Nell’estate di due anni fa mi regalarono due coppie di tartarughe adulte e dopo qualche mese una più piccola di età, forse proveniente dal Kossovo, che la proprietaria non poteva tenere più in casa. Quest’ultima era la più bella e la più mansueta. La chiamavo la kossovara, .
Io le sorvegliavo e le contavo ogni giorno. Mi preoccupavo quando qualcuna si nascondeva alla mia vista e mi tranquillizzavo quando l’indomani la rivedevo in giro. Il loro spazio, circondato da una bassa recinzione di rete metallica, era quasi interamente coperto da pietre piatte e da mattoni, perciò l’erba era scarsa. Dovevo provvedere ogni giorno alla loro alimentazione, spargendo qua e là foglie di lattuga, o mucchietti di pisellini cotti, di cui si mostravano ghiotte, e anche avanzi di pasta col pomodoro o di minestra. Inoltre dovevo fare la guardia al loro cibo, dopo essermi accorta che i gatti del vicinato e le numerose gazze e tortore, che nidificano tra i rami alti dei miei pini, mangiavano tutto alla svelta senza lasciare briciole.
Mentre le due coppie erano selvatiche e si nascondevano quando vedevano qualcuno in giro, la kossovara, abituata alle cure dell’uomo, girava fiduciosa nell’ampio spazio a loro riservato,
Tutto il giardino che circonda la mia casa non ha muri di recinzione. In mia assenza chiunque, oltre agli animali randagi, può entrare e avvicinarsi alla casa e anche alle tartarughe, quando io non ci sono.
Un giorno, dopo aver notato l’assenza della Kossovara, vidi una scala appoggiata al muro della mia casa, da cui sporge un lungo balcone. Dedussi che un ladro di passaggio voleva salire in casa. La scala però arrivava sotto la pensilina del balcone e il malintenzionato dovette desistere dai suoi cattivi propositi. La scala era stata sottratta ai miei vicini, che l’avevano lasciata fuori appoggiata ad un ulivo. Era il periodo della raccolta delle olive. Pensai che il probabile ladro, vedendo la bella tartaruga, se l’era portata con sé come magra consolazione per il mancato bottino.
Il 9 ottobre dovevo partire con Maria Elena per il Messico, per una vacanza di undici giorni.
Avevo letto in un libretto che le tartarughe cadono in letargo nel mese di ottobre, e questa notizia mi confortava, dovendo rimanere assente da casa per tanto tempo. Non c’era nessuno che si sarebbe preso cura delle mie bestiole. Il letargo avrebbe risolto il problema dell’alimentazione.
Metà settembre, mentre indugiavo in giardino guardando le mie tartarughe, il mio sguardo cadde su una pietra di colore e forma diversi da quelle che si trovano nel luogo: era piatta, tondeggiante e di colore verdastro. Incuriosita la raccolsi. Grande fu la mia sorpresa nel vedere che non era una pietra, ma una tartaruga neonata. Mi era sembrata una pietra piatta perché era capovolta e non poteva più rigirarsi e tornare in piedi. Sarebbe morta se non l’avessi raccolta.
Quindi le femmine adulte avevano deposto le uova chissà dove, senza che mi fossi accorta di nulla. Cercai in giardino nella speranza di trovarne delle altre. Non ne trovai. Pensai alla sorpresa che avrebbe avuto anche Maria Elena, la sera, al ritorno dall’ufficio!
La portai in casa e la deposi in una scatola di cartone con una fogliolina di lattuga. La guardavo con tenerezza, pensando che la vita che si rinnova dà una grande gioia. Il carapace era molle come la cartilagine, il colore delle piastre maculate era lucido e vivo.
Quando Maria Elena fu di ritorno, le dissi che c’era un “fiocco rosa “ in giardino.
- Che significa?
- Non sai che significa un “fiocco rosa “?
- Non lo so. Dimmi che è successo.
Le mostrai la tartarughina in una scatola. La prese con visibile gioia e se la mise nel palmo della mano:
- Com’è piccola? Gli occhi sono due punte di spillo! Non è più grande di una moneta!
La fotografò con la sua digitale accanto ad una tazzina da caffé, al telefonino, ad una penna, al suo pollice per confrontare la grandezza.
La fotografò pure accanto ad una squadra millimetrata, come aveva visto fare alla Polizia scientifica, per fissarne la misura: quattro centimetri, dalla testa alla coda.
Di giorno la tenevo libera in veranda, la sera la tenevo in casa dentro la scatola.
A dieci giorni dalla partenza per il Messico mi accorsi che la femmina più grossa aveva uno strano bitorzolo vicino all’orecchio sinistro. Tutta la testa era deforme.
- “Sarà stata morsicata da un insetto” – pensai.
La tenni sotto osservazione per alcuni giorni. Il bitorzolo non accennava a scomparire; inoltre la tartaruga schivava il cibo che le portavo, preferendo stare appartata. Era evidente che stava male.
Per sollecitazione di mio figlio Ignazio, la portai dal veterinario, che diagnosticò una cisti e mi prescrisse una pomata antibiotica da passare sulla parte malata, nella speranza che la guarigione sarebbe avvenuta nel giro di una settimana.
Alla vigilia della partenza affidai la tartaruga malata e la neonata a Ignazio, che le portò con sé nella sua casa ad Aci Castello, dove si sarebbe preso cura di loro durante la mia vacanza in Messico. Inoltre mi assicurò che avrebbe portato la tartaruga malata da un veterinario di Catania, specializzato in malattie dei rettili.
