora ci accingiamo a scendere nella strada che porta all'uscita, camminando a piedi, soffermandoci frettolosamente davanti alle bancarelle per acquistare qualche souvernir e badando a scansare gli escrementi delle vacche, che ormai siamo abituati a vedere nelle strade. Una nostra compagna di viaggio purtroppo prova l'esperienza ripugnante di metterci sopra una scarpa. Un lustrascarpe indiano si offre prontamente di rimediare, restituendo, dietro un compenso, la scarpa pulita.
Si dice che l'India è la terra dei contrasti. Non può esserci più contrasto di così oggi: dalle meraviglie dell'arte indiana . . . alla cacca!
Si torna al meraviglioso albergo "FORT RAJWADA" per il pranzo e subito dopo si riparte per un'altra meta, la città di Jodpur. Un po' di stanchezza e lo stomaco pieno ci portano sonnolenza. Molti coprono i finestrini con le tendine blu e cercano di addormentarsi. Lungo il percorso si fanno varie soste presso le stazioni di servizio, dove c'è sempre un bazar dove comprare qualcosa da portare a casa. Nel tardo pomeriggio una signora ha bisogno di una toilette. Non essendoci nelle vicinanze alcuna stazione di servizio, Rajesh fa fermare l'autobus e la invita a scendere per fare pipì nel bordo della strada, dietro un cespuglio, nel deserto. E' quasi buio, non c'è traffico di automobili e intorno non c'è nessuno. Insieme a lei scendono altre signore. E' una esperienza insolita che si aggiunge alle altre del nostro viaggio.
Arriviamo all'Hotel Ummeid di Jodpur un po' dopo le ore 20,00. La serata si conclude, dopo la cena, con uno spettacolo di burattini.
Si dice che l'India è la terra dei contrasti. Non può esserci più contrasto di così oggi: dalle meraviglie dell'arte indiana . . . alla cacca!
Si torna al meraviglioso albergo "FORT RAJWADA" per il pranzo e subito dopo si riparte per un'altra meta, la città di Jodpur. Un po' di stanchezza e lo stomaco pieno ci portano sonnolenza. Molti coprono i finestrini con le tendine blu e cercano di addormentarsi. Lungo il percorso si fanno varie soste presso le stazioni di servizio, dove c'è sempre un bazar dove comprare qualcosa da portare a casa. Nel tardo pomeriggio una signora ha bisogno di una toilette. Non essendoci nelle vicinanze alcuna stazione di servizio, Rajesh fa fermare l'autobus e la invita a scendere per fare pipì nel bordo della strada, dietro un cespuglio, nel deserto. E' quasi buio, non c'è traffico di automobili e intorno non c'è nessuno. Insieme a lei scendono altre signore. E' una esperienza insolita che si aggiunge alle altre del nostro viaggio.
Arriviamo all'Hotel Ummeid di Jodpur un po' dopo le ore 20,00. La serata si conclude, dopo la cena, con uno spettacolo di burattini.
7° giorno, 24 ottobre 2008, venerdì
L'Hotel Ummeid, dove abbiamo trascorso la notte , è di nuova costruzione e ha lo stile dei palazzi dei maharajà.
Hotel Ummeid di Jodpur
Sono le otto del mattino e mi aggiro nella fila dei negozi nel piano terra dell'albergo, in attesa che siamo tutti pronti per salire sul pullman e partire per la visita di Jodpur, che con i suoi 900 mila abitanti è la seconda del Rajastan, dopo la capitale Jaipur (1.500.000 abitanti).
Mi soffermo davanti ad una vetrina di gioielli: mi piace una collana, ne chiedo il prezzo e il negoziante la prende e me la porge perché la provi. E' d'argento, ricca di pietre di vari colori: ametiste, granatini, topazi, e perle, tutte a forma di foglioline incastonate nell'argento. Nel frattempo altre persone del nostro gruppo, attratte dalla vetrina, si sono avvicinate e mi invogliano a comprarla. Devo decidere presto perché il pullman è pronto davanti all'albergo. Prendere o lasciare. In Oriente si usa contrattare. Faccio un inutile tentativo per abbassare il prezzo e la prendo, senza alcuno sconto. Sul pulmann c'è un'atmosfera di allegria per gli acquisti fatti nei vari negozi dell'albergo: gioielli, sciarpe, pantofole di cuoio ricamato, ecc.
Arriviamo ai piedi di una collina su cui sorge l' imponente forte di Mehrangar (il suo nome significa appunto Forte maestoso), che domina la città vecchia.
Le sue mura toccano in alcuni punti i 40 m di altezza. L'interno si articola in vari cortili e palazzi stupendi, che espongono collezioni di vario genere: armature, palanchini, mobili, vestiti, culle, persino una tenda da campo, tutti oggetti appartenuti alla famiglia reale. Ammiriamo delle bellissime porte in legno intagliato con decorazioni in avorio e laccature preziose; le pareti di arenaria finemente traforate come merletti, da cui le donne potevano assistere alla vita di corte senza essere viste.
Inorridisco nel leggere sulla guida che nel 1843 le vedove del Maharajà Man Singh compirono la "sati", cioè si diedero fuoco sulla pira funebre con il corpo del marito, nonostante il divieto inglese. Su una delle porte del Forte ci sono le impronte delle vedove suicide, che non abbiamo visto, ma immaginiamo simili a quelle viste nel Forte di Bikaner.
Mi soffermo davanti ad una vetrina di gioielli: mi piace una collana, ne chiedo il prezzo e il negoziante la prende e me la porge perché la provi. E' d'argento, ricca di pietre di vari colori: ametiste, granatini, topazi, e perle, tutte a forma di foglioline incastonate nell'argento. Nel frattempo altre persone del nostro gruppo, attratte dalla vetrina, si sono avvicinate e mi invogliano a comprarla. Devo decidere presto perché il pullman è pronto davanti all'albergo. Prendere o lasciare. In Oriente si usa contrattare. Faccio un inutile tentativo per abbassare il prezzo e la prendo, senza alcuno sconto. Sul pulmann c'è un'atmosfera di allegria per gli acquisti fatti nei vari negozi dell'albergo: gioielli, sciarpe, pantofole di cuoio ricamato, ecc.
Arriviamo ai piedi di una collina su cui sorge l' imponente forte di Mehrangar (il suo nome significa appunto Forte maestoso), che domina la città vecchia.
Le sue mura toccano in alcuni punti i 40 m di altezza. L'interno si articola in vari cortili e palazzi stupendi, che espongono collezioni di vario genere: armature, palanchini, mobili, vestiti, culle, persino una tenda da campo, tutti oggetti appartenuti alla famiglia reale. Ammiriamo delle bellissime porte in legno intagliato con decorazioni in avorio e laccature preziose; le pareti di arenaria finemente traforate come merletti, da cui le donne potevano assistere alla vita di corte senza essere viste.
Inorridisco nel leggere sulla guida che nel 1843 le vedove del Maharajà Man Singh compirono la "sati", cioè si diedero fuoco sulla pira funebre con il corpo del marito, nonostante il divieto inglese. Su una delle porte del Forte ci sono le impronte delle vedove suicide, che non abbiamo visto, ma immaginiamo simili a quelle viste nel Forte di Bikaner.
Straordinaria la veduta della città dall'altezza del forte.
Jodpur è detta la città blu per il colore delle case
Jodpur è detta la città blu per il colore delle case
Prima di lasciare la città di Jodhpur, arriviamo al vicino centafio di Jaswant Thada, maharaja molto amato dai sudditi e dalla moglie che, disperata per la sua morte, volle ricordarlo facendogli erigere in marmo bianco il grandioso monumento tombale. Per la sua sfarzosità, non per somiglianza, viene paragonato dagli abitanti della città blu al ben più noto Taji Mahal di Agra, che vedremo l'ultimo giorno del nostro viaggio.
Conversazione in pullman con Rajesh
Riprendiamo il viaggio. Un passaggio a livello trovato chiuso in un villaggio in attesa del transito di un treno, ci obbliga a sostare un bel po' di tempo, permettendoci di osservare da fermi il brulicare della vita quotidiana. Le donne si fermano presso le baracche, in fila lungo i due margini della strada, per fare la spesa; i piccoli artigiani lavorano all'aperto o in stanzini piccoli dalla saracinesca alzata che lascia vedere tutto; passano in fila alcuni carrettini carichi di merce, trainati da somarelli nani; le mucche ovunque circolano liberamente come le persone.
A pochi passi dal nostro pullman fermo, osserviamo con curiosità il lavoro di un ciabattino, seduto a terra su una stuoia sotto un grande ombrellone. Accanto a lui ci sono dei copertoni interi di autovetture e un mucchio di pezzi di copertone tagliati a misura della lunghezza di una scarpa, che il ciabattino usa per risuolare.
Passato il treno, riprendiamo il viaggio, durante il quale chiacchieriamo con Rajesh su vari argomenti di vita quotidiana in India e facendo confronti con le nostre usanze.
Rajesh non parla bene l'italiano, ma si fa capire. Quando storpia le parole lo correggiamo e lui ride insieme a noi, ringraziandoci per le correzioni, che gli servono per imparare la nostra lingua.
Ha studiato tre mesi a Perugia e ricorda con piacere di avere vissuto quel breve periodo felice alla maniera occidentale, come gli altri ragazzi della sua età. Ricorda la compagnia mista di ragazzi e ragazze, la frequenza libera delle ragazze, che non può permettersi in India. E' un bel ragazzone, di sentimenti buoni e di sani principi morali. Immagino che non abbia avuto difficoltà a trovare compagnia femminile in Italia. In India è più difficile: le ragazze hanno delle restrizioni. Anche se è loro concesso di uscire con i ragazzi, tra i due sessi ci sono dei limiti e le conversazioni non possono toccare certi argomenti , che sono tabù.
Gli chiediamo se ha una fidanzata. Risponde: "Ancora mia madre non me l'ha trovata".
La risposta suscita in noi tanta ilarità. Lo stimoliamo a parlare del fidanzamento e del matrimonio in India. Egli lo fa volentieri, convinto di quello che dice. Condivide la tradizione indiana di sposare una ragazza scelta da genitori e parenti, perché - dice lui - i genitori hanno più esperienza e sanno scegliere la ragazza da vari punti di vista: guardano la posizione sociale ed economica e le virtù della ragazza, se ci sa fare a reggere la casa e la famiglia, ecc. I figli si fidano della scelta perché - dice Rajesh - i genitori non vogliono che il loro bene.
Il papà di Rajesh è morto l'anno scorso tra le sue braccia e quando, parlando di sé , lo nomina, cambia il tono della voce, il sorriso gli scompare dal viso. Il suo papà è stato e continua a essere il principale punto di riferimento della sua vita, gli ha inculcato i sani principi morali, gli ha dato preziosi consigli. Le parole del suo papà sono sacre come quelle che i credenti leggono sui testi sacri.
Rajesh mostra la collana che il papà gli ha regalato prima di morire, lavorata appositamente per lui da un artigiano: i tre ciondoli, protetti dall'argento, sono le bacche di un albero indiano, chiamate "lacrime di Shiva" e che in India sono considerate portafortuna. Rajesh porta sempre addosso il monile, prezioso ricordo per il suo altissimo valore affettivo. Notare il braccialetto con i grani delle stesse bacche, ma più piccole.
Rajesh ha una laurea in una materia tecnica che non ricordo, ma non ha scelto di fare il tecnico, ascoltando il consiglio del padre di andare in Italia a studiare la nostra lingua per diventare guida turistica, che gli avrebbe permesso si guadagnare di più e di fare una vita più piacevole. E' contento della scelta.
