lunedì 9 settembre 2013

I miei racconti




 01 - Quattro bocche spalancate


Sciacca 22 maggio 2003


Stamattina la natura mi ha regalato una bella emozione. Mia madre voleva comprare le nespole ed io ho pensato invece di andare in campagna con lei a raccoglierle. Prima delle nespole ho trovato all'ingresso della campagna il gelso secolare stracarico di frutti, di cui sono ghiotta. Se li vedo dal fruttivendolo non mi invogliano, ma offerti così inaspettatamente e con tanta generosità dall’albero mi danno una sensazione di gioia: ne ho fatto una scorpacciata.
Poi è stata la volta del nespolo. Appoggiata la scala a pioli sui rami più robusti, sono salita su e mi sono accorta, nel salire, della presenza di un grosso nido. Lo vedevo dal basso e pensavo che potesse essere vuoto. Che sorpresa quando, salita ancora più su, ho visto quattro grandi bocche spalancate! 


 Non si trattava di passerotti, ma di uccelli di una certa mole: mi sembravano un po' più grandi del passero adulto, ma erano appena nati, con gli occhi chiusi e la pelle nuda. Sono stati un bel po' con la bocca spalancata ad aspettare il cibo e poi si sono acquietati. Hanno riaperto le bocche a un nuovo fruscio. Avrei voluto avere con me la macchina fotografica per fermare e conservare l'immagine. Immagini simili ormai li vediamo solo nei documentari televisivi.
Ho già terminato di mettere ordine nel mio giardino e in quello di mia madre, ma non mi sono limitata all'uso della sola falce, come avevo iniziato. La tecnologia mi ha tentato: ho comprato una falciatrice con motore a scoppio, che in poche ore ha fatto il lavoro di parecchi giorni. Però non c'è poesia. Ricordo di avere usato la falce una mattina presto. Nel tagliare l'erba sentivo il profumo dei finocchi selvatici e di altre erbe. Nel tagliare ho risparmiato gli acanti, che crescono spontanei e numerosi nel mio terreno, soprattutto lungo i bordi di un solco naturale, scavato dalle acque piovane. La falciatrice mi aiuta molto, ma mi fa sentire lo sgradevole odore della benzina.
                                                                                                   





 02 - Quattordici anni senza cielo



Sciacca 26 maggio 2003


Affacciata di buon mattino alla veranda, un quadretto lieto mi fece pensare ad un altro opposto. Tengo in giardino un grande sottovaso pieno d'acqua perché le mie quattro tartarughe possano bere e bagnarsi. La superficie tremolava. Chi muoveva l'acqua? Vidi un uccellino nero che con grande soddisfazione si faceva il bagno. Non beveva, ma si immergeva, si voltolava nell'acqua con divertimento, fin quando non volò via. Ne provai gioia, subito diventata pena per un altro uccellino che da quattordici anni non vede il cielo.
E' un canarino che un elettrauto tiene nella sua officina.
Quando porto la macchina da lui, mi rattrista lo spettacolo della gabbia che impedisce al canarino di vedere il cielo.
Chiesi una volta perché almeno la gabbia non sia tenuta all’esterno dell'officina (è già una tortura la prigionia), in modo che almeno l’infelice uccellino possa vedere il cielo.
Mi rispose che fuori il sole lo avrebbe ucciso.
Né cielo, né aria pulita, né la vista dei suoi simili: solo il puzzo dell’officina e il rumore dei motori.
L’ultima volta che entrai in quell’officina non potei fare a meno di esprimere la mia sofferenza per quella povera bestiola.
L’elettrauto mi rispose con orgoglio che, nonostante tutto, viveva da ben quattordici anni! Gli uccelli liberi sono esposti a maggiori pericoli e non vivono tanto!
Evidentemente per l’elettrauto la quantità di vita conta più della qualità.