Ci restava solo un giorno per preparare le valigie, e affrontare il lungo viaggio in aereo nel continente oltre l’Atlantico. Con la mente sgombra da ogni preoccupazione, scesi in giardino per rilassarmi un po’ guardando le tre tartarughe rimaste.
In mia assenza si sarebbero arrangiate da sole con le poche erbe estive e con le foglie di alcune piante grasse che mostravano di non disdegnare.
Quel giorno ebbi un’altra sorpresa: trovai un'altra neonata, ancora più piccola della precedente, e un’altra ancora, morta, capovolta, con un grosso foro nel piastrone. Pensai che una gazza l’avesse mangiata.
A chi affidare la neonata viva?
L’unico vicino di casa a cui affidare l’ultima neonata era mio nipote Mario. Gliela diedi in una scatola di cartone insieme ad una lattuga e un po’ d’acqua in un coperchio da barattolo, raccomandandogli di non farle mancare mai una foglia di lattuga e di tenerla sempre in casa fino al mio ritorno.
Mentre mi trovavo in viaggio seppi da una telefonata a Ignazio che il veterinario di Catania aveva asportato chirurgicamente la cisti alla femmina malata, che si riprendeva bene ed era fuori pericolo..
All’inizio dell'inverno, pensando che durante il letargo le tartarughe siano incapaci di difendersi dai cani randagi o dai topi, le radunai in veranda, al coperto. Di notte le trasferivo in cucina, dove i topi non potevano arrivare. Il 20 dicembre smisero di mangiare e non si mossero dal loro alloggio, perciò credei che da questa data fosse iniziato il letargo. Le trasferii in cucina, dove non mi avrebbero dato alcun fastidio.
Bisognerebbe correggere quel libro in cui avevo letto che il letargo comincia in ottobre. L’autore non ha tenuto conto delle differenze climatiche tra le varie zone in cui le tartarughe vivono.
Stavano chete a dormire. Ma quando, abbassatasi la temperatura, accesi i termosifoni, si svegliarono e si misero a girare per la stanza come forsennate, arrecandomi non poco disturbo: dovevo tenere le porte chiuse, per timore che uscissero e si nascondessero in un altro posto della mia grande casa e perciò sarebbero sfuggite al mio controllo. Le misi in corridoio, lontano dal radiatore, dove la temperatura si manteneva più bassa. Mi sembrava un posto buono per far passare loro l'inverno. Al buio dentro una cassetta coperta, si muovevano appena, non avevano bisogno di cibo o di altro. Con lo stomaco e gli intestini vuoti non sporcavano e non si muovevano nell'esiguo spazio in cui le avevo collocate. Ma poi dubitai che il corridoio fosse un luogo adatto per il letargo: "Se stessero in giardino, come vuole Madre Natura, rimarrebbero immobili ad ogni ora del giorno?" Quando stavano in giardino, avevo osservato che appena il sole si alzava nel cielo e i raggi arrivavano nel loro nascondiglio, si svegliavano, si riscaldavano e si mettevano in moto; perciò passeggiavano, mangiavano e soddisfacevano i loro bisogni. Prima che il sole tramontasse tornavano a nascondersi e a immobilizzarsi.
Ricavai allora da una grande scatola di cartone una casa adatta a loro. In una parete tagliai una comoda apertura per farle uscire ed entrare a loro piacimento. Di notte tenevo la casa di cartone in corridoio; in tarda mattinata le spostavo in veranda.
La mancanza di calore sembrava paralizzarle.
Le raccoglievo tutte e sei insieme e le trasferivo al sicuro in corridoio, dove la temperatura era meno bassa rispetto all'esterno.
Mi meravigliavo nel vedere spesso i tentativi insistenti dei due maschi per accoppiarsi con le femmine, che invece si mostravano restie. A questo punto credei che non sarebbero mai cadute completamente in letargo.
Con l’abbassarsi della temperatura smisero di mangiare e si limitarono a uscire dalla casetta quando il sole le scioglieva dal torpore, ma solo per poco tempo.
Con l’arrivo dei primi tepori di marzo cominciai a pensare ad una diversa sistemazione delle mie tartarughe. Nel mio giardino non c'è recinto in muratura e quindi nessuna protezione; la bassa rete metallica serve solo per non farle fuggire, non a difenderle da eventuali ladri o animali randagi. Inoltre i pini non fanno crescere le erbe adatte alla loro alimentazione.
Invece il vicino giardino di mia madre è circondato da un muretto, sormontato da un'alta rete metallica. Lì le mie tartarughe sarebbero più protette; inoltre potrei coltivare lattughe e ortaggi, in modo che le mie care bestiole abbiano sempre cibo fresco a portata di bocca.
Una domenica di marzo cominciai a lavorare nel giardino di mia madre per preparare il terreno dove costruire un nuovo recinto per le mie tartarughe.
Trascorsi altri due giorni all'aria aperta per smontare il vecchio recinto delle tartarughe e ricostruirlo nel nuovo terreno che avevo scelto. Fu una faticaccia, ma salutare. Divelsi i paletti per ripiantarli nel nuovo sito e sradicai con la falce le erbacce. Pranzai dalla mamma e continuai a lavorare anche dopo pranzo. Lasciai il lavoro a metà pomeriggio, giusto in tempo per rifare la doccia (ero zuppa di sudore e assetata) e correre in città per una faccenda da sbrigare. Prima di rincasare, comprai una quarantina di piantine di lattuga e una bustina di semi di spinaci, da mettere entro il recinto appena costruito.
Tornata a casa trovai le tartarughe tutte fuori dalla casetta a riscaldarsi ancora all'ultimo sole che lambiva la veranda. Avevano mangiato gran parte dell’erba che avevo raccolto per loro in giardino. Potevo quindi dire a metà marzo che le tartarughe si erano completamente svegliate.