E' già in età di pensare al matrimonio e la famiglia è preoccupata che ancora non abbia fatto il passo importante. Ha 25 anni!
Poiché il papà non c'è più, la madre si fa aiutare dai parenti nella ricerca, che si augura possa dare presto un buon esito.
Scelta la ragazza e concordato il matrimonio tra le due famiglie, si stabilisce il giorno della presentazione dei due giovani in casa della futura sposa.
Il giovane lascia che i suoi genitori parlino delle doti morali e materiali del figlio, del lavoro che fa, dei progetti per il futuro e questi chiedono formalmente la mano della ragazza. Dopo tali preamboli di rito, si fa entrare nel salotto la ragazza, i genitori della quale vantano le sue doti, allo stesso modo come si è fatto per il futuro sposo. I due ragazzi poi vengono lasciati per un po' soli perché prendano confidenza.
Alla ragazza non è permesso un riufiuto: sarebbe una grave offesa per la famiglia del giovane, il quale, invece, può rifiutare, se la ragazza non è di suo gradimento.
Man mano che Rajesh parla, scorrono vive nella mia mente le immagini della prima parte del film della regista indiana, Mira Nair, che ho visto prima del viaggio e che anche Mariola ha visto e commentato con me. Il film, intitolato "Il destino nel nome", racconta la storia di un matrimonio combinato di due giovani indiani che scelgono New York come città di adozione.
Una signora del nostro gruppo gli chiede: "Che dote deve avere la tua fidanzata, per essere adeguata a te?"
Risponde: " Mio padre ha detto di non guardare la casta e i beni materiali, ma le virtù morali, che sono la più grande dote per una sposa".
Esplode un applauso di approvazione, con l'augurio che la sposa arrivi presto. Rajesh ringrazia commosso.
Oggi pranziamo, più tardi del solito, in un ristorante all'aperto, in campagna. Mi soffermo a guardare una donna accoccolata a terra, con un vistoso sari rosso, che cuoce le piadine per noi. La donna spiana una pasta sottile sottile e la poggia su una piastra rovente rigirandola tante volte fin quando non è pronta. Son buone da mangiare appena tolte dalla piastra, ancora calde, e vanno a ruba quando vengono portate sui nostri tavoli.
Sono le 16,10 quando riprendiamo il pullman per l'ultima visita della giornata: il complesso di templi jainisti più grande e più bello dell'India, che si trova a Ranakpur, a 90 chilometri dalla città blu che abbiamo lasciato alle spalle, in una valle appartata e tranquilla dei verdi Monti Aravalli, che vedevamo in lontanaza percorrendo la strada nel deserto.
Il tempio più importante, detto Chaumukha (cioè dalle quattro aperture), fu eretto nel 1439 a pianta cruciforme. E' costituito da numerose cappelle e da 29 sale sorretto da ben 1444 pilastri scolpiti, tutti diversi tra loro, le cui sovrapposizioni geometriche creano stupendi giochi prospettici.
Non credo che si possa superare una scultura raffinatissima come quella di Ranakpur. Piuttosto che sforzarmi di cercare le parole per esprimere tanta grandiosità, è più utile alla comprensione mostrare le foto, che ho scattato innumerevoli, ma non tante quanti sono gli angolini meritevoli di essere immortalati.
Tempio di Ranakpur
A pochi passi dal nostro pullman fermo, osserviamo con curiosità il lavoro di un ciabattino, seduto a terra su una stuoia sotto un grande ombrellone. Accanto a lui ci sono dei copertoni interi di autovetture e un mucchio di pezzi di copertone tagliati a misura della lunghezza di una scarpa, che il ciabattino usa per risuolare.
Passato il treno, riprendiamo il viaggio, durante il quale chiacchieriamo con Rajesh su vari argomenti di vita quotidiana in India e facendo confronti con le nostre usanze.
Rajesh non parla bene l'italiano, ma si fa capire. Quando storpia le parole lo correggiamo e lui ride insieme a noi, ringraziandoci per le correzioni, che gli servono per imparare la nostra lingua.
Ha studiato tre mesi a Perugia e ricorda con piacere di avere vissuto quel breve periodo felice alla maniera occidentale, come gli altri ragazzi della sua età. Ricorda la compagnia mista di ragazzi e ragazze, la frequenza libera delle ragazze, che non può permettersi in India. E' un bel ragazzone, di sentimenti buoni e di sani principi morali. Immagino che non abbia avuto difficoltà a trovare compagnia femminile in Italia. In India è più difficile: le ragazze hanno delle restrizioni. Anche se è loro concesso di uscire con i ragazzi, tra i due sessi ci sono dei limiti e le conversazioni non possono toccare certi argomenti , che sono tabù.
Gli chiediamo se ha una fidanzata. Risponde: "Ancora mia madre non me l'ha trovata".
La risposta suscita in noi tanta ilarità. Lo stimoliamo a parlare del fidanzamento e del matrimonio in India. Egli lo fa volentieri, convinto di quello che dice. Condivide la tradizione indiana di sposare una ragazza scelta da genitori e parenti, perché - dice lui - i genitori hanno più esperienza e sanno scegliere la ragazza da vari punti di vista: guardano la posizione sociale ed economica e le virtù della ragazza, se ci sa fare a reggere la casa e la famiglia, ecc. I figli si fidano della scelta perché - dice Rajesh - i genitori non vogliono che il loro bene.
Il papà di Rajesh è morto l'anno scorso tra le sue braccia e quando, parlando di sé , lo nomina, cambia il tono della voce, il sorriso gli scompare dal viso. Il suo papà è stato e continua a essere il principale punto di riferimento della sua vita, gli ha inculcato i sani principi morali, gli ha dato preziosi consigli. Le parole del suo papà sono sacre come quelle che i credenti leggono sui testi sacri.
Rajesh mostra la collana che il papà gli ha regalato prima di morire, lavorata appositamente per lui da un artigiano: i tre ciondoli, protetti dall'argento, sono le bacche di un albero indiano, chiamate "lacrime di Shiva" e che in India sono considerate portafortuna. Rajesh porta sempre addosso il monile, prezioso ricordo per il suo altissimo valore affettivo. Notare il braccialetto con i grani delle stesse bacche, ma più piccole.
Rajesh ha una laurea in una materia tecnica che non ricordo, ma non ha scelto di fare il tecnico, ascoltando il consiglio del padre di andare in Italia a studiare la nostra lingua per diventare guida turistica, che gli avrebbe permesso si guadagnare di più e di fare una vita più piacevole. E' contento della scelta.
E' già in età di pensare al matrimonio e la famiglia è preoccupata che ancora non abbia fatto il passo importante. Ha 25 anni!
Poiché il papà non c'è più, la madre si fa aiutare dai parenti nella ricerca, che si augura possa dare presto un buon esito.
Scelta la ragazza e concordato il matrimonio tra le due famiglie, si stabilisce il giorno della presentazione dei due giovani in casa della futura sposa.
Il giovane lascia che i suoi genitori parlino delle doti morali e materiali del figlio, del lavoro che fa, dei progetti per il futuro e questi chiedono formalmente la mano della ragazza. Dopo tali preamboli di rito, si fa entrare nel salotto la ragazza, i genitori della quale vantano le sue doti, allo stesso modo come si è fatto per il futuro sposo. I due ragazzi poi vengono lasciati per un po' soli perché prendano confidenza.
Alla ragazza non è permesso un riufiuto: sarebbe una grave offesa per la famiglia del giovane, il quale, invece, può rifiutare, se la ragazza non è di suo gradimento.
Man mano che Rajesh parla, scorrono vive nella mia mente le immagini della prima parte del film della regista indiana, Mira Nair, che ho visto prima del viaggio e che anche Mariola ha visto e commentato con me. Il film, intitolato "Il destino nel nome", racconta la storia di un matrimonio combinato di due giovani indiani che scelgono New York come città di adozione.
Una signora del nostro gruppo gli chiede: "Che dote deve avere la tua fidanzata, per essere adeguata a te?"
Risponde: " Mio padre ha detto di non guardare la casta e i beni materiali, ma le virtù morali, che sono la più grande dote per una sposa".
Esplode un applauso di approvazione, con l'augurio che la sposa arrivi presto. Rajesh ringrazia commosso.
Oggi pranziamo, più tardi del solito, in un ristorante all'aperto, in campagna. Mi soffermo a guardare una donna accoccolata a terra, con un vistoso sari rosso, che cuoce le piadine per noi. La donna spiana una pasta sottile sottile e la poggia su una piastra rovente rigirandola tante volte fin quando non è pronta. Son buone da mangiare appena tolte dalla piastra, ancora calde, e vanno a ruba quando vengono portate sui nostri tavoli.
Sono le 16,10 quando riprendiamo il pullman per l'ultima visita della giornata: il complesso di templi jainisti più grande e più bello dell'India, che si trova a Ranakpur, a 90 chilometri dalla città blu che abbiamo lasciato alle spalle, in una valle appartata e tranquilla dei verdi Monti Aravalli, che vedevamo in lontanaza percorrendo la strada nel deserto.
Il tempio più importante, detto Chaumukha (cioè dalle quattro aperture), fu eretto nel 1439 a pianta cruciforme. E' costituito da numerose cappelle e da 29 sale sorretto da ben 1444 pilastri scolpiti, tutti diversi tra loro, le cui sovrapposizioni geometriche creano stupendi giochi prospettici.
Non credo che si possa superare una scultura raffinatissima come quella di Ranakpur. Piuttosto che sforzarmi di cercare le parole per esprimere tanta grandiosità, è più utile alla comprensione mostrare le foto, che ho scattato innumerevoli, ma non tante quanti sono gli angolini meritevoli di essere immortalati.
Tempio di Ranakpur
Tempio di Ranakpur con 1444 colonne
In serata arriviamo alla città di Udaipur (Albergo Udai Kothi), dove ceniamo in una terrazza panoramica, che si affaccia sul lago Pichola.
8° giorno, 25 ottobre 2009, sabato
Albergo "Udai Kothi" a Udaipur, da cui si gode una bella vista sul lago Pichola
Albergo "Udai Kothi" a Udaipur, da cui si gode una bella vista sul lago Pichola
La città è una perla del Rajasthan. A differenza delle altre finora viste, nel deserto, Udaipur si trova nella zona verdeggiante dei monti Aravalli.
Il nostro albergo è in un quartiere popolare, su una strada che attraversa il mercato, in cui l'autobus non può circolare e perciò è costretto a fermarsi un po' distante. Per noi non è un inconveniente, anzi ci fa piacere uscire dall'albergo e trovarci sulla strada in mezzo agli indiani e alle mucche, nel cuore del mercato e guardare la varietà dei negozi e della gente che circola. Purtroppo non possiamo fermarci, come ci piacerebbe, per curiosare nei negozi e divertirci nello shopping. Dobbiamo rispettare gli orari delle visite ai luoghi previsti nel programma e raggiungere il pullman che ci aspetta nello slargo, dove finisce la via del mercato.
All'interno di ogni albergo ci sono dei negozi, dove abbiamo il tempo di comprare qualcosa, o dopo la colazione, o dopo la cena, prima di ritirarci in camera. In albergo i prezzi sono più alti rispetto a quelli delle bancarelle esterne, ma sempre bassi rispetto a quelli italiani. In una delle fortezze visitate ho comprato in una bancarella un anello d'argento con una pietra turchese al prezzo di tre euro, mentre per un anello simile ho pagato dieci euro nel negozio dell'albergo di Jodpur. Per gli acquisti possiamo pagare con euro o con rupie.