Anch’io sono un po’ in colpa per tenere in giardino quattro tartarughe.
Anche loro sono prigioniere. Ma io cerco di ricreare il loro habitat naturale e non far loro pesare la cattività. Hanno tanto spazio, l’acqua, le pietre, il sole e l’ombra, la compagnia e il cibo quotidiano da me preparato e quello che possono avere il piacere di scovare in natura.
In giardino da qualche anno nidificano le tortorelle. Sono molto aggraziate e vivono in coppia. Alla bellezza della forma non corrisponde la voce, che è sgradevole, quasi lugubre. Invece da sempre vivono le gazze.
Anch’esse sono belle, ma rubano il cibo alle tartarughe e mi fanno disperare.
Un giorno una gazza ebbe la sfacciataggine di entrare in cucina e di avanzare fin sotto il tavolo, mentre io parlavo a telefono. Ma scappò via dopo essersi accorta della mia presenza.
Anche i gatti rubano il cibo alle tartarughe, perciò mi tocca fare la guardia.
Non voglio tralasciare le formiche che, quando tutti sono sazi, banchettano con i resti! Insomma alla fine della giornata non rimane nulla.
Sono contenta di vivere nella mia casa: non vedo la città, che è pur vicina (Il centro storico dista tre Km), c’è un po’ di campagna intorno, vedo il mare che è vicinissimo e posso andarci in estate col motorino. Il contatto diretto con la natura mi dà conforto.
                                                                                                                 




 03 - I sospiri di Padre Pio



Sciacca 29 maggio 2003

Alcuni anni or sono, d'estate, di notte dopo essermi messa a letto, nel silenzio e nel buio sentii dei sospiri dietro il muro esterno della mia camera. Ero sola, perché i miei non erano rincasati. Stetti ad ascoltare e cominciai ad avere un po' di paura. I sospiri si sentivano ancora: non era una fantasia. Preso coraggio, mi alzai e andai al balcone: non c'era nessuno intorno. Solo gli alberi e il cielo stellato. I sospiri si facevano sentire ancora più forte, capivo la provenienza: venivano da un pino sotto il balcone. Guardai attentamente, ma nessun essere vivente si vedeva intorno. Non era una allucinazione. Ritornai a letto e mi addormentai, senza la soluzione del mistero.
Spuntato il nuovo giorno, i miei figli riferirono a casa una notizia che aveva fatto il giro della città e messo in subbuglio la popolazione. Nel quartiere di San Michele, che è il più alto di Sciacca, c'è una grande piazza, al centro della quale si erge la statua di Padre Pio. Gli abitanti della piazza da alcune notti sentivano dei sospiri e non avevano dubbi: era Padre Pio che sospirava. Si gridò al miracolo. I curiosi la notte si riunivano in piazza per ascoltare i sospiri del frate. Non c'era dubbio: i sospiri che tutti sentivano non potevano essere che di Padre Pio. Si elucubrarono varie interpretazioni sul fenomeno. Dopo alcuni giorni si svelò finalmente il mistero, non solo quello di Padre Pio, ma anche il mio. Chi aveva sospirato per tanti notti? Un barbagianni!


Che peccato per i credenti! Si erano esaltati all'idea che Padre Pio avesse rivolto la sua attenzione al popolo di Sciacca. Nessuno aveva visto il barbagianni. Il mistero lo svelò un ragazzo, che abita nella mia zona, in un ex casello ferroviario, dove c'era un grosso nido con una famiglia di barbagianni. Maria Elena andò a vedere il nido vuoto. I barbagianni non si fanno vedere facilmente.
I sospiri che io avevo sentito quella notte erano dello stesso barbagianni, che da San Michele si era trasferito su uno dei miei pini. Allora appresi il nome dialettale dell'uccello notturno "Sciusciolu" (cioè che soffia). Evidentemente quelli che sembravano sospiri erano i soffi naturali della sua respirazione rumorosa.
Questa storia mi collega ad un'altra lontana nel tempo.
Io abito nella mia casa dal 1976. Sotto il balcone della cucina c'era un carrubo ultrasecolare, immenso. Il motivo per cui avevo scelto il lotto di terreno dove costruire la casa era proprio la presenza del carrubo.