L’indomani pensai che era venuto il momento di trasferirle nel nuovo sito, tranne le piccoline: temevo che il recinto non fosse ancora sicuro per loro. Poteva esserci qualche varco da cui fuggire, qualche nascondiglio tra le pietre in cui restare incastrate o capovolgersi. Le tartarughe di terra, come le mie, se si capovolgono muoiono, perché il loro scudo molto convesso le fa rimanere con le zampe in aria e, se non hanno qualche appiglio, restano capovolte fino a morire soffocate.
Adagiai entro il recinto la casetta di cartone delle tartarughe ancora addormentate, certa che il calore del sole le avrebbe svegliate, e misi le piccoline in una cassetta, per timore di perderle, se lasciate libere in un grande spazio. Sentivo quel giorno esplodere la primavera e volevo che anche le tartarughe ne godessero.
Accortami che mi era rimasta una lunga striscia di rete metallica, creai un recinto più piccolo dentro quello grande e, prima di aspettare che le bestiole si svegliassero da sole, le tirai fuori tutte quante e le lasciai libere nel recinto più piccolo. Lavorando in giardino, le avrei avuto facilmente sott'occhio. Scavai un solco lungo il recinto all'interno, concimai la terra smossa e piantai le lattughine, coprendo le radici con la terra soffice, dopo aver tolto le pietre, di cui la terra è piena. Alla fine coprii il solco con una striscia di rete per proteggere le piantine dalla voracità delle tartarughe.
Ogni tanto guardavo i miei animali, già svegli. I due piccolini si davano da fare beccando le foglioline di acetosella; il più piccolo dei maschi adulti, più sveglio di tutti, invece corteggiava una delle due femmine, più grossa di lui.
Piantate tutte le lattughe e sparsi i semi di spinaci, feci scorrere abbondantemente l'acqua nel solco e mi sedetti sull'erba per guardare le tartarughe e riposarmi. Era mezzogiorno. Lo spettacolo offertomi dalle tartarughe era incredibile. Le ultime nate sonnecchiavano seminascoste a mezz'ombra sotto alcune foglie. I due maschi adulti sembravano impazziti dalla voglia di accoppiarsi con una sola delle due femmine (quella che era stata operata). L'altra femmina camminava indisturbata, esplorando con curiosità la lunghezza del recinto.
Il corteggiamento è alquanto strano. Il maschio insegue minaccioso la femmina, urtandola a colpi di piastrone sulla parte posteriore della corazza. I colpi si sentono anche a distanza. La femmina scappa e il maschio la insegue e la spinge sgarbatamente per intimidirla.
Poi vidi entrare in azione il secondo maschio. La femmina scappava avanti e i due maschi la spingevano a colpi di piastrone. Alla fine questa cedeva (mi pareva malvolentieri) e avveniva l'accoppiamento. I due maschi, instancabili si davano il cambio. In quest'orgia mi sconcertò vedere un maschio accoppiarsi con l'altro. L'avevo visto anche l'anno scorso. “ L'omosessualità allora esiste anche negli animali? – pensai.
L'inseguimento e l'accoppiamento durò tutta la mattinata, senza pause. Ad un certo punto uno dei due maschi si accorse dell'altra femmina e partì all'attacco con lei. Ma l'attenzione per questa durò poco.
Io mi chiedevo:
- Dopo il letargo invernale, dopo il digiuno e la perdita di peso, chi dà loro così tanta energia?
Sono convinta che il Sole faccia questo miracolo.
Essendo ora di pranzo e riposatami abbastanza, lasciai le mie tartarughe alle loro orge e me ne tornai nella mia casa.
Mi auguro che nasceranno altri piccoli e si allarghi la famiglia.
Al tramonto del sole le raccolsi tutte quante nella casetta di cartone e le riportai nel corridoio della mia casa per il sonno notturno.
La mattina seguente le rimisi nel recinto. Nel pomeriggio andai a trovarle: l'atmosfera era completamente diversa, rasserenante al mio sguardo. La frenesia del giorno prima non c'era più. Alcune girovagavano pigramente entro il recinto, altre si godevano il sole.
Mia madre dice che sono animali stupidi e forse si stupisce che io perda tempo con loro.
Sparsi nel terreno alcune foglie di lattuga e tutte quante si misero a mangiare, mostrando di essere affamate.
Il bellissimo gatto della vicina, Figaro, apparve all'improvviso, fermandosi guardingo per la mia insolita presenza. Mi chiesi se fosse un pericolo per le tartarughe più piccole; ma poi scacciai questa preoccupazione, pensando che lo stesso gatto veniva nel recinto dello scorso anno a rubare la minestra o i pisellini cotti, che mettevo su un mattone per le mie bestiole. Le lasciai ai loro trastulli per tornare a riprenderle all'imbrunire. Preferivo che trascorressero la notte al sicuro, in casa. Ne trovai cinque: mancava la più piccina. Son brave le piccoline a nascondersi. Si infilano in qualche buco o si mimetizzano sotto l'erba. Strappai con le mani tutta l'erba per scoprire il terreno. Man mano cresceva l'ansia. Non c'era.
- Potrebbe averla mangiata Figaro.
- Forse no. Mancano le tracce.
- Forse ha trovato un varco in qualche parte del reticolato che non aderisce bene al terreno e si è allontanata.
Ispezionai tutto il perimetro, senza concludere nulla. Andai a prendere il rastrello per grattare il terreno. Strappai fino all'ultimo filo d'erba, rastrellai le pietre di piccole dimensioni (le grosse le avevo già tolte prima) senza capire dove fosse andata a finire.