Due compagni di viaggio, marito e moglie, mi hanno detto che la sera escono da soli dopo cena e vanno in giro per i negozi, dove trovano prezzi più convenienti rispetto a quelli degli alberghi.
Usciti dalla piazza del mercato e oltrepassato il vicino ponte, saliamo a tre a tre sui tuc-tuc, che ci portano nel centro storico.
Paghiamo duecento rupie (4 euro) per entrare con la telecamera e la macchina fotografica nella piazza dove c'è l'immenso Palazzo del Maharaja, che dalla parte opposta si affaccia sul lago Pichola. In parte ancora abitato dalla famiglia reale, in parte occupato da uffici e in parte museo, il "City Palace", simbolo di Udaipur, è il più grande del Rajasthan, fatto costruire nel 1568 dal maharaja Udai Singh II, il fondatore della città. E' un complesso di quattro edifici principali e diversi altri minori articolati in modo da formare come un unico massiccio bastione che si allunga sulla sponda orientale del lago.
Anche in questo palazzo ammiriamo cortili, stanze, logge altrettato meravigliose come quelli visti in altri palazzi reali.
In una fotografia è ritratto l'attuale maharaja col figlio (foto in basso sinistra).
In una stanza del museo è in mostra una sedia a rotelle, usata dal padre handicappato dell'attuale maharaja (foto in alto a destra).
All'interno di ogni albergo ci sono dei negozi, dove abbiamo il tempo di comprare qualcosa, o dopo la colazione, o dopo la cena, prima di ritirarci in camera. In albergo i prezzi sono più alti rispetto a quelli delle bancarelle esterne, ma sempre bassi rispetto a quelli italiani. In una delle fortezze visitate ho comprato in una bancarella un anello d'argento con una pietra turchese al prezzo di tre euro, mentre per un anello simile ho pagato dieci euro nel negozio dell'albergo di Jodpur. Per gli acquisti possiamo pagare con euro o con rupie.
Due compagni di viaggio, marito e moglie, mi hanno detto che la sera escono da soli dopo cena e vanno in giro per i negozi, dove trovano prezzi più convenienti rispetto a quelli degli alberghi.
Usciti dalla piazza del mercato e oltrepassato il vicino ponte, saliamo a tre a tre sui tuc-tuc, che ci portano nel centro storico.
Paghiamo duecento rupie (4 euro) per entrare con la telecamera e la macchina fotografica nella piazza dove c'è l'immenso Palazzo del Maharaja, che dalla parte opposta si affaccia sul lago Pichola. In parte ancora abitato dalla famiglia reale, in parte occupato da uffici e in parte museo, il "City Palace", simbolo di Udaipur, è il più grande del Rajasthan, fatto costruire nel 1568 dal maharaja Udai Singh II, il fondatore della città. E' un complesso di quattro edifici principali e diversi altri minori articolati in modo da formare come un unico massiccio bastione che si allunga sulla sponda orientale del lago.
Anche in questo palazzo ammiriamo cortili, stanze, logge altrettato meravigliose come quelli visti in altri palazzi reali.
In una fotografia è ritratto l'attuale maharaja col figlio (foto in basso sinistra).
In una stanza del museo è in mostra una sedia a rotelle, usata dal padre handicappato dell'attuale maharaja (foto in alto a destra).
Il Palazzo reale si specchia sulle acque del lago
Dopo visitiamo un tempio induista, di cui non rimane traccia nella mia memoria, per il divieto di fotografare all'interno.
I tuc-tuc ci riportano in albergo, dove pranziamo nella terrazza sul lago, all'aperto. Fa caldo come a Sciacca in agosto.
Dopo un salutare riposino pomeridiano in camera d'albergo, usciamo alle ore 16,00, diretti all'imbarcadero per una gita in barca sul lago Pichola.
In origine il lago era più piccolo: è stato allargato dal fondatore di Udaipur (Udai Singh) , fino a misurare tre chilometri per quattro, con una profondità di dieci metri.
Le gradinate (ghat) costruite sulla riva offrono scene di vita quotidiana: lavandaie intente nel loro lavoro, induisti immersi per riti devozionali, ecc.
Mentre la nostra barca fa il giro del lago, io registro con la mia telecamera le immagini che scorrono sotto i nostri occhi. La scenografia è fantastica. Sugli isolotti in mezzo al lago
sorgono palazzi e ville incantevoli, che sembrano emergere dall'acqua.
Uno dei palazzi (Lake Palace), tutto bianco, residenza estiva della famiglia del maharaja, è stato trasformato in un affascinante albergo, tra i più lussuosi del pianeta.
Dopo il giro completo del lago, sbarchiamo sull'isola di Yagmandir, dove c'è il palazz0, abitato un tempo dal marahaja.
Ci sediamo ai tavoli di un ristorante all'aperto, per prendere una bibita e goderci il paesaggio intorno, alla luce del tramonto. Io sorseggio un succo di mango, di gradevole sapore.
La sosta nell'isola è rilassante, il sole scende lentamente sul lago. All'imbarcadero c'è la barca per il nostro ritorno. Scattiamo le ultime foto al paesaggio al tramonto e poi riprendiamo l'autobus per un'altra visita, a un laboratorio-negozio di miniature.
I pittori stanno accoccolati lungo il muro e dipingono sotto i nostri occhi, seduti di fronte a loro. mentre un tecnico ci mostra vari dipinti, spiegandoci i segreti dell'arte della miniatura e mettendo in rilievo il pregio del lavoro, sperando di conincerci a comprare.
Io riesco a comunicare un po' con un giovane miniaturista, che vedo al lavoro da vicino: lavorano, tutti, quattro ore al giorno, prendendosi qualche pausa per sgranchirsi le gambe e la schiena.
Mi ringrazia delle mie attenzioni nei suoi confronti, disegnando per me, col pennino e inchiostro nero, un elefante su un un piccolo pezzo di carta, che conservo come souvenir.
Dopo passiamo nella sala vendite. Io non sono interessata all'acquisto, ma ammiro i quadri esposti.
E' ora di tornare il albergo per la cena. Lungo il percorso c'è una bella sorpresa per noi: il pullman si ferma e Rajesh ci invita a scendere. Io seguo il gruppo e inaspettatamente ci troviamo in un giardino, dove si festeggia un matrimonio.
La guida conosce le famiglie degli sposi, che erano stati avvisati della nostra visita. Addirittura ci presenta i parenti che volentieri posano con noi per le foto. Gli sposi stanno seduti su un palco, sotto i riflettori: la sposa non ha lo sguardo felice e sorridente, come siamo soliti vedere nelle feste nuziali occidentali. Ha la faccia seria e lo sguardo basso; pare impacciata. Forse non è contenta della scelta che i genitori hanno fatto per lei, o forse è timorosa di legarsi ad un uomo che non conosce. Abbiamo pochi indizi per giudicare gli stati d'animo dei due protagonisti.
L'abito della sposa (di tutte le spose) è di colore rosso, riccamento adornato. La sposa mostra addosso al suo corpo tutti i gioielli che le sono stati regalati e che costituiscono la sua dote.
Giriamo anche noi tra gli invitati e osserviamo cosa mangiano e come mangiano.
C'è un buffet libero: gli invitati si avvicinano ai tavoli imbanditi con un piatto e prendono a loro piacere. Le mamme aiutano i bambini. Alcuni appoggiano il piatto sulla sedia, altri si siedono in cerchio sull'erba, dove appoggiano i piatti.
Le donne hanno sari molto vistosi e scintillanti.
La sosta è stata per noi una piacevole sorpresa. Chiedo a Lia, che mi è accanto, dove sia la cavalla bianca dello sposo e Lia mi fa notare che la cavalla bianca si usa nel matrimonio induista; questo è un matrimonio musulmano e l'usanza è diversa. Evidentemente, quando Rajesh ha spiegato la differenza, io ero distratta.
Rientriamo in albergo per la cena all'aperto, sul terrazzo che si affaccia sul lago.
Fa caldo estivo ed io indosso una gonna di stile indiano, adorna di lustrini, comprata ieri in uno dei negozi dell'albergo. Chissà se la indosserò a Sciacca!
Nella foto sopra si vedono i somarelli che trasportano mattoni da costruzione.
Raggiunto il pullman fuori del mercato e caricati i bagagli, Rajesh ci accompagna a visitare un grande negozio di tessuti e di sari.
Uno del negozio, incaricato di intrattenerci, sceglie Maria Elena come modella per dimostrarci come si indossa il sari.
Esso non è che una lunga pezza di stoffa, lunga circa cinque metri e mezzo, alta da 1 a 1,40 metri, priva di fermagli o bottoni, che viene avvolta intorno al corpo. Si regge sulla vita infilando il bordo superiore nella cintura della sottogonna. La rimanente pezza avvolge le gambe, il dorso e viene morbidamente drappeggiata sul seno, da destra verso sinistra e intorno al capo.
La prova su Maria Elena non riesce subito, perché indossa i geans, ma alla fine riusciamo a fotografarla con tre sari di diversi colori.
Il terzo, di colore rosso e verde, è un sari da sposa.
Ci intratteniamo ancora nel grande negozio per potere fare acquisti, poi partiamo per una visita al "Tempio della suocera e della nuora", che si trova in campagna.
L'autobus si ferma presso alcuni alberi di papaia, di cui ho mangiato tante volte i frutti, senza conoscerne la pianta. Sono contenta di poterla fotografare insieme ai frutti, che ancora non sono maturi.
Seguendo a piedi Rajesh, arriviamo presso due templi induisti dedicati a Vishnu, dal nome curioso: uno si chiama "Tempio della suocera", l'altro "Tempio della nuora", risalenti agli ultimi decenni dell'XI secolo. Rajesh ci aveva parlato sul pullman di questi due templi, il cui nome non ha alcuna relazione con suocere e nuore; ricordo vagamente che si tratta di una storpiatura di altre parole. La pietra è riccamente lavorata con scene mitologiche. In una parete sono scolpite scene tratte dal Kamasutra.
I tuc-tuc ci riportano in albergo, dove pranziamo nella terrazza sul lago, all'aperto. Fa caldo come a Sciacca in agosto.
Dopo un salutare riposino pomeridiano in camera d'albergo, usciamo alle ore 16,00, diretti all'imbarcadero per una gita in barca sul lago Pichola.
In origine il lago era più piccolo: è stato allargato dal fondatore di Udaipur (Udai Singh) , fino a misurare tre chilometri per quattro, con una profondità di dieci metri.
Le gradinate (ghat) costruite sulla riva offrono scene di vita quotidiana: lavandaie intente nel loro lavoro, induisti immersi per riti devozionali, ecc.
Mentre la nostra barca fa il giro del lago, io registro con la mia telecamera le immagini che scorrono sotto i nostri occhi. La scenografia è fantastica. Sugli isolotti in mezzo al lago
sorgono palazzi e ville incantevoli, che sembrano emergere dall'acqua.
Uno dei palazzi (Lake Palace), tutto bianco, residenza estiva della famiglia del maharaja, è stato trasformato in un affascinante albergo, tra i più lussuosi del pianeta.
Lake Palace, costruito nel 1754, ex residenza reale estiva, ora albergo di lusso
Dopo il giro completo del lago, sbarchiamo sull'isola di Yagmandir, dove c'è il palazz0, abitato un tempo dal marahaja.
Ci sediamo ai tavoli di un ristorante all'aperto, per prendere una bibita e goderci il paesaggio intorno, alla luce del tramonto. Io sorseggio un succo di mango, di gradevole sapore.