Ogni notte, quando chiudevo la persiana della cucina, sentivo uno strano suono provenire dal carrubo: "Cu..cu..cu.." Indubbiamente era un uccello notturno, ma non mi sono mai curata degli uccelli notturni e non ho mai avuto la curiosità di sapere di chi fosse quel "cu.. cu.. cu.." di ogni notte. L'ho sentito per tanti anni, lo sento ancora nitido nel ricordo.
Una notte vidi come un'apparizione inaspettata un barbagianni sulla ringhiera del mio balcone. Fuggì via non appena si accorse di me. L'apparizione durò poco ma mi lasciò una forte impressione, perché non avevo mai visto da vicino un barbagianni, se non su qualche libro di zoologia.
Poi il bellissimo carrubo è stato abbattuto e con esso scomparve il "cu.. cu.." del barbagianni.
Allora la mia casa era tutt'intorno circondata dalla campagna per un lungo raggio. Ora affacciandomi vedo case e case, che tolgono spazio agli animali selvatici. Non mi capita più di vedere sbucare da un cespuglio un coniglietto selvatico, come mi accadeva nel passato. Addirittura una volta vidi il mio gatto ghermirne fulmineamente uno e portarlo ai miei piedi. Non ho più visto neanche le bisce nere. Quelle non mi fa piacere vederle. Una sola volta vidi un pipistrello entrare in casa.
Scriverò un'altra storia vera sui pipistrelli, visti a distanza di pochi centimetri pendere dalla volta della grotta della "Lisaredda".
E' stata una avventura indimenticabile.                                                                                                               


04 - I pipistrelli della grotta della Lisaredda


Sciacca 29 maggio 2003

Un giorno di parecchi anni fa mi capitò di leggere su un giornale locale un articolo riguardante la grotta della Lisaredda che si trova in territorio di Sciacca. Ne parlai in classe con i miei alunni, dando spiegazioni sulla formazione delle stalattiti e delle stalagmiti, quando una mia alunna, Gilda, candidamente mi disse che la grotta si trova sul terreno di proprietà di suo nonno. Che bella occasione! Chiesi se potevamo andare a visitarla e la risposta fu subito di sì. Dopo qualche giorno fissammo l'appuntamento per l'escursione. Io ci andai con la mia famiglia, gli zii Pasciuta e Italia. Gilda ci accompagnò nella campagna dei nonni, dove facemmo conoscenza di un giovane garzone, menomato nel fisico (mi ricordava il Ciaula di Pirandello), che conosceva bene la grotta come la sua casa e che ci avrebbe fatto da guida. Non è stato facile entrarvi in quanto l'apertura era piccola.

All'interno non filtrava la luce. Eravamo però forniti di lampadine a pila. Il momento più difficile fu il passaggio da una camera ad un'altra attraverso un passaggio così angusto che dovemmo stenderci a terra a pancia in giù e strisciare al suolo uno per volta con la fioca luce della lampadina tascabile. Entrati dentro e volto lo sguardo al soffitto basso ci apparve lo spettacolo dei pipistrelli che pendevano con la testa in giù. Non me l'aspettavo! Non ne avevo visti mai tanti! Per fortuna stavano fermi e non ci davano fastidio. Erano tutt'altro che belli, per non dire ripugnanti. Il fatto di essere noi in tanti lì dentro ci dava coraggio. In ogni caso non saremmo potuti scappare per quel passaggio angusto e buio, che per me è stato il momento più brutto dell'escursione. E se le lampade si fossero spente? Oggi non ripeterei più quella esperienza.
Mi faceva meraviglia la sicurezza della nostra guida, che i genitori tenevano relegato in campagna forse per vergogna, lontano dalla civiltà e senza istruzione.
Quella giornata è stata ricca di emozioni. Non vedemmo solo i pipistrelli, ma anche le belle stalattiti e stalagmiti, di cui conservo ancora tre frammenti.                                                                                                                         