Mi stavo rassegnando con dispiacere alla sua perdita, quando la vidi tra i denti del rastrello .
Che sollievo! Ero contenta. Si era incuneata sotto le pietre, a loro volta nascoste dall'erba.
Avevo messo nel recinto piccolo un sottovaso rettangolare e riempito d'acqua in modo che potessero bere. L'altezza dell'acqua era di qualche centimetro. Il sottovaso mi pareva adatto anche per le due piccine, che non si sarebbero annegate. Stamattina, prima di uscire con la mamma, vidi due tartarughe grandi immobili nell'acqua a godersi il sole. Non restava altro spazio se le compagne avessero voluto immergersi anche loro.
Il sottovaso era troppo piccolo per tutte. Ne presi un altro, circolare, molto più grande lo collocai poco distante da quello rettangolare. Pensando che le piccine si sarebbero annegate nella vasca circolare, perché il livello dell'acqua superava la loro altezza, lo inclinai un poco in modo che in un lato l'acqua fosse bassa, adatta a loro, e nella parte opposta più alta, buona per le grandi. Tutto mi pareva a posto e ben fatto.
Nel pomeriggio, anziché scendere in giardino, preferii distendermi a letto per leggere il libro di una mia amica da poco pubblicato. Prima che tramontasse il sole, scesi nel mio giardino per raccogliere le ultime arance da un albero vicino alla casa e poi andai in quello della mamma per dare un’occhiata alle tartarughe.
Prima di varcare il cancello la mamma mi disse che una era capovolta e una piccolina stava in acqua. Io le dissi che bisognava rimetterla in piedi, altrimenti sarebbe morta soffocata. La mamma non lo sapeva e si affrettò a rimetterla in piedi.
Avvicinatami al recinto vidi la più piccina in acqua nella vasca grande e nella parte più profonda, completamente immersa. La testa era giù. Intuii che fosse annegata. La presi immediatamente in mano: non era rigida, ma non dava segni di vita.
Che scoramento! Che rabbia!
Avevo pensato che le piccine in quel punto si sarebbero annegate, ma non avevo pensato di mettere nella vasca delle pietre in modo che avrebbero avuto un appiglio per tenersi, per salirvi e tenere la testa fuori dall'acqua. Il fondo del grande sottovaso di plastica è liscio e perciò la piccina era scivolata nel punto più profondo, senza trovare qualcosa a cui aggrapparsi.
Pensai a un bambino che annega in una piscina per adulti, quando sfugge al loro controllo. E' successo qualche volta.
Mi sentivo colpevole di aver causato la sua morte. Non c'era più rimedio; pensavo che la sera avrei dato la brutta notizia a Maria Elena, che avrebbe provato lo stesso mio dispiacere.
Mentre scorrevano tali pensieri nella mia mente, tenevo la piccina a testa in giù, pressando il molle piastrone con il pollice, nell'estremo tentativo di farle uscire l'acqua dai polmoni. La pressione le fece uscire il collo e aprire la bocca da cui uscì qualche goccia d'acqua. Continuai senza speranza a premere più volte, fin quando le uscì un flebile fischio. Scorata la depositai a terra, al sole. Non sapevo quanto tempo fosse stata sott'acqua.
Pensai che sarebbe stato meglio separare le adulte dalle neonate, mettendo le prime nel recinto più grande e lasciando le due neonate in quello più piccolo.
Come prevedevo, dato uno sguardo al grande spazio in cui improvvisamente si trovarono, le adulte si diressero correndo verso il muretto fitto di piante, sotto cui scomparvero. Nel recinto piccolo erano rimaste quella annegata, immobile sotto l'ultimo raggio di sole, e la sorellina, che cercava un nascondiglio per passarvi la notte. Le presi tutte e due e le misi in una scatola di cartone in veranda per portarmele a casa. Indugiai un poco pensierosa per quanto era accaduto a causa della mia imprudenza. Ad un tratto mi parve che l'annegata avesse mosso una zampetta. Credei che fosse uno scherzo della mia vista. La presi in mano e la toccai in tutti i punti. Era appena percepibile qualche movimento delle zampe e della testa. Allora non era morta!
Ero incredula. Continuai a stimolarla e i suoi movimenti, anche se piccolissimi, si vedevano. Chiamai mia madre e gliela feci vedere. Anche lei constatò che era viva. Fu contenta più per me che per quell’esserino risorto. La rimisi nella scatola al sole e aspettai per vedere come sarebbe stata la ripresa. Nell'attesa io e mia madre iniziammo una partita a carte. Tramontato il sole, misi le due piccine in libertà sul tavolo dove giocavamo, per averle sotto controllo. Quella sana girava incuriosita attorno all'orlo del tavolo; l'altra, senza forze, stava ferma, ma ogni tanto girava la testa.
Finita la partita, me ne tornai a casa con le due tartarughine, rasserenata e contenta. Per mia colpa si era annegata, ma con il mio intuito si è salvata. Pensai di chiamarla Mosina, in ricordo di Mosè salvato dalle acque del Nilo.
Nietta
Io le sorvegliavo e le contavo ogni giorno. Mi preoccupavo quando qualcuna si nascondeva alla mia vista e mi tranquillizzavo quando l’indomani la rivedevo in giro. Il loro spazio, circondato da una bassa recinzione di rete metallica, era quasi interamente coperto da pietre piatte e da mattoni, perciò l’erba era scarsa. Dovevo provvedere ogni giorno alla loro alimentazione, spargendo qua e là foglie di lattuga, o mucchietti di pisellini cotti, di cui si mostravano ghiotte, e anche avanzi di pasta col pomodoro o di minestra. Inoltre dovevo fare la guardia al loro cibo, dopo essermi accorta che i gatti del vicinato e le numerose gazze e tortore, che nidificano tra i rami alti dei miei pini, mangiavano tutto alla svelta senza lasciare briciole.