La sosta nell'isola è rilassante, il sole scende lentamente sul lago. All'imbarcadero c'è la barca per il nostro ritorno. Scattiamo le ultime foto al paesaggio al tramonto e poi riprendiamo l'autobus per un'altra visita, a un laboratorio-negozio di miniature.
I pittori stanno accoccolati lungo il muro e dipingono sotto i nostri occhi, seduti di fronte a loro. mentre un tecnico ci mostra vari dipinti, spiegandoci i segreti dell'arte della miniatura e mettendo in rilievo il pregio del lavoro, sperando di conincerci a comprare.
Io riesco a comunicare un po' con un giovane miniaturista, che vedo al lavoro da vicino: lavorano, tutti, quattro ore al giorno, prendendosi qualche pausa per sgranchirsi le gambe e la schiena.
Mi ringrazia delle mie attenzioni nei suoi confronti, disegnando per me, col pennino e inchiostro nero, un elefante su un un piccolo pezzo di carta, che conservo come souvenir.
Dopo passiamo nella sala vendite. Io non sono interessata all'acquisto, ma ammiro i quadri esposti.
E' ora di tornare il albergo per la cena. Lungo il percorso c'è una bella sorpresa per noi: il pullman si ferma e Rajesh ci invita a scendere. Io seguo il gruppo e inaspettatamente ci troviamo in un giardino, dove si festeggia un matrimonio.
La guida conosce le famiglie degli sposi, che erano stati avvisati della nostra visita. Addirittura ci presenta i parenti che volentieri posano con noi per le foto. Gli sposi stanno seduti su un palco, sotto i riflettori: la sposa non ha lo sguardo felice e sorridente, come siamo soliti vedere nelle feste nuziali occidentali. Ha la faccia seria e lo sguardo basso; pare impacciata. Forse non è contenta della scelta che i genitori hanno fatto per lei, o forse è timorosa di legarsi ad un uomo che non conosce. Abbiamo pochi indizi per giudicare gli stati d'animo dei due protagonisti.
L'abito della sposa (di tutte le spose) è di colore rosso, riccamento adornato. La sposa mostra addosso al suo corpo tutti i gioielli che le sono stati regalati e che costituiscono la sua dote.
Giriamo anche noi tra gli invitati e osserviamo cosa mangiano e come mangiano.
C'è un buffet libero: gli invitati si avvicinano ai tavoli imbanditi con un piatto e prendono a loro piacere. Le mamme aiutano i bambini. Alcuni appoggiano il piatto sulla sedia, altri si siedono in cerchio sull'erba, dove appoggiano i piatti.
Le donne hanno sari molto vistosi e scintillanti.
La sosta è stata per noi una piacevole sorpresa. Chiedo a Lia, che mi è accanto, dove sia la cavalla bianca dello sposo e Lia mi fa notare che la cavalla bianca si usa nel matrimonio induista; questo è un matrimonio musulmano e l'usanza è diversa. Evidentemente, quando Rajesh ha spiegato la differenza, io ero distratta.
Rientriamo in albergo per la cena all'aperto, sul terrazzo che si affaccia sul lago.
Fa caldo estivo ed io indosso una gonna di stile indiano, adorna di lustrini, comprata ieri in uno dei negozi dell'albergo. Chissà se la indosserò a Sciacca!
9° giorno, 26 ottobre 2008, domenica
La via che attraversa il mercato di Udaipur
Stamattina sono le 9,20 quando lasciamo l'albergo di Udaipur. Come ho già detto, il pullman non può percorrerre la strada stretta e affollata che attraversa il mercato, dove c'è il nostro albergo; perciò camminiamo a piedi trascinandoci i bagagli e gustandoci il brulicare della vita cittadina in un quartiere popolare, come quello in cui ci troviamo.Nella foto sopra si vedono i somarelli che trasportano mattoni da costruzione.
Raggiunto il pullman fuori del mercato e caricati i bagagli, Rajesh ci accompagna a visitare un grande negozio di tessuti e di sari.
Uno del negozio, incaricato di intrattenerci, sceglie Maria Elena come modella per dimostrarci come si indossa il sari.
Esso non è che una lunga pezza di stoffa, lunga circa cinque metri e mezzo, alta da 1 a 1,40 metri, priva di fermagli o bottoni, che viene avvolta intorno al corpo. Si regge sulla vita infilando il bordo superiore nella cintura della sottogonna. La rimanente pezza avvolge le gambe, il dorso e viene morbidamente drappeggiata sul seno, da destra verso sinistra e intorno al capo.
La prova su Maria Elena non riesce subito, perché indossa i geans, ma alla fine riusciamo a fotografarla con tre sari di diversi colori.
Il terzo, di colore rosso e verde, è un sari da sposa.
Ci intratteniamo ancora nel grande negozio per potere fare acquisti, poi partiamo per una visita al "Tempio della suocera e della nuora", che si trova in campagna.
L'autobus si ferma presso alcuni alberi di papaia, di cui ho mangiato tante volte i frutti, senza conoscerne la pianta. Sono contenta di poterla fotografare insieme ai frutti, che ancora non sono maturi.
Seguendo a piedi Rajesh, arriviamo presso due templi induisti dedicati a Vishnu, dal nome curioso: uno si chiama "Tempio della suocera", l'altro "Tempio della nuora", risalenti agli ultimi decenni dell'XI secolo. Rajesh ci aveva parlato sul pullman di questi due templi, il cui nome non ha alcuna relazione con suocere e nuore; ricordo vagamente che si tratta di una storpiatura di altre parole. La pietra è riccamente lavorata con scene mitologiche. In una parete sono scolpite scene tratte dal Kamasutra.
Alle ore 14,00 arriviamo al villaggio di "Sardargarh", dominato da una fortezza, cinta da mura.
Entrati nella fortezza, trasciniamo i nostri bagagli in un viottolo in salita, fino ad arrivare in un bellissimo cortile, adorno di prato verde e aiole fiorite.
Padiglione dove si pranza
Al centro del cortile c'è un padiglione in muratura, sorretto da eleganti colonnine e archi in stile indiano, con tavole apparecchiate per noi.
Rajesh ci dice di lasciare provvisoriamente i bagagli lungo il muro e di andare a tavola subito dopo esserci lavate le mani.
Io non ho voglia di mangiare; già sul pullman avevo nausea, mal di testa e di orecchio. Assaggio un po' di zuppa e aspetto che gli altri finiscano di mangiare per andare nella camera assegnata.Le camere sono ampie, con una veranda all'ingresso, di fronte a un giardino, e finestrelle che danno sul porticato, che gira intorno al cortile, dove si pranza. La stanza da bagno è grandissima.
La fortezza non è un albergo, ma la residenza del maharaja Mahipal e della sua famiglia. Una parte di essa è stata adattata per accogliere i turisti.
In uno dei grandi cortili che abbiamo attraversato, abbiamo visto tante jeep allineate sotto una tettoia, utilizzate per fare escursioni nel bosco del Maharaja o nel vicino villaggio contadino di Sardargarh e al vicino lago.
Dopo un riposino in camera dobbiamo riunirci fuori, alle ore 16,15 per un safari in jeep.
Io non mi sento in forma: temo di aver preso qualche infezione intestinale e sono in allarme. Per precauzione prendo una pillola di Loperamide e così posso godermi l'escursione.
Anche il maharaja partecipa alla gita con noi, guidando la prima jeep: accanto a lui c'è Rajesh; nel sedile posteriore ci sono Mariola, Lia e i coniugi Saggio.
La prima sosta la facciamo sotto un albero gigantesco, vecchio di 400 anni, sotto il quale il capo villaggio riunisce i suoi consiglieri, per prendere delle decisioni che riguardano gli abitanti.
Poi entriamo nel villaggio, dove siamo accolti festosamente dai bambini, che corrono vociando dietro le nostre jeep, mentre le mamme si affacciano sulla soglia incuriosite dalla nostra presenza.
Il primo a scendere dalla jeep è il marharaja (nella foto in jeans e maglietta), che gentilmente apre lo sportello della vettura per far scendere i passeggeri. Rajesh oggi indossa un camicione indiano, di color arancione.
Ci fermiamo a guardare un pozzo, da cui gli abitanti tirano l'acqua col secchio, come ai tempi del medioevo.
I bambini, meravigliosi, ci seguono, non per chiedere qualcosa, ma perché attratti dalla nostra diversità, mostrando di gradire essere fotografati.
Villaggio di Sardargarh
La luce tenue del sole all'alba infonde delicate sfumature di colore al candido marmo del mausoleo.
Entriamo in un cortile: in un lato c'è una zona coperta, separata da una balaustra di pietra
traforata, tinta di giallo, che Rajesh dice di essere una scuola, ma non sembra: non ci sono né banchi, né lavagna, né cattedra, ma qualche disegno al muro.
Dal cortile si accede ad alcune stanze, che sembrano appartenere all'età della pietra: niente mobili, o sedie, o tavoli: solo un focolare di pietra, dei rami secchi a terra per accendere il fuoco, qualche utensile appeso al muro annerito dalla fuliggine; in un'altra stanza c'è una piccola cucina a gas sul pavimento, una bombola e alcune stoviglie.
Le due foto sotto parlano da sole.
traforata, tinta di giallo, che Rajesh dice di essere una scuola, ma non sembra: non ci sono né banchi, né lavagna, né cattedra, ma qualche disegno al muro.
Dal cortile si accede ad alcune stanze, che sembrano appartenere all'età della pietra: niente mobili, o sedie, o tavoli: solo un focolare di pietra, dei rami secchi a terra per accendere il fuoco, qualche utensile appeso al muro annerito dalla fuliggine; in un'altra stanza c'è una piccola cucina a gas sul pavimento, una bombola e alcune stoviglie.
Le due foto sotto parlano da sole.
(Nella foto Rajesh mostra una cintura di metallo, opera di artigianato locale)
L'evento straordinario per noi è la conoscenza di un vecchio santone locale, dai capelli e barba lunghissimi, che vive su un stuoia, al riparo di un albero.
La fine della giornata ha un increscioso seguito per alcuni di noi. La mia compagna di stanza, Lia, mi racconta di essere stata male al villaggio, a causa di nausea e vomito.
Stasera anch'io mi sento male: ho gli intestini scombussolati, febbre e mal di testa. Anche Maria si sente male e viene nella nostra camera a chiedere qualche medicina.
Un po' di medicine le abbiamo tutti in valigia e ce le scambiamo cercando di prendere quelle che ci sembrano più efficaci ai nostri malesseri.
Prima di partire per l'India ci era stato raccomandato di non bere l'acqua di rubinetto, perché carica di germi; di mangiare solo cibi cotti, di sbucciare la frutta, ecc.
Forse siamo stati incauti nel mangiare.
Io ho preso un gelato nei giorni passati, senza riflettere che il gelato non è un cibo cotto, e forse è stato esso la causa dei miei disturbi. Chissà!
Io, Lia e Maria saltiamo la cena. Maria Elena ci prepara un tè in camera.
La notte comunque passa tranquilla e siamo tutti pronti per un nuovo giorno.
L'evento straordinario per noi è la conoscenza di un vecchio santone locale, dai capelli e barba lunghissimi, che vive su un stuoia, al riparo di un albero.
E' muto a causa di un trauma avuto da bambino. La sua dimora è una stuoia di canne sotto l'albero. Franca ricorda di aver notato che l'autista della sua Jeep, sceso dalla vettura, si è tolto le scarpe per andare a inginocchiarsi davanti al santone sotto l'albero, come se entrasse in un tempio.