05 - Sensi di colpa


Sciacca 21 giugno 2003

Stamattina accompagnando Maria Elena alla fermata dell'autobus alle ore 6,30, ho incontrato per strada un essere ancora vivente che mi ha tanto turbato. E' tutto il giorno che ci penso. Si tratta di un cane, o meglio di un fantasma di cane, come non mai avevo visto.
La prima volta che lo vidi fu due anni fa. Aveva ancora l'aspetto di un cane, bianco e nero, di media taglia, col pelo un po' lungo, grazioso. Mi accorsi di lui quando andai sulla strada carrabile a buttare la spazzatura in uno dei cassonetti posti lungo il bordo. Il cane frugava dentro il cassonetto (io non lo vedevo). e saltò via spaventato non appena si accorse di me.
La scena mi turbò. Pensai che aveva un padrone (lo indicava il collare) che si era stancato di lui e lo aveva lasciato chissà da quale zona nella mia contrada. Quanto cibo poteva trovare nei sacchetti della spazzatura? Per quanto tempo si sarebbe nutrito? Pensavo che avrebbe preso delle infezioni e sarebbe morto di qualche malattia.
Quel cane mi fece pena, ma poi, perdutolo di vista, non pensai più a lui.
Dopo qualche tempo il sentimento di pena si trasformò in irritazione quando vidi della spazzatura sparpagliata nel terreno intorno alla mia casa e dei sacchetti a brandelli qua e là. Erano i rifiuti della mia casa che tenevo provvisoriamente in una cesta del porticato in attesa del momento di portarli in uno dei cassonetti posti lungo la strada. Pensai che era stato il cane a rompere coi denti i sacchetti e a spargerne il contenuto nel terreno. Stizzita, dovetti scendere fuori a raccogliere la spazzatura sparpagliata qua e là e andare a buttarla nel cassonetto. Allora non provai pena per il cane affamato, ma fastidio per il lavoro che mi costringeva a fare. Come è mutevole l'animo umano! La stizza aveva cancellato la pietà.
Un giorno, dopo tanto tempo, lo vidi gironzolare sporco e dimagrito sotto il mio balcone. Pensai: "Poveretto, mi fa pena; potrei procurargli qualcosa da mangiare, magari potrei comprare il cibo secco per cani". Mi sentivo generosa in quell'attimo. Ma poi si insinuò nella mia mente una riflessione dettata dall'egoismo: "Se il cane prende una sola volta il cibo da me, si stabilirà per sempre nella mia casa. Io non voglio tenere un cane per i tanti fastidi che arreca la sua presenza. Bisogna preparargli una cuccia riparata per l'inverno. Quando piove imbratta lo spiazzo ammattonato con le zampe infangate. Se volessi partire e assentarmi parecchi giorni da casa, a chi potrei affidarlo? " Questi ed altri pensieri allontanarono da me l'idea di aiutare lo sventurato animale.
Non vedendolo più, la sua esistenza svanì dai miei pensieri. Nella primavera dello scorso anno, in una delle consuete passeggiate campestri del sabato o della domenica, lo rividi vicino alla spiaggia di Sovareto: Si reggeva a stento in piedi, seminascosto nell'erba alta. "Forse si prepara a morire” dissi ad alta voce a mio zio e a Italia, consueti compagni di passeggiate, dopo aver raccontato brevemente la storia del cane. ”Mi sento in colpa per non avergli offerto un tozzo di pane le poche volte che avrei potuto farlo. Ormai è troppo tardi e non si può far nulla. Fra qualche giorno morirà e finirà di soffrire”.
Un mattino d'inverno, dopo una notte fredda e piovosa, rividi il cane addormentato nella nuda terra vicino al mio cancello. Abituato a scappare davanti all'uomo, stavolta non ne ebbe la forza. Io passavo con la macchina e abbassai il vetro del finestrino per chiamarlo con voce calma per non spaventarlo. Era bagnato e sembrava più ischeletrito. Tentò di alzarsi per scappare, ma non ce la fece e ricadde giù. Ero meravigliata che fosse ancora vivo. Avrei giurato che era andato a morire sulla spiaggia e invece eccolo lì. Ma si poteva dire vivo? Era più morto che vivo. A retromarcia tornai a casa a prendere la scatola dei croccantini secchi che tengo in serbo per i gatti e mi avvicinai al cane. Ne posai una manciata vicino a lui e mi allontanai di qualche passo per fargli prendere coraggio. Il cane allungò la testa verso il cibo, e poiché la bocca non arrivava a prenderlo fece qualche tentativo di alzarsi in piedi e rinunziò al pasto. Dopo un po' proseguii per la mia strada delusa. Al ritorno il cane non c'era più e neanche il cibo. Ma forse il cibo lo avevano mangiato i gatti, che sono più svelti di lui. Parlai del cane con il sig. Luigi, mio vicino di casa. Anche lui lo conosceva. In sua assenza il cane dormiva vicino al pollaio o alla conigliera e scappava via quando il vicino si aggirava intorno alla sua casa.