Mentre le due coppie erano selvatiche e si nascondevano quando vedevano qualcuno in giro, la kossovara, abituata alle cure dell’uomo, girava fiduciosa nell’ampio spazio a loro riservato,
Tutto il giardino che circonda la mia casa non ha muri di recinzione. In mia assenza chiunque, oltre agli animali randagi, può entrare e avvicinarsi alla casa e anche alle tartarughe, quando io non ci sono.
Un giorno, dopo aver notato l’assenza della Kossovara, vidi una scala appoggiata al muro della mia casa, da cui sporge un lungo balcone. Dedussi che un ladro di passaggio voleva salire in casa. La scala però arrivava sotto la pensilina del balcone e il malintenzionato dovette desistere dai suoi cattivi propositi. La scala era stata sottratta ai miei vicini, che l’avevano lasciata fuori appoggiata ad un ulivo. Era il periodo della raccolta delle olive. Pensai che il probabile ladro, vedendo la bella tartaruga, se l’era portata con sé come magra consolazione per il mancato bottino.
Il 9 ottobre dovevo partire con Maria Elena per il Messico, per una vacanza di undici giorni.
Avevo letto in un libretto che le tartarughe cadono in letargo nel mese di ottobre, e questa notizia mi confortava, dovendo rimanere assente da casa per tanto tempo. Non c’era nessuno che si sarebbe preso cura delle mie bestiole. Il letargo avrebbe risolto il problema dell’alimentazione.
Metà settembre, mentre indugiavo in giardino guardando le mie tartarughe, il mio sguardo cadde su una pietra di colore e forma diversi da quelle che si trovano nel luogo: era piatta, tondeggiante e di colore verdastro. Incuriosita la raccolsi. Grande fu la mia sorpresa nel vedere che non era una pietra, ma una tartaruga neonata. Mi era sembrata una pietra piatta perché era capovolta e non poteva più rigirarsi e tornare in piedi. Sarebbe morta se non l’avessi raccolta.
Quindi le femmine adulte avevano deposto le uova chissà dove, senza che mi fossi accorta di nulla. Cercai in giardino nella speranza di trovarne delle altre. Non ne trovai. Pensai alla sorpresa che avrebbe avuto anche Maria Elena, la sera, al ritorno dall’ufficio!
La portai in casa e la deposi in una scatola di cartone con una fogliolina di lattuga. La guardavo con tenerezza, pensando che la vita che si rinnova dà una grande gioia. Il carapace era molle come la cartilagine, il colore delle piastre maculate era lucido e vivo.
Quando Maria Elena fu di ritorno, le dissi che c’era un “fiocco rosa “ in giardino.
- Che significa?
- Non sai che significa un “fiocco rosa “?
- Non lo so. Dimmi che è successo.
Le mostrai la tartarughina in una scatola. La prese con visibile gioia e se la mise nel palmo della mano:
- Com’è piccola? Gli occhi sono due punte di spillo! Non è più grande di una moneta!
La fotografò con la sua digitale accanto ad una tazzina da caffé, al telefonino, ad una penna, al suo pollice per confrontare la grandezza.
La fotografò pure accanto ad una squadra millimetrata, come aveva visto fare alla Polizia scientifica, per fissarne la misura: quattro centimetri, dalla testa alla coda.
Di giorno la tenevo libera in veranda, la sera la tenevo in casa dentro la scatola.
A dieci giorni dalla partenza per il Messico mi accorsi che la femmina più grossa aveva uno strano bitorzolo vicino all’orecchio sinistro. Tutta la testa era deforme.
- “Sarà stata morsicata da un insetto” – pensai.
La tenni sotto osservazione per alcuni giorni. Il bitorzolo non accennava a scomparire; inoltre la tartaruga schivava il cibo che le portavo, preferendo stare appartata. Era evidente che stava male.
Per sollecitazione di mio figlio Ignazio, la portai dal veterinario, che diagnosticò una cisti e mi prescrisse una pomata antibiotica da passare sulla parte malata, nella speranza che la guarigione sarebbe avvenuta nel giro di una settimana.
Alla vigilia della partenza affidai la tartaruga malata e la neonata a Ignazio, che le portò con sé nella sua casa ad Aci Castello, dove si sarebbe preso cura di loro durante la mia vacanza in Messico. Inoltre mi assicurò che avrebbe portato la tartaruga malata da un veterinario di Catania, specializzato in malattie dei rettili.
Ci restava solo un giorno per preparare le valigie, e affrontare il lungo viaggio in aereo nel continente oltre l’Atlantico. Con la mente sgombra da ogni preoccupazione, scesi in giardino per rilassarmi un po’ guardando le tre tartarughe rimaste.
In mia assenza si sarebbero arrangiate da sole con le poche erbe estive e con le foglie di alcune piante grasse che mostravano di non disdegnare.
Quel giorno ebbi un’altra sorpresa: trovai un'altra neonata, ancora più piccola della precedente, e un’altra ancora, morta, capovolta, con un grosso foro nel piastrone. Pensai che una gazza l’avesse mangiata.
A chi affidare la neonata viva?
L’unico vicino di casa a cui affidare l’ultima neonata era mio nipote Mario. Gliela diedi in una scatola di cartone insieme ad una lattuga e un po’ d’acqua in un coperchio da barattolo, raccomandandogli di non farle mancare mai una foglia di lattuga e di tenerla sempre in casa fino al mio ritorno.