Assistiamo a una funzione religiosa, a noi incomprensibile, che sa di antico paganesimo.
Dopo averci dato la sua benedizione, il santone si ritita nella sua stuoia, sotto l'albero.
Ci avviamo verso le jeep per tornare nella fortezza.
Camminando lungo la strada, Maria Elena mi dice: "In questo posto mi sembra di essere nel medioevo". Io dico: " A me pare di essere molto più indietro".
Prima di arrivare al Forte, ci fermiamo presso un lago, rosseggiante per la luce del tramonto. Lungo la riva ci sono le gradinate, che in India si chiamano ghat. Indugiamo un po' per vedere e fotografare il sole che cala e scompare dietro il lago.
Franca si fa fotografare, sorridente, con lo sfondo del tramonto, accanto al maharaja Mahipal, che ci ha consentito di passare un pomeriggio ricco di emozioni. Assistiamo a una funzione religiosa, a noi incomprensibile, che sa di antico paganesimo.
Dopo averci dato la sua benedizione, il santone si ritita nella sua stuoia, sotto l'albero.
Ci avviamo verso le jeep per tornare nella fortezza.
Camminando lungo la strada, Maria Elena mi dice: "In questo posto mi sembra di essere nel medioevo". Io dico: " A me pare di essere molto più indietro".
Prima di arrivare al Forte, ci fermiamo presso un lago, rosseggiante per la luce del tramonto. Lungo la riva ci sono le gradinate, che in India si chiamano ghat. Indugiamo un po' per vedere e fotografare il sole che cala e scompare dietro il lago.
La fine della giornata ha un increscioso seguito per alcuni di noi. La mia compagna di stanza, Lia, mi racconta di essere stata male al villaggio, a causa di nausea e vomito.
Stasera anch'io mi sento male: ho gli intestini scombussolati, febbre e mal di testa. Anche Maria si sente male e viene nella nostra camera a chiedere qualche medicina.
Un po' di medicine le abbiamo tutti in valigia e ce le scambiamo cercando di prendere quelle che ci sembrano più efficaci ai nostri malesseri.
Prima di partire per l'India ci era stato raccomandato di non bere l'acqua di rubinetto, perché carica di germi; di mangiare solo cibi cotti, di sbucciare la frutta, ecc.
Forse siamo stati incauti nel mangiare.
Io ho preso un gelato nei giorni passati, senza riflettere che il gelato non è un cibo cotto, e forse è stato esso la causa dei miei disturbi. Chissà!
Io, Lia e Maria saltiamo la cena. Maria Elena ci prepara un tè in camera.
La notte comunque passa tranquilla e siamo tutti pronti per un nuovo giorno.
10° giorno, 27 ottobre 2008, lunedì
La colazione è pronta all'aperto, sul terrazzo del Forte di Sardargarh.
Partiamo alle ore 8,15, sapendo che ci attende una lunga giornata di viaggio. Io, Lia e Maria stiamo meglio, ma non perfettamente in forma. Sul pullmann sonnecchiamo, mentre altri si trastullano in conversazioni vagabonde.
Anche Mariola, che solitamente è esuberante, sta con gli occhi chiusi e una sciarpa intorno al collo. Quando li riapre le chiedo se sta male. Mi risponde che anche lei ha avuto dei disturbi, dovuti sia all'alimentazione che a qualche colpo d'aria.Lungo il tragitto facciamo due soste, in una delle quali mi sento vivificata dalla vista di una testuggine dal carapace mai visto, neanche in foto. Il colore è quello della terra, ma le scaglie hanno un bel disegno geometrico bianco.
Se non fosse proibito portarla in aereo, cercherei di comprarla, anche a un costo alto. Mi accontento di fotografarla e riprenderla con la telecamera. In ogni stazione di servizio approfittiamo della sosta per comprare qualcosa da portare a casa come souvenir o da regalare alle persone care.
A Pushkar ci fermiamo per il pranzo nell'Hotel Jagat Palace, in una sala riccamente decorata (foto a sinistra).
Poi in pullman attraversiamo la città, dove fervono i preparativi per la fiera del bestiame.
Rajesh si sofferma a pregare con devozione, poi usciamo scendendo la scalinata con disgusto per la sporcizia.
Io e Lia , girando all'esterno del tempio, vediamo una stretta scala, pure sporca, che scende sotto il livello della strada verso una cappelletta, dove troviamo una giovane donna che prega davanti ad uno shivalingam.
E' ora di riprendere il viaggio per raggiungere Jaipur (2,5 milioni di abitanti), la capitale del Rajasthan.
Passiamo la maggior parte del tempo a sonnecchiare in pullman. Vengo a sapere che molte persone del gruppo ieri hanno sofferto più o meno come me e non sono perfettamente in forma.
Arriviamo alla capitale intorno alle 18,30.Percorrendo la strada dalla periferia verso il centro, guardiamo dal finestrino la gente che indugia davanti alle casupole o baracche, dall'unica porta spalancata. Qualche famigliola è riunita intorno a un tavolo. C'è una sola stanza per ogni famiglia e l'esiguo spazio costringe a tenere la porta aperta e a vivere fuori.
Lungo il lato destro della strada c'è la corrente elettrica che illumina le modestissime abitazioni a pianterreno, mentre alla nostra sinistra le case all'interno sono illuminate dalla luce di una candela. Qualcuno dorme fuori su una stuoia.
Avvicinandoci al centro, troviamo la città addobbata a festa e illuminata per la nazionale Festa delle Luci, "Happy Diwali", che si celebrerà domani. Anche i palazzi sono illuminati per l'occasione. La festa celebra l'abbondanza di raccolto in autunno ed è dedicata a vari dei e dee. Segna anche un'importante data nel calendario indiano: il ritorno del dio Rama nella città di Ayodhya (stato di Uttar Pradesh, nel nord dell'India). Secondo la leggenda i cittadini accesero migliaia di lampade per guidare il ritorno del loro principe adorato.
Arriviamo di sera all'Hotel Clarcks Amer. Entrando notiamo sul pavimento delle bellissime decorazioni create con chicchi di riso colorato, che si chiamano "rangolì".
Dopo cena ci intratteniamo in giardino per una piacevole passeggiata. Gli alberi sono tutti addobbati con piccolissime luci accese.
Stamattina presto Valentina bussa alla mia camera per darmi una brutta notizia: Maria Elena, che condivide la stanza con lei, ha la febbre, ha vomitato e sente freddo, nonostante in ottobre in India ci sia caldo, come da noi in estate. Le faccio una iniezione di Plasil, datomi da Lia , che ne ha una bella scorta, e così affrontiamo il nuovo giorno. A colazione prendiamo soltanto una tazza di tè con limone e alle 8,30 partiamo col pullman per visitare Jaipur, la capitale del Rajasthan. La città, che conta un milione e mezzo di abitanti, fu fondata dal marharaja Jai Singh nel 1727. Il nucleo storico fu cinto da mura di arenaria rosa; ma solo nel 1883 ebbe il soprannome di "città rosa", perché anche le sue case furono dipinte di rosa in occasione della visita del principe di Galles, futuro Edoardo VII.Celeberrimo è il Palazzo dei Venti, nel cuore della città vecchia, un edificio di cinque piani di arenaria rosa, ricco di cupole, archi e finestre dalle grate intarsiate, dalle quali le donne di corte, ivi relegate, potevano guardare il bazar sottostante e le parate ufficiali, senza essere viste.
(Jaipur: Palazzo dei Venti)Maria Elena, nonostante l'iniezione di Plasil, ha un altro attacco di vomito, mentre siamo davanti al Palazzo dei Venti.
Risaliamo sul pullman per andare a visitare il Forte Amber (Amer nella dizione locale) a dorso di elefante.
In una grandissima piazza chiusa i mastodontici animali, dalla proboscide dipinta, coperti da un grande tappeto rosso con un largo bordo blu e giallo, ci aspettano per trasportarci sul forte, mentre suona una musica accompagnata da colpi di tamburo, che rendono eccitante l'atmosfera.
Io mi chiedo: "Chissà come faremo per salire sul dorso dell'elefante. Forse l'animale si inginocchierà per abbassarsi alla nostra altezza?".
Seguiamo Rajesh che ci guida in un lato della piazza, dove c'è una scala che sale fino a un lungo corridoio, alto poco sotto la groppa dell'elefante.
Le bestie, docili e bene ammaestrate, si allineano davanti al corridoio, appoggiandovi la proboscide.
Tutti gli elefanti hanno la proboscide e le orecchie dipinte, più o meno vistosamente.
Facilissimo per noi accomodarci su una specie di cassetta fissata sul dorso: saliamo sul corridoio, dove vi troviamo addossato l'elefante, immobile che ci aspetta. Ogni animale trasporta due passeggeri, oltre al guidatore, che sta a cavallo sul suo collo.Io e Maria Elena siamo insieme sullo stesso elefante e iniziamo la salita al Forte.
Provo una sensazione bellissima a guardare dall'alto tutto intorno a noi.Ci volgiamo indietro a salutare con la mano i nostri compagni che ci seguono, mentre quelli davanti a noi si volgono per chiederci di scattar loro una foto.
Ci scattiamo le foto a vicenda, mentre i venditori ambulanti ci assillano per venderci magliette, elefantini di legno, e chincaglierie varie. La loro insistenza mi irrita, perché mi distoglie dal godimento di quel tragitto, che sarà certamente irripetibile, a meno che non ritorni in India un'altra volta.
Gli elefanti ci portano nel punto più alto, da cui si gode un panorama spettacolare.
L'erta strada arriva fino al portale monumentale, che introduce in un vasto cortile, dove ci riuniamo intorno a Rajesh per iniziare la visita ai palazzi della fortezza.
Come si vede nella foto sopra, guardiamo i palazzi intorno e ascoltiamo da Rajesh la storia del Forte.
Maria Elena ci segue per un po' ; poi si rifiuta di seguirci e, insieme ad altre tre persone del nostro gruppo, che stanno male come lei, si siede su un gradino, in un angolo di un cortile meno frequentato, in attesa che la visita al forte finisca e noi siamo di ritorno.
Finora abbiamo visto opere artistiche e architettoniche di notevole bellezza, ma qui ad Amber, nel palazzo Reale, lo sfarzo unito alla bellezza mi pare ineguagliabile.
Amber, la vecchia capitale, a 11 km dall'attuale, è un viaggio di sogno nel passato.Per costruirsi il prezioso complesso i maharaja di Jaipur, che si erano alleati con i moghul, utilizzarono le enormi ricchezze accumulate con i bottini di guerra, guadagnati combattendo a fianco di questi ultimi. La costruzione iniziò col maharaja Man Singh nel 1592, mentre le aggiunte più lussuose si devono al maharaja Mirza Jai Singh.
La sala degli specchi, dedicata alle udienze private, è sfarzosamente decorata con raffinati intarsi di pietre preziose o semipreziose e migliaia di piccoli specchi incastonati nelle pareti e nel soffitto, in modo che con pon poca luce venga riprodotto il cielo stellato.
Ecco alcune foto:
Partiamo alle ore 8,15, sapendo che ci attende una lunga giornata di viaggio. Io, Lia e Maria stiamo meglio, ma non perfettamente in forma. Sul pullmann sonnecchiamo, mentre altri si trastullano in conversazioni vagabonde.