Ero convinta che dopo quella volta non avrei più rivisto il cane. Sono passati due anni e stamattina presto mi è apparso il suo fantasma. Sì, perché non si poteva chiamare cane, né essere vivente. Sembrava un cane in avanzato stato di putrefazione, tenuto in piedi artificiosamente. Era fermo vicino al cassonetto dei rifiuti. Avrei voluto avere con me la macchina fotografica per ritrarlo e mandare la sua immagine orribile al W.W.F. Oppure alla televisione locale perché l’indegno suo ex padrone, vedendolo provasse vergogna o almeno un po’ di rimorso. Dalla pancia al dorso aveva perso il pelo e mostrava tutte le costole, gli occhi non avevano sguardo; il corpo era sgangherato e deforme. Sotto la coda pendeva la pelle flaccida, informe. Perché era ancora vivo-non vivo? Non era morto perché stava in piedi. Se lo avessi trovato disteso mi sarebbe sembrato morto da tanto tempo. Corsi a casa a prendere non il cibo, ché a nulla sarebbe servito, ma la macchina fotografica, per fissare quell’immagine come documento del male che fa l’uomo civile.
Ritornai nel posto dove lo avevo visto fermo, ma non ve lo trovai più. Percorsi la strada la strada un po’ avanti e indietro e ritornai a casa sconcertata per quello che avevano visto i miei occhi. Accesa la televisione per il Tg del mattino, sentii tra le altre notizie che con l'arrivo dell'estate è iniziato l'abbandono dei cani da parte dei vacanzieri e che è stata proposta una legge che punisca severamente, anche con il carcere, gli indegni padroni degli animali abbandonati …
Io intanto, punta da sensi di colpa, continuo a pensare con amarezza al cane, bianco e nero,tanto grazioso di due anni fa, che ora è diventato una poltiglia informe senza colore.                                                                                                                    





06 -Quando morirà Rossini?


Sciacca 23 giugno 2003
         15 novembre 2009


Ecco un’altra storia vera, ma non ancora conclusa.