Mentre mi trovavo in viaggio seppi da una telefonata a Ignazio che il veterinario di Catania aveva asportato chirurgicamente la cisti alla femmina malata, che si riprendeva bene ed era fuori pericolo..
* * *
Letargo o semiletargo?
All’inizio dell'inverno, pensando che durante il letargo le tartarughe siano incapaci di difendersi dai cani randagi o dai topi, le radunai in veranda, al coperto. Di notte le trasferivo in cucina, dove i topi non potevano arrivare. Il 20 dicembre smisero di mangiare e non si mossero dal loro alloggio, perciò credei che da questa data fosse iniziato il letargo. Le trasferii in cucina, dove non mi avrebbero dato alcun fastidio.
Bisognerebbe correggere quel libro in cui avevo letto che il letargo comincia in ottobre. L’autore non ha tenuto conto delle differenze climatiche tra le varie zone in cui le tartarughe vivono.
Stavano chete a dormire. Ma quando, abbassatasi la temperatura, accesi i termosifoni, si svegliarono e si misero a girare per la stanza come forsennate, arrecandomi non poco disturbo: dovevo tenere le porte chiuse, per timore che uscissero e si nascondessero in un altro posto della mia grande casa e perciò sarebbero sfuggite al mio controllo. Le misi in corridoio, lontano dal radiatore, dove la temperatura si manteneva più bassa. Mi sembrava un posto buono per far passare loro l'inverno. Al buio dentro una cassetta coperta, si muovevano appena, non avevano bisogno di cibo o di altro. Con lo stomaco e gli intestini vuoti non sporcavano e non si muovevano nell'esiguo spazio in cui le avevo collocate. Ma poi dubitai che il corridoio fosse un luogo adatto per il letargo: "Se stessero in giardino, come vuole Madre Natura, rimarrebbero immobili ad ogni ora del giorno?" Quando stavano in giardino, avevo osservato che appena il sole si alzava nel cielo e i raggi arrivavano nel loro nascondiglio, si svegliavano, si riscaldavano e si mettevano in moto; perciò passeggiavano, mangiavano e soddisfacevano i loro bisogni. Prima che il sole tramontasse tornavano a nascondersi e a immobilizzarsi.
Ricavai allora da una grande scatola di cartone una casa adatta a loro. In una parete tagliai una comoda apertura per farle uscire ed entrare a loro piacimento. Di notte tenevo la casa di cartone in corridoio; in tarda mattinata le spostavo in veranda.
Gennaio 2005 – Nella veranda inondata dal sole le tartarughe
in letargo si svegliano ed escono dalla casetta di cartone.
Appena i raggi arrivavano alla loro casetta di cartone, si svegliavano ed uscivano fuori a scaldarsi. Io scendevo in giardino a cercare un'erba che piace a loro, che conosco col nome di "cardella. Talvolta offrivo loro il cuore tenero di una lattuga o qualche cucchiaiata di minestra. Si mettevano in cerchio a mangiare. Le due piccoline si davano da fare più delle altre, aiutandosi con le zampette e con la bocca. Crescevano a vista d'occhio.
Al tramonto quasi tutte entravano spontaneamente nella casetta e non si muovevano più, fino a nuovo giorno.in letargo si svegliano ed escono dalla casetta di cartone.
Appena i raggi arrivavano alla loro casetta di cartone, si svegliavano ed uscivano fuori a scaldarsi. Io scendevo in giardino a cercare un'erba che piace a loro, che conosco col nome di "cardella. Talvolta offrivo loro il cuore tenero di una lattuga o qualche cucchiaiata di minestra. Si mettevano in cerchio a mangiare. Le due piccoline si davano da fare più delle altre, aiutandosi con le zampette e con la bocca. Crescevano a vista d'occhio.
La mancanza di calore sembrava paralizzarle.
Le raccoglievo tutte e sei insieme e le trasferivo al sicuro in corridoio, dove la temperatura era meno bassa rispetto all'esterno.
Mi meravigliavo nel vedere spesso i tentativi insistenti dei due maschi per accoppiarsi con le femmine, che invece si mostravano restie. A questo punto credei che non sarebbero mai cadute completamente in letargo.
Con l’abbassarsi della temperatura smisero di mangiare e si limitarono a uscire dalla casetta quando il sole le scioglieva dal torpore, ma solo per poco tempo.
Con l’arrivo dei primi tepori di marzo cominciai a pensare ad una diversa sistemazione delle mie tartarughe. Nel mio giardino non c'è recinto in muratura e quindi nessuna protezione; la bassa rete metallica serve solo per non farle fuggire, non a difenderle da eventuali ladri o animali randagi. Inoltre i pini non fanno crescere le erbe adatte alla loro alimentazione.
Invece il vicino giardino di mia madre è circondato da un muretto, sormontato da un'alta rete metallica. Lì le mie tartarughe sarebbero più protette; inoltre potrei coltivare lattughe e ortaggi, in modo che le mie care bestiole abbiano sempre cibo fresco a portata di bocca.
Il risveglio
Una domenica di marzo cominciai a lavorare nel giardino di mia madre per preparare il terreno dove costruire un nuovo recinto per le mie tartarughe.
Trascorsi altri due giorni all'aria aperta per smontare il vecchio recinto delle tartarughe e ricostruirlo nel nuovo terreno che avevo scelto. Fu una faticaccia, ma salutare. Divelsi i paletti per ripiantarli nel nuovo sito e sradicai con la falce le erbacce. Pranzai dalla mamma e continuai a lavorare anche dopo pranzo. Lasciai il lavoro a metà pomeriggio, giusto in tempo per rifare la doccia (ero zuppa di sudore e assetata) e correre in città per una faccenda da sbrigare. Prima di rincasare, comprai una quarantina di piantine di lattuga e una bustina di semi di spinaci, da mettere entro il recinto appena costruito.