Anche Mariola, che solitamente è esuberante, sta con gli occhi chiusi e una sciarpa intorno al collo. Quando li riapre le chiedo se sta male. Mi risponde che anche lei ha avuto dei disturbi, dovuti sia all'alimentazione che a qualche colpo d'aria.Lungo il tragitto facciamo due soste, in una delle quali mi sento vivificata dalla vista di una testuggine dal carapace mai visto, neanche in foto. Il colore è quello della terra, ma le scaglie hanno un bel disegno geometrico bianco.
Se non fosse proibito portarla in aereo, cercherei di comprarla, anche a un costo alto. Mi accontento di fotografarla e riprenderla con la telecamera. In ogni stazione di servizio approfittiamo della sosta per comprare qualcosa da portare a casa come souvenir o da regalare alle persone care.
A Pushkar ci fermiamo per il pranzo nell'Hotel Jagat Palace, in una sala riccamente decorata (foto a sinistra).
Poi in pullman attraversiamo la città, dove fervono i preparativi per la fiera del bestiame.
Ci fermiamo a visitare l'unico tempio, in India, dedicato a Brama. Alcuni del nostro gruppo, che non vogliono togliersi le scarpe, come è d'obbligo per entrare, restano fuori ad aspettarci
Non ho foto o riprese dell'interno del tempio, di cui ho un vago ricordo, ma ricordo perfettamente la forte impressione provata nel salire le gradinate pullulanti di scimmie che conducevano la loro vita indisturbate. Parecchie femmine allattavano i cuccioli; altre scimmie saltellavano o mangiucchiavano sporcando dappertutto.
Amo gli animali e mi piace vederli, ma lo spettacolo delle scimmie, che hanno scelto come loro dimora un tempio, mi sembra ripugnante. Mi sembrerebbe invece bello vederle tra i rami degli alberi, nella foresta, che è il loro habitat naturale.
Non ho foto o riprese dell'interno del tempio, di cui ho un vago ricordo, ma ricordo perfettamente la forte impressione provata nel salire le gradinate pullulanti di scimmie che conducevano la loro vita indisturbate. Parecchie femmine allattavano i cuccioli; altre scimmie saltellavano o mangiucchiavano sporcando dappertutto.
Amo gli animali e mi piace vederli, ma lo spettacolo delle scimmie, che hanno scelto come loro dimora un tempio, mi sembra ripugnante. Mi sembrerebbe invece bello vederle tra i rami degli alberi, nella foresta, che è il loro habitat naturale.
Pushkar: preparativi per la fiera del bestiame
Rajesh si sofferma a pregare con devozione, poi usciamo scendendo la scalinata con disgusto per la sporcizia.
Io e Lia , girando all'esterno del tempio, vediamo una stretta scala, pure sporca, che scende sotto il livello della strada verso una cappelletta, dove troviamo una giovane donna che prega davanti ad uno shivalingam.
E' ora di riprendere il viaggio per raggiungere Jaipur (2,5 milioni di abitanti), la capitale del Rajasthan.
Passiamo la maggior parte del tempo a sonnecchiare in pullman. Vengo a sapere che molte persone del gruppo ieri hanno sofferto più o meno come me e non sono perfettamente in forma.
Arriviamo alla capitale intorno alle 18,30.Percorrendo la strada dalla periferia verso il centro, guardiamo dal finestrino la gente che indugia davanti alle casupole o baracche, dall'unica porta spalancata. Qualche famigliola è riunita intorno a un tavolo. C'è una sola stanza per ogni famiglia e l'esiguo spazio costringe a tenere la porta aperta e a vivere fuori.
Lungo il lato destro della strada c'è la corrente elettrica che illumina le modestissime abitazioni a pianterreno, mentre alla nostra sinistra le case all'interno sono illuminate dalla luce di una candela. Qualcuno dorme fuori su una stuoia.
Avvicinandoci al centro, troviamo la città addobbata a festa e illuminata per la nazionale Festa delle Luci, "Happy Diwali", che si celebrerà domani. Anche i palazzi sono illuminati per l'occasione. La festa celebra l'abbondanza di raccolto in autunno ed è dedicata a vari dei e dee. Segna anche un'importante data nel calendario indiano: il ritorno del dio Rama nella città di Ayodhya (stato di Uttar Pradesh, nel nord dell'India). Secondo la leggenda i cittadini accesero migliaia di lampade per guidare il ritorno del loro principe adorato.
Arriviamo di sera all'Hotel Clarcks Amer. Entrando notiamo sul pavimento delle bellissime decorazioni create con chicchi di riso colorato, che si chiamano "rangolì".
Dopo cena ci intratteniamo in giardino per una piacevole passeggiata. Gli alberi sono tutti addobbati con piccolissime luci accese.
11° giorno, 28 ottobre 2008, martedì
Stamattina presto Valentina bussa alla mia camera per darmi una brutta notizia: Maria Elena, che condivide la stanza con lei, ha la febbre, ha vomitato e sente freddo, nonostante in ottobre in India ci sia caldo, come da noi in estate. Le faccio una iniezione di Plasil, datomi da Lia , che ne ha una bella scorta, e così affrontiamo il nuovo giorno. A colazione prendiamo soltanto una tazza di tè con limone e alle 8,30 partiamo col pullman per visitare Jaipur, la capitale del Rajasthan. La città, che conta un milione e mezzo di abitanti, fu fondata dal marharaja Jai Singh nel 1727. Il nucleo storico fu cinto da mura di arenaria rosa; ma solo nel 1883 ebbe il soprannome di "città rosa", perché anche le sue case furono dipinte di rosa in occasione della visita del principe di Galles, futuro Edoardo VII.Celeberrimo è il Palazzo dei Venti, nel cuore della città vecchia, un edificio di cinque piani di arenaria rosa, ricco di cupole, archi e finestre dalle grate intarsiate, dalle quali le donne di corte, ivi relegate, potevano guardare il bazar sottostante e le parate ufficiali, senza essere viste.
(Jaipur: Palazzo dei Venti)Maria Elena, nonostante l'iniezione di Plasil, ha un altro attacco di vomito, mentre siamo davanti al Palazzo dei Venti.
La grande piazza nel Fort Amber dove si riuniscono gli elefanti
(nello sfondo si vedono i Monti Aravalli)
(nello sfondo si vedono i Monti Aravalli)
Io mi chiedo: "Chissà come faremo per salire sul dorso dell'elefante. Forse l'animale si inginocchierà per abbassarsi alla nostra altezza?".
Seguiamo Rajesh che ci guida in un lato della piazza, dove c'è una scala che sale fino a un lungo corridoio, alto poco sotto la groppa dell'elefante.
Le bestie, docili e bene ammaestrate, si allineano davanti al corridoio, appoggiandovi la proboscide.
Tutti gli elefanti hanno la proboscide e le orecchie dipinte, più o meno vistosamente.
Facilissimo per noi accomodarci su una specie di cassetta fissata sul dorso: saliamo sul corridoio, dove vi troviamo addossato l'elefante, immobile che ci aspetta. Ogni animale trasporta due passeggeri, oltre al guidatore, che sta a cavallo sul suo collo.Io e Maria Elena siamo insieme sullo stesso elefante e iniziamo la salita al Forte.
Provo una sensazione bellissima a guardare dall'alto tutto intorno a noi.Ci volgiamo indietro a salutare con la mano i nostri compagni che ci seguono, mentre quelli davanti a noi si volgono per chiederci di scattar loro una foto.
Ci scattiamo le foto a vicenda, mentre i venditori ambulanti ci assillano per venderci magliette, elefantini di legno, e chincaglierie varie. La loro insistenza mi irrita, perché mi distoglie dal godimento di quel tragitto, che sarà certamente irripetibile, a meno che non ritorni in India un'altra volta.
Notare, nella foto a destra, le vistose decorazioni della proboscide e delle orecchie dell'elefante
Mi dispiace che Maria Elena non stia bene e non possa godere come tutti noi della insolita passeggiata in elefante. Non ha voglia di parlare, nemmeno di scattare qualche foto.Gli elefanti ci portano nel punto più alto, da cui si gode un panorama spettacolare.
L'erta strada arriva fino al portale monumentale, che introduce in un vasto cortile, dove ci riuniamo intorno a Rajesh per iniziare la visita ai palazzi della fortezza.
Come si vede nella foto sopra, guardiamo i palazzi intorno e ascoltiamo da Rajesh la storia del Forte.
Maria Elena ci segue per un po' ; poi si rifiuta di seguirci e, insieme ad altre tre persone del nostro gruppo, che stanno male come lei, si siede su un gradino, in un angolo di un cortile meno frequentato, in attesa che la visita al forte finisca e noi siamo di ritorno.
Finora abbiamo visto opere artistiche e architettoniche di notevole bellezza, ma qui ad Amber, nel palazzo Reale, lo sfarzo unito alla bellezza mi pare ineguagliabile.
Amber, la vecchia capitale, a 11 km dall'attuale, è un viaggio di sogno nel passato.Per costruirsi il prezioso complesso i maharaja di Jaipur, che si erano alleati con i moghul, utilizzarono le enormi ricchezze accumulate con i bottini di guerra, guadagnati combattendo a fianco di questi ultimi. La costruzione iniziò col maharaja Man Singh nel 1592, mentre le aggiunte più lussuose si devono al maharaja Mirza Jai Singh.
La sala degli specchi, dedicata alle udienze private, è sfarzosamente decorata con raffinati intarsi di pietre preziose o semipreziose e migliaia di piccoli specchi incastonati nelle pareti e nel soffitto, in modo che con pon poca luce venga riprodotto il cielo stellato.
Ecco alcune foto:
Fort Amber: pareti decorate nel Palazzo reale
Terminata la visita al forte, ripercorriamo in jeep la strada che abbiamo percorsa in salita con gli elefanti. Camminiamo per un tratto di strada a piedi, fermandoci frettolosamente presso quaalche bancarella per acquisti. Io riesco ad acquistare un anello d'argento con malachite all'irrisorio costo di 200 rupie ( cioè 3,20 euro, dato che un euro vale 65 rupie)
Il pullman ci riporta a Jaipur, presso una fabbrica dove assistiamo allo stampaggio dei tessuti e alla lavorazione dei tappeti a mano.
Nell'attiguo negozio quasi tutti facciamo degli acquisti. Io compro tante sciarpe di seta leggerissima, dai colori e disegni stupendi, e un copriletto di cotone, dove sono stampate miriadi di elefanti.
Ci aspetta un'altra visita: il favoloso Palazzo di Città (City Palace). Per andarci attraversiamo il centro storico, detto "città rosa", cinto di mura perimetrali merlate, cui si accede da dieci porte.
Maria Elena rinunzia ancora alla visita, preferendo rimanere nel pullman, parcheggiato fuori di una delle porte della città.
City Palace, situato nel cuore della città murata è un enorme e complesso palazzo, tuttora residenza del Maharaja di Jaipur, che dal 1959 ha aperto alcune zone al pubblico, allestendole a museo.
Nel cortile più piccolo si trova la sala delle udienze private dove sono esposte due enormi anfore d'argento, che conservavano le sacre acque del fiume Gange.
Ogni anfora è in grado di contenere nove mila litri di acqua e pesa 345 kg. Pare che siano servite al maharaja Madho Sing II come scorta d'acqua personale durante il suo viaggio in Inghilterra, nel 1901, per assistere alla incoronazione del re Edoardo VII. Il maharaja non si fidava dell'acqua che avrebbe trovato in Europa.
Il cortile più famoso è il "Cortile del Pavone", dove ammiriamo le quattro stupende porte, finemente lavorate, con rappresentazioni delle quattro stagioni.
Nella foto a sinistra: una delle quattro porte.