Tornata a casa trovai le tartarughe tutte fuori dalla casetta a riscaldarsi ancora all'ultimo sole che lambiva la veranda. Avevano mangiato gran parte dell’erba che avevo raccolto per loro in giardino. Potevo quindi dire a metà marzo che le tartarughe si erano completamente svegliate.
L’indomani pensai che era venuto il momento di trasferirle nel nuovo sito, tranne le piccoline: temevo che il recinto non fosse ancora sicuro per loro. Poteva esserci qualche varco da cui fuggire, qualche nascondiglio tra le pietre in cui restare incastrate o capovolgersi. Le tartarughe di terra, come le mie, se si capovolgono muoiono, perché il loro scudo molto convesso le fa rimanere con le zampe in aria e, se non hanno qualche appiglio, restano capovolte fino a morire soffocate.
Adagiai entro il recinto la casetta di cartone delle tartarughe ancora addormentate, certa che il calore del sole le avrebbe svegliate, e misi le piccoline in una cassetta, per timore di perderle, se lasciate libere in un grande spazio. Sentivo quel giorno esplodere la primavera e volevo che anche le tartarughe ne godessero.
Accortami che mi era rimasta una lunga striscia di rete metallica, creai un recinto più piccolo dentro quello grande e, prima di aspettare che le bestiole si svegliassero da sole, le tirai fuori tutte quante e le lasciai libere nel recinto più piccolo. Lavorando in giardino, le avrei avuto facilmente sott'occhio. Scavai un solco lungo il recinto all'interno, concimai la terra smossa e piantai le lattughine, coprendo le radici con la terra soffice, dopo aver tolto le pietre, di cui la terra è piena. Alla fine coprii il solco con una striscia di rete per proteggere le piantine dalla voracità delle tartarughe.
Ogni tanto guardavo i miei animali, già svegli. I due piccolini si davano da fare beccando le foglioline di acetosella; il più piccolo dei maschi adulti, più sveglio di tutti, invece corteggiava una delle due femmine, più grossa di lui.
Piantate tutte le lattughe e sparsi i semi di spinaci, feci scorrere abbondantemente l'acqua nel solco e mi sedetti sull'erba per guardare le tartarughe e riposarmi. Era mezzogiorno. Lo spettacolo offertomi dalle tartarughe era incredibile. Le ultime nate sonnecchiavano seminascoste a mezz'ombra sotto alcune foglie. I due maschi adulti sembravano impazziti dalla voglia di accoppiarsi con una sola delle due femmine (quella che era stata operata). L'altra femmina camminava indisturbata, esplorando con curiosità la lunghezza del recinto.
Il corteggiamento è alquanto strano. Il maschio insegue minaccioso la femmina, urtandola a colpi di piastrone sulla parte posteriore della corazza. I colpi si sentono anche a distanza. La femmina scappa e il maschio la insegue e la spinge sgarbatamente per intimidirla.
Poi vidi entrare in azione il secondo maschio. La femmina scappava avanti e i due maschi la spingevano a colpi di piastrone. Alla fine questa cedeva (mi pareva malvolentieri) e avveniva l'accoppiamento. I due maschi, instancabili si davano il cambio. In quest'orgia mi sconcertò vedere un maschio accoppiarsi con l'altro. L'avevo visto anche l'anno scorso. “ L'omosessualità allora esiste anche negli animali? – pensai.
L'inseguimento e l'accoppiamento durò tutta la mattinata, senza pause. Ad un certo punto uno dei due maschi si accorse dell'altra femmina e partì all'attacco con lei. Ma l'attenzione per questa durò poco.
Io mi chiedevo:
- Dopo il letargo invernale, dopo il digiuno e la perdita di peso, chi dà loro così tanta energia?
Sono convinta che il Sole faccia questo miracolo.
Essendo ora di pranzo e riposatami abbastanza, lasciai le mie tartarughe alle loro orge e me ne tornai nella mia casa.
Mi auguro che nasceranno altri piccoli e si allarghi la famiglia.
Al tramonto del sole le raccolsi tutte quante nella casetta di cartone e le riportai nel corridoio della mia casa per il sonno notturno.
La mattina seguente le rimisi nel recinto. Nel pomeriggio andai a trovarle: l'atmosfera era completamente diversa, rasserenante al mio sguardo. La frenesia del giorno prima non c'era più. Alcune girovagavano pigramente entro il recinto, altre si godevano il sole.
Mia madre dice che sono animali stupidi e forse si stupisce che io perda tempo con loro.
Sparsi nel terreno alcune foglie di lattuga e tutte quante si misero a mangiare, mostrando di essere affamate.
Il bellissimo gatto della vicina, Figaro, apparve all'improvviso, fermandosi guardingo per la mia insolita presenza. Mi chiesi se fosse un pericolo per le tartarughe più piccole; ma poi scacciai questa preoccupazione, pensando che lo stesso gatto veniva nel recinto dello scorso anno a rubare la minestra o i pisellini cotti, che mettevo su un mattone per le mie bestiole. Le lasciai ai loro trastulli per tornare a riprenderle all'imbrunire. Preferivo che trascorressero la notte al sicuro, in casa. Ne trovai cinque: mancava la più piccina. Son brave le piccoline a nascondersi. Si infilano in qualche buco o si mimetizzano sotto l'erba. Strappai con le mani tutta l'erba per scoprire il terreno. Man mano cresceva l'ansia. Non c'era.
- Potrebbe averla mangiata Figaro.
- Forse no. Mancano le tracce.
- Forse ha trovato un varco in qualche parte del reticolato che non aderisce bene al terreno e si è allontanata.
Ispezionai tutto il perimetro, senza concludere nulla. Andai a prendere il rastrello per grattare il terreno. Strappai fino all'ultimo filo d'erba, rastrellai le pietre di piccole dimensioni (le grosse le avevo già tolte prima) senza capire dove fosse andata a finire.
Mi stavo rassegnando con dispiacere alla sua perdita, quando la vidi tra i denti del rastrello .
Che sollievo! Ero contenta. Si era incuneata sotto le pietre, a loro volta nascoste dall'erba.
Un pericoloso incidente
Avevo messo nel recinto piccolo un sottovaso rettangolare e riempito d'acqua in modo che potessero bere. L'altezza dell'acqua era di qualche centimetro. Il sottovaso mi pareva adatto anche per le due piccine, che non si sarebbero annegate. Stamattina, prima di uscire con la mamma, vidi due tartarughe grandi immobili nell'acqua a godersi il sole. Non restava altro spazio se le compagne avessero voluto immergersi anche loro.
Il sottovaso era troppo piccolo per tutte. Ne presi un altro, circolare, molto più grande lo collocai poco distante da quello rettangolare. Pensando che le piccine si sarebbero annegate nella vasca circolare, perché il livello dell'acqua superava la loro altezza, lo inclinai un poco in modo che in un lato l'acqua fosse bassa, adatta a loro, e nella parte opposta più alta, buona per le grandi. Tutto mi pareva a posto e ben fatto.
Nel pomeriggio, anziché scendere in giardino, preferii distendermi a letto per leggere il libro di una mia amica da poco pubblicato. Prima che tramontasse il sole, scesi nel mio giardino per raccogliere le ultime arance da un albero vicino alla casa e poi andai in quello della mamma per dare un’occhiata alle tartarughe.
Prima di varcare il cancello la mamma mi disse che una era capovolta e una piccolina stava in acqua. Io le dissi che bisognava rimetterla in piedi, altrimenti sarebbe morta soffocata. La mamma non lo sapeva e si affrettò a rimetterla in piedi.
Avvicinatami al recinto vidi la più piccina in acqua nella vasca grande e nella parte più profonda, completamente immersa. La testa era giù. Intuii che fosse annegata. La presi immediatamente in mano: non era rigida, ma non dava segni di vita.
Che scoramento! Che rabbia!
Avevo pensato che le piccine in quel punto si sarebbero annegate, ma non avevo pensato di mettere nella vasca delle pietre in modo che avrebbero avuto un appiglio per tenersi, per salirvi e tenere la testa fuori dall'acqua. Il fondo del grande sottovaso di plastica è liscio e perciò la piccina era scivolata nel punto più profondo, senza trovare qualcosa a cui aggrapparsi.
Pensai a un bambino che annega in una piscina per adulti, quando sfugge al loro controllo. E' successo qualche volta.
Mi sentivo colpevole di aver causato la sua morte. Non c'era più rimedio; pensavo che la sera avrei dato la brutta notizia a Maria Elena, che avrebbe provato lo stesso mio dispiacere.
Mentre scorrevano tali pensieri nella mia mente, tenevo la piccina a testa in giù, pressando il molle piastrone con il pollice, nell'estremo tentativo di farle uscire l'acqua dai polmoni. La pressione le fece uscire il collo e aprire la bocca da cui uscì qualche goccia d'acqua. Continuai senza speranza a premere più volte, fin quando le uscì un flebile fischio. Scorata la depositai a terra, al sole. Non sapevo quanto tempo fosse stata sott'acqua.
Pensai che sarebbe stato meglio separare le adulte dalle neonate, mettendo le prime nel recinto più grande e lasciando le due neonate in quello più piccolo.
Come prevedevo, dato uno sguardo al grande spazio in cui improvvisamente si trovarono, le adulte si diressero correndo verso il muretto fitto di piante, sotto cui scomparvero. Nel recinto piccolo erano rimaste quella annegata, immobile sotto l'ultimo raggio di sole, e la sorellina, che cercava un nascondiglio per passarvi la notte. Le presi tutte e due e le misi in una scatola di cartone in veranda per portarmele a casa. Indugiai un poco pensierosa per quanto era accaduto a causa della mia imprudenza. Ad un tratto mi parve che l'annegata avesse mosso una zampetta. Credei che fosse uno scherzo della mia vista. La presi in mano e la toccai in tutti i punti. Era appena percepibile qualche movimento delle zampe e della testa. Allora non era morta!
Ero incredula. Continuai a stimolarla e i suoi movimenti, anche se piccolissimi, si vedevano. Chiamai mia madre e gliela feci vedere. Anche lei constatò che era viva. Fu contenta più per me che per quell’esserino risorto. La rimisi nella scatola al sole e aspettai per vedere come sarebbe stata la ripresa. Nell'attesa io e mia madre iniziammo una partita a carte. Tramontato il sole, misi le due piccine in libertà sul tavolo dove giocavamo, per averle sotto controllo. Quella sana girava incuriosita attorno all'orlo del tavolo; l'altra, senza forze, stava ferma, ma ogni tanto girava la testa.
Finita la partita, me ne tornai a casa con le due tartarughine, rasserenata e contenta. Per mia colpa si era annegata, ma con il mio intuito si è salvata. Pensai di chiamarla Mosina, in ricordo di Mosè salvato dalle acque del Nilo.
Nietta
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