Io e Valentina ad un certo punto ci accorgiamo di essere sole: Rajesh ha proseguito con il gruppo nel suo giro, mentre noi ci fermavamo per le foto e le riprese. Io non mi oriento: siamo passati da un cortile all'altro e non ricordo dove possa essere l'uscita, per raggiungere il pullman. Mi affido a Valentina che mi sembra meno preoccupata di me. Ripercorriamo tutti i posti visitati e non vediamo nessuno dei nostri compagni di viaggio. Valentina si ricorda che Maria Elena è rimasta ad aspettare sul pullman, perciò le manda un messaggio col telefonino per avvertirla che ci siamo perse e che restiamo ferme fin quando Rajesh non si accorga della nostra assenza. Maria Elena risponde che nessuno ha ancora raggiunto il pullman.
Dove sono andati? Decidiamo di fermarci vicino alla porta con i due leoni, confidando nella venuta di Rajesh in nostro aiuto.
Infatti, dopo un tempo che mi è sembrato lunghissimo, arriva Rajesh sorridente, dicendo che tutti quanti erano andati a visitare l'osservatorio astronomico, creato dal fondatore della città, il maharaja Jai Singh, amante dell'astronomia.
Tranquillizzate, raggiungiamo il pullman, dove troviamo i nostri compagni già seduti ad aspettarci.
Torniamo in albergo per il pranzo. Maria Elena si ritira nella sua camera, saltando il pranzo. Ha la febbre a quasi 38° e prende un antibiotico in compresse. Nel pomeriggio non c'è alcuna visita guidata: a piccoli gruppi, andiamo a piedi in un vicino e deludente centro commerciale. La sera salto la cena al ristorante per fare compagnia a Maria Elena nella sua camera. Ceniamo insieme con sola frutta: per lei ci sono due mele cotte, per me frutta fresca. Dopo la lascio sola a riposare e scendo in giardino, dove di festeggia la festa delle luci con giochi pirotecnici, dolcini e bevande varie.
13° giorno, 30 ottobre 2008, giovedì
Il pullman ci riporta a Jaipur, presso una fabbrica dove assistiamo allo stampaggio dei tessuti e alla lavorazione dei tappeti a mano.
Nell'attiguo negozio quasi tutti facciamo degli acquisti. Io compro tante sciarpe di seta leggerissima, dai colori e disegni stupendi, e un copriletto di cotone, dove sono stampate miriadi di elefanti.
Ci aspetta un'altra visita: il favoloso Palazzo di Città (City Palace). Per andarci attraversiamo il centro storico, detto "città rosa", cinto di mura perimetrali merlate, cui si accede da dieci porte.
Maria Elena rinunzia ancora alla visita, preferendo rimanere nel pullman, parcheggiato fuori di una delle porte della città.
City Palace, situato nel cuore della città murata è un enorme e complesso palazzo, tuttora residenza del Maharaja di Jaipur, che dal 1959 ha aperto alcune zone al pubblico, allestendole a museo.
Il grande palazzo giallo, dove sventola la bandiera indiana, ospita gli
appartamenti privati della famiglia dell'attuale maharaja, chiusi al pubblico
Ricordo la porta di accesso da un cortile ad un altro più piccolo, riccamente decorata (vedi foto sotto) con due elefanti in marmo, aggiunti nel 1931 per la nascita dell'attuale maharaja.appartamenti privati della famiglia dell'attuale maharaja, chiusi al pubblico
Nel cortile più piccolo si trova la sala delle udienze private dove sono esposte due enormi anfore d'argento, che conservavano le sacre acque del fiume Gange.
Ogni anfora è in grado di contenere nove mila litri di acqua e pesa 345 kg. Pare che siano servite al maharaja Madho Sing II come scorta d'acqua personale durante il suo viaggio in Inghilterra, nel 1901, per assistere alla incoronazione del re Edoardo VII. Il maharaja non si fidava dell'acqua che avrebbe trovato in Europa.
Il cortile più famoso è il "Cortile del Pavone", dove ammiriamo le quattro stupende porte, finemente lavorate, con rappresentazioni delle quattro stagioni.
Nella foto a sinistra: una delle quattro porte.
Io e Valentina ad un certo punto ci accorgiamo di essere sole: Rajesh ha proseguito con il gruppo nel suo giro, mentre noi ci fermavamo per le foto e le riprese. Io non mi oriento: siamo passati da un cortile all'altro e non ricordo dove possa essere l'uscita, per raggiungere il pullman. Mi affido a Valentina che mi sembra meno preoccupata di me. Ripercorriamo tutti i posti visitati e non vediamo nessuno dei nostri compagni di viaggio. Valentina si ricorda che Maria Elena è rimasta ad aspettare sul pullman, perciò le manda un messaggio col telefonino per avvertirla che ci siamo perse e che restiamo ferme fin quando Rajesh non si accorga della nostra assenza. Maria Elena risponde che nessuno ha ancora raggiunto il pullman.
Dove sono andati? Decidiamo di fermarci vicino alla porta con i due leoni, confidando nella venuta di Rajesh in nostro aiuto.
Infatti, dopo un tempo che mi è sembrato lunghissimo, arriva Rajesh sorridente, dicendo che tutti quanti erano andati a visitare l'osservatorio astronomico, creato dal fondatore della città, il maharaja Jai Singh, amante dell'astronomia.
Tranquillizzate, raggiungiamo il pullman, dove troviamo i nostri compagni già seduti ad aspettarci.
Torniamo in albergo per il pranzo. Maria Elena si ritira nella sua camera, saltando il pranzo. Ha la febbre a quasi 38° e prende un antibiotico in compresse. Nel pomeriggio non c'è alcuna visita guidata: a piccoli gruppi, andiamo a piedi in un vicino e deludente centro commerciale. La sera salto la cena al ristorante per fare compagnia a Maria Elena nella sua camera. Ceniamo insieme con sola frutta: per lei ci sono due mele cotte, per me frutta fresca. Dopo la lascio sola a riposare e scendo in giardino, dove di festeggia la festa delle luci con giochi pirotecnici, dolcini e bevande varie.
12° giorno, 29 ottobre 2008, mercoledì
Stamattina Maria Elena si è svegliata in buona forma: la febbre è passata e può riprendere il viaggio con piacere. Lungo il percorso facciamo una sosta presso la gioielleria Bhandari, dove un signore, che parla la nostra lingua, ci mostra le pietre preziose e semipreziose, spiegandoci come si trasformano in gioielli. Io mi guardo intorno, ammiro e fotografo, ma non sono interessata all'acquisto.
(Cliccare sulle foto per ingrandirle)
Stamattina Maria Elena si è svegliata in buona forma: la febbre è passata e può riprendere il viaggio con piacere. Lungo il percorso facciamo una sosta presso la gioielleria Bhandari, dove un signore, che parla la nostra lingua, ci mostra le pietre preziose e semipreziose, spiegandoci come si trasformano in gioielli. Io mi guardo intorno, ammiro e fotografo, ma non sono interessata all'acquisto.
A mezzogiorno facciamo un'altra sosta per il pranzo in un ristorante con bazar. Abbiamo abbastanza tempo per guardare le svariate merci esposte sui banchi, dai sari, alle borse, ai gioielli, ai ninnoli, ecc. A tutti, ma soprattutto alle signore, prende la frenesia degli acquisti a buon mercato, anche perché il viaggio sta per finire e vorremmo portare a casa un pezzo di India, riflessa nei souvenirs.
Io compro delle statuine di legno che riproducono le immagini del dio Ganesha (con la testa di elefante), elefantini in legno grezzo o laccato, borse di stoffa colorate, ecc.
Quasi tutti abbiamo la preoccupazione che i bagagli portati non bastino a contenere le varie cose comprate durante il viaggio: inoltre in aeroporto viene controllato il peso, che ha un limite che non si può superare, a meno che non si voglia pagare il peso in più.
Io compro delle statuine di legno che riproducono le immagini del dio Ganesha (con la testa di elefante), elefantini in legno grezzo o laccato, borse di stoffa colorate, ecc.
Quasi tutti abbiamo la preoccupazione che i bagagli portati non bastino a contenere le varie cose comprate durante il viaggio: inoltre in aeroporto viene controllato il peso, che ha un limite che non si può superare, a meno che non si voglia pagare il peso in più.
Soddisfatti per gli acquisti, riprendiamo il viaggio, arrivando, alle 15,15, nella "città fantasma" di Fatehpur Sikri, situata nel distretto di Agra, nello stato federato di Uttar Radesh.
Circondata su tre lati da un alto muro di cinta e aperta sul quarto su un lago artificiale, la città era idealmente costruita attorno agli edifici del potere civile e religioso, tra cui il Palazzo Reale e la Grande Moschea. Battezzata Fatehpur Sikri (Città della vittoria) dopo la conquista del Gujarat nel 1572-73, divenne la capitale dell’impero di Akbar, centro nevralgico di una fiorente civiltà. Nel 1585 tuttavia, per ragioni che rimangono tuttora oscure (forse la carenza di acqua, o piuttosto, secondo ipotesi accreditate, in vista di disegni espansionistici verso ovest), Akbar decise di spostare la capitale a Lahore, lasciando completamente disabitata Fatehpur Sikri.
I preziosi resti in arenaria rossa, sopravvissuti a lunghi secoli di abbandono, esibiscono il particolare stile architettonico promosso dal sovrano nel clima di sincretismo religioso che caratterizzò il suo regno: poderose strutture islamiche recano decorazioni indù ed elementi tipici della tradizione persiana.
Il Palazzo Reale è articolato in una serie di corpi di fabbrica inframmezzati da eleganti cortili, secondo il modello islamico; gli appartamenti privati dell’imperatore sorgono intorno a una piscina ornamentale. Gli ambienti interni mostrano invece elementi di matrice indù, come architravi e capitelli a mensola. Celebre è la Sala delle udienze private (Diwan-i-Khas), che riflette nella disposizione interna le teorie cosmologiche induiste: di pianta quadrata, è dominata da un enorme pilastro ottagonale, dalla cui sommità si dipartono quattro gallerie che raggiungono gli angoli della stanza.
Sala delle udienze private (Diwan-i-Khas)
Molto interessanti sono inoltre la Sala delle udienze pubbliche (Diwan-i-Am), i vari padiglioni riservati alle mogli dell’imperatore, il Palazzo della divinità ornato di raffinati motivi floreali e zoomorfi.
La città, protetta dall'UNESCO, è stata dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986.
Grande cortile delle udienze pubbliche (Diwan-i-Am)
La Grande Moschea
La Grande Moschea, fuori della città, attiva come centro di culto, si sviluppa intorno al cortile interno, di 109 x 133 metri. Nonostante l’impianto islamico, accoglie molti elementi derivati dalla religione indù. Al suo interno spicca la tomba monumentale, in marmo bianco, di Sahikh Salim Chisti, consigliere spirituale di Akbar: secondo la leggenda, la moschea fu eretta proprio in onore di questo eremita di Sikri, che in quel luogo aveva profetizzato la nascita del figlio del sovrano.
Io sono insieme a Lia, Maria Elena, Valentina e un'altra persona nella visita alla grande moschea, mentre gli altri del gruppo sono rimasti nella città fantasma con Rajesh.
La spianata della moschea è presidiata da venditori ambulanti di cianfrusaglie che si attaccano ai visitatori come le zecche e non li mollano se non hanno comprato qualcosa. Io sono esasperata e non riesco a godere della bellezza del luogo, soffocata come sono da decine di mani che offrono le loro chincaglierie; perdo la pazienza, alzo la voce arrabbiata e infine, perso il controllo dei miei nervi, mi tolgo un sandalo facendo il gesto sgarbato di buttarlo addosso al venditore più insistente. Il mio gesto inaspettato allontana il molestatore e finalmente posso guardare il porticato che costeggia l'ampio perimetro del cortile interno, la cupola grande, le cupolette e la Porta della Vittoria, la più alta dell'India, alla cui volta sono attaccati dei favi di api.
Lasciamo la moschea e riprendiamo il viaggio per Agra, dove arriviamo alle ore 19,00, nell'Hotel "Clarks Shiraz".
13° giorno, 30 ottobre 2008, giovedì
Buon compleanno a Valentina! Non potrebbe festeggiarlo meglio di oggi che andiamo a visitare una delle sette meraviglie del mondo: il Taj Mahal. Partiamo all'alba dall'albergo per poter vedere il mausoleo sotto una luce migliore, cioè al sorgere del sole. Così vuole Rajesh. Percorriamo un tratto di strada in pullman, da cui riprendo con la telecamera il movimento della città al risveglio. Una scena sconcertante si presenta sotto i miei occhi e faccio in tempo a riprenderla: una donna in sari si china sulla strada a raccogliere a mani nude la cacca appena depositata a terra da una mucca. Incredibile! Se lo raccontassi nessuno mi crederebbe, ma potrei far vedere le immagini registrate. Sappiamo che lo sterco di vacca viene essiccato e utilizzato come combustibile o per impastarlo con altre sostanze per farne malta da costruzione. Mi è capitato di vedere un alto cumulo di forme di sterco essiccato al margine di una strada; ma vederlo raccogliere da terra con le mani nude è ripugnante.
Le auto non possono circolare intorno all'area del Taj per non inquinare l'aria e rovinare il nitore dei marmi e delle pietre preziose e semipreziose delle decorazioni. Perciò, lasciato il pullman nel parcheggio, noi continuiamo la nostra corsa in calesse. Sono eccitata. Prima di partire per l'India ho visto tante foto meravigliose del Taj Mahal. La bellezza di questa costruzione è resa ancora più affascinante dalla leggenda che la avvolge; infatti sembra quasi una fiaba.
Taj Mahal significa "Palazzo della Corona" ed è la più bella e meglio conservata tomba del mondo. Edwin Arnold, un poeta inglese l'ha ben descritto dicendo: "Non un pezzo di architettura, come sono altri edifici, ma la passione orgogliosa di un imperatore trasformata in pietre viventi." Il Taj Mahal si trova sulle rive del fiume Yamuna. Fu costruito dal quinto imperatore Moghul, Shah Jahan, nel 1631 in memoria della sua seconda moglie, Mumtaz Mahal, che era una principessa originaria della Persia. Il suo vero nome era Arjumand Banu Begam, ma dall'imperatore veniva chiamata Mumtaz Mahal, che significa "gioiello del palazzo". L'imperatrice morì mentre accompagnava suo marito a Behrampur, durante una campagna per schiacciare una ribellione. Aveva appena dato alla luce il loro quattordicesimo figlio. La sua morte fu un vera tragedia per l'imperatore, al punto che i suoi capelli e la sua barba nel giro di pochi mesi diventarono completamente bianchi per il dolore. Mentre Mumtaz Mahal era ancora in vita, aveva chiesto all'imperatore di farle quattro promesse nel caso in cui fosse morta prima di lui. Per prima promessa gli chiese di costruire il Taj; la seconda era che si sarebbe dovuto sposare di nuovo per dare una nuova mamma ai loro figli; la terza promessa era che sarebbe sempre stato buono e comprensivo con i loro figli; e la quarta, che avrebbe sempre visitato la sua tomba nell'anniversario della sua morte.
La costruzione del Taj Mahal iniziò nel 1631 ed venne completata in 22 anni. Ventimila persone vennero impiegate per la sua costruzione, che fu disegnata dall'architetto iraniano Istad Usa.
Il modo miglire per apprezzare la sua meravigliosa architettura ed i suoi ornamenti preziosi, è quello di vederli con gli occhi dell'amore che l' Imperatore aveva per la moglie Mumtaz Mahal. E' sicuramente un "simbolo di Amore Eterno."
Dopo aver seppellito l'imperatrice a Behrampur, dove era morta , era tempo che l'imperatore tenesse fede alla sua promessa e costruisse una tomba. Ma visto che era praticamente impossibile trasferire tutto il marmo necessario là, Agra venne scelta come l'unica alternativa, e la tomba di Mumtaz Mahal venne trasferita ad Agra dove fu posta nel Taj Mahal quando venne ultimata la sua costruzione ventidue anni più tardi.
Dopo aver seppellito l'imperatrice a Behrampur, dove era morta , era tempo che l'imperatore tenesse fede alla sua promessa e costruisse una tomba. Ma visto che era praticamente impossibile trasferire tutto il marmo necessario là, Agra venne scelta come l'unica alternativa, e la tomba di Mumtaz Mahal venne trasferita ad Agra dove fu posta nel Taj Mahal quando venne ultimata la sua costruzione ventidue anni più tardi.
Il Taj sorge su una base di pietra arenaria rossa sormontata da un'enorme terrazzo di marmo bianco sul quale si posa la famosa cupola affiancata dai quattro minareti affusolati. La cupola è fatta di marmo bianco, ma la sua posizione vicino al fiume fa sì che un magico gioco di colori, che cambiano durante le ore del giorno e a seconda delle stagioni, diano al Taj Mahal riflessi di colori che lo rendono unico ma sempre diverso. Come un gioiello, il Taj scintilla al chiaro di luna quando le pietre semi-preziose incastonate nel marmo bianco sul mausoleo principale afferrano il bagliore dei raggi della luna. Il Taj è rosato al mattino, bianco latteo alla sera e d'oro quando il sole splende. Sembra quasi che questi cambi di colore rispecchino la mutevolezza dell'umore femminile, o almeno così si dice in India.
Il vasto complesso, oltre al bianco mausoleo, include un monumentale ingresso, un ampio e curato giardino, una moschea e la sua copia simmetrica.
L'intera facciata è riccamente decorata con iscrizioni coraniche in marmo nero, arabeschi e motivi floreali in pietra dura.
All'interno (è vietato fotografare e usare la telecamera) le decorazioni con versi del corano e motivi floreali sono eccezionali per la raffinatezza e delicatezza degli intarsi di pietre dure e semipreziose nel marmo madreperlaceo. Per realizzare un solo fiore di 3 cm si sono utilizzati più di 50 pezzi distinti di pietre semipreziose.
Sulla opposta riva del fiume si vedono alcuni blocchi di marmo nero che, secondo il progetto dell'imperatore, sarebbero dovuti servire per costruire un mausoleo gemello, ma in marmo nero. Il Taj Mahal nero non fu costruito perché il figlio Aurangzeb detronizzò il padre megalomane e lo rinchiuse nel Forte Rosso di Agra, prima che le casse dello Stato si svuotassero completamente.
L'imperatore Shah Jahan, dalla sua prigione guardava da lontano la sua diletta creatura.
Girare intorno al Taj Mahal, all'esterno e all'interno, dà una emozione indicibile. Ci hanno fatto calzare delle pantofole di feltro, perché un granello di polvere non lo oltraggi, mentre degli inservienti, con pezze di lana, lucidano il marmo delle pareti, del pavimento, dei gradini delle scale, come se lucidassero un gioiello.
Tutto ciò che vedo intorno a me è un trionfo di bellezza e armonia. Girando nei giardini stupendi, in mezzo ai quali una vasca di acqua fa da specchio, mi allontano dal monumento che non mi appare più come una costruzione materiale, ma come un disegno etereo su un foglio di carta velina, o come una nuvola bianca che ha assunto la forma del mausoleo sullo sfondo del cielo.
Rajesh ci raduna all'uscita per andare a visitare il Forte Rosso, quel forte dove il creatore del prezioso mausoleo finì i suoi giorni guardandolo da lontano.
Io mi volgo indietro ancora una volta a guardare e riprendo insieme agli altri la via che ci porta al pullman per una visita al Forte Rosso di Agra.
Come altri forti visti nel Rajasthan, anche questo è un gigantesco complesso, costruito dall'imperatore Abkar per scopi militari, tra il 1565 e 1l 1573. Divenne residenza imperiale sotto Shah Jahan, che vi costruì i palazzi reali, le sale delle udienze e una moschea. Il figlio Aurangzed lo completò con palazzi, cortili, giardini e fortificazioni.
Nell'interno è stato utilizzato il marmo bianco, riccamente decorato nello stile del Taj Mahal.
Finestre del Forte Rosso di Agra, da cui l'imperatore Shah Jahan, prigioniero, guardava il Taj Mahal pensando alla moglie prediletta. A destra: il Taj Mahal come lo vediamo dal Forte Rosso
Sono le ore 11,00; la visita al Forte Rosso, anch'esso meraviglioso, si conclude.
Riprendiamo il pullman per tornare in albergo per il pranzo, con una sosta presso un negozio di spezie, dove si fanno gli ultimi acquisti. Io non mi intendo di spezie e non sono interessata.
Dopo il pranzo si parte per Delhi, dove arriviamo alle ore 8,30, dopo cinque ore di viaggio.
Dopo cena si festeggia il compleanno di Valentina, con torta e regalo offerti da Rajesh; ma ci sono anche per noi dei regalini ricordo: una collana di lacrime di Shiva e un foulard per le donne; una cravatta per gli uomini. La serata si conclude con un discorso di Mario Porporino, che ringrazia la guida per i bei giorni che ci ha fatto trascorrere, e di Rajesh, che si congeda da noi sinceramente commosso.
Pernottiamo nello stesso albergo del primo giorno. Il soggiorno in India si conclude stasera. Domani si torna in Italia.
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14° giorno – 31 ottobre 2008 - venerdì
Ritorno a casa. Fine del viaggio.(Finito di scrivere oggi, 24 maggio 2009, martedì)
GRAZIE...GRAZIE.....GRAZIE..
RispondiEliminaMI STAI FACENDO RIVIVERE TUTTO...ANCHE SE AVRO' LA FORTUNA DI VIAGGIARE ANCORA..PENSO CHE QUESTO SARA' IL VIAGGIO PIU' BELLO ....SEI MAGICA!!!!
UN ABRACCIO PIERFRANCA
P.S. LEGGO I TUOI RACCONTI QUANDO SONO TRISTE
...MI RENDONO ALLEGRA E FELICE...
CARISSIMA NIETTA....PROSEGUO CON TE IUL MIO VIAGGIO...NE SONO VERAMENTE FELICE.SICURAMENTE ANCHE TU RIPERCORRENDO LA STORIA E I TUOI APPUNTI TI FANNO RIVIVERE QUESTI "MAGICI"PERCORSI.....AL PROSSIMO IN INDIA....SARà UN'ALTRA STORIA CHISSA'
RispondiElimina?"VARANASI"?? VEDREMO.....,(I DUE PUNTI DI DOMANDA COME DI USA IN SPAGNA).
SEMPRE UN FORTE ABBRACCIO CIAO PIERFRANCA
signora mi e` piaciuta tanto il suo diario .... lei e stata molta brava discreverci tutti e anche i posti molto bene ............... lei e tanto piu intelligente che io sono ....
RispondiEliminaci vediamo presto in Italia......salutami ai tutti
Un forte abbraccio
il suo figlio in India
rajesh
Thank you for the info. It sounds pretty user friendly. I guess I’ll pick one up for fun. thank u
RispondiEliminaTappeti Indiani Seta