Prima parte

Alcuni anni or sono, nel silenzio della notte tutti a letto, prima di prendere sonno sentimmo il miagolio incessante di un gattino provenire da fuori. Da alcuni anni non avevamo gatti in casa, né desideravamo allevarne per i danni che arrecano alle cose. Le poltrone di pelle graffiate, le coperte di lana danneggiate e qualche strappo ai lenzuoli, ecc. ne sono ancora un ricordo. Morta l’ultima gatta all’età di tredici anni, avevo deciso che nessun gatto sarebbe entrato nella mia casa.
Sentimmo quel miagolio notturno fino a quando non ci addormentammo. L’indomani, al risveglio, risentimmo il miagolio. Giovanni, che ora non è più tra i vivi, fu il primo ad uscire di casa e lo vide. Ci chiamò per mostrarci la bestiola che aveva pianto tutta la notte. Era una gattina nera di alcuni mesi che si era allontanata dalla sua mamma e non aveva saputo trovare la via del ritorno. Scendemmo tutti giù per vederla. Che tenerezza! Era mite e desiderosa di coccole. Se qualcuno di noi le tendeva una mano, con un saltino lei la raggiungeva per toccarla e farsi lisciare. Giovanni era molto tenero con i gatti e manifestò il desiderio di volerla tenere con noi. Anche a me faceva tenerezza, come tutti i cuccioli, ma non volevo avere più a che fare con i gatti. Arrivammo ad un accordo: avremmo tenuto la gattina all’aperto. Avrebbe dormito nel porticato della casa e scorazzato liberamente nel terreno non recintato che circonda la casa. Anche mia madre, che abita in una villetta di fronte alla mia, accettò il nuovo ospite, non per tenerezza, ma per tornaconto. Mia madre abita in un piano rialzato e teme che i topi possano entrare in casa. La gattina, crescendo, li avrebbe tenuti lontani. Lei anzi si assunse il compito di provvedere al suo nutrimento quotidiano.
Così la bestiola, che fu chiamata Nerina per il colore uniforme del suo pelo, rimase con noi e non pensò di cercare la sua mamma e i suoi fratellini. Era molto affettuosa e destava curiosità il modo di cercare le nostre mani per farsi accarezzare. Come il primo giorno, bastava tendere a distanza una mano verso di lei per vederle spiccare un salto per toccarla. La mano allora si abbassava sulla sua testa e la lisciava ripetutamente. Per farla saltare più in alto tenevamo la mano più lontano. Lo fa ancora oggi.
Dopo alcuni giorni sulla spiaggia di Sovareto incontrai la signora Lina con sua figlia Enza, che abitano in una villetta distante alcune centinaia di metri dalla nostra (anche la spiaggia è vicina). Tra le varie chiacchiere vacanziere divagai sulla gattina nera, che era diventata nostra ospite. Enza disse con sollievo che Nerina apparteneva ad una cucciolata della sua gatta, pure nera come tutti i cuccioli, che l’aveva cercata nei dintorni per alcuni giorni e che si era dispiaciuta di non averla ritrovata. Le promisi che le avrei restituito il cucciolo nella stessa giornata. Dopo qualche esitazione Enza, rassicurata che l’animale stava bene con noi, mi disse che potevo tenerlo.
Dopo qualche settimana, per uno strano gioco del destino, un altro cucciolo capitò nella nostra casa. Giovanni si era recato come ogni mattina nel suo studio legale, nel centro storico della città. Parcheggiava l’auto nella vicina piazzetta Farina da dove la rimuoveva per tornare a casa all’ora di pranzo. Io mi ero attardata nel porticato in attesa che egli rincasasse. Fermata l’auto all’ombra dell’ampio porticato, vedemmo guizzare da sotto un gattino rosso spaventatissimo. Si allontanò di qualche metro da noi e si mise a piangere guardandosi intorno smarrito. Si era nascosto all’interno del motore, saltandovi da sotto l’auto, e vi era rimasto intrappolato fino a quando l’auto non fu giunta a casa nostra.
La curiosa faccenda ci sembrò facile da risolvere: bisognava riportare il gattino nella piazzetta Farina, dove avrebbe ritrovato la sua mamma e i fratellini. Ma la cosa non andò così. A differenza di Nerina, il nuovo arrivato era selvatico e non si faceva avvicinare. Al mio tentativo di prenderlo si aggrappò con le unghie a un tronco di ulivo e si mise in salvo su un ramo. Più tentavo di avvicinarmi a lui e più in alto saliva fino ad arrivare all’ultimo ramo. E ve lo lasciammo, dovendo noi rientrare a casa per il pranzo. Prima o poi avrebbe preso confidenza e saremmo riusciti a prenderlo. Era un maschio della stessa taglia di Nerina. Nei giorni seguenti si ripeterono inutilmente i tentativi per prenderlo. Il gattino mangiava di nascosto nella ciotola di Nerina e così decidemmo di tenere anche lui. Ignazio, mio figlio lo chiamò “Rossini” per il colore del suo mantello.
Nerina e Rossini familiarizzarono presto. Giocavano insieme, dormivano abbracciati, creando un piacevole contrasto di colori (il rosso e il nero), si leccavano vicendevolmente. Mentre Nerina cercava la compagnia umana, Rossini al contrario la schivava. Raggiunta l’età adulta, Nerina rimase di taglia piccola, mentre Rossini era diventato un bel gattone dal pelo morbido e lucido. Durò una sola stagione la bellezza e la felicità di Rossini.

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I guai cominciarono quando iniziò il periodo del calore. Nerina, l’unica femmina dei dintorni, attirò tre grossi maschi: uno bianco con la coda macchiata di nero, il secondo bianco a chiazze nere, il terzo nero a chiazze bianche.

Che brutti ceffi! Sporchi e agguerriti iniziarono la battaglia per conquistare Nerina. Nel silenzio della notte si sentivano gli urli di terrore o di difesa. Le battaglie si ripetevano anche di giorno. Io non me ne curavo, fin quando un mattino vidi Rossini conciato male. Aveva uno squarcio nella pelle sotto la gola e una zampa ferita e zoppicante. Mia madre lavò il pavimento della sua veranda, dove c’erano macchie di sangue.


Eravamo tutte e due dispiaciute che il nostro Rossini non si fosse fatto valere e le avesse buscate. Terminate le battaglie, i tre brutti ceffi sparirono, Rossini si curò le ferite e tornò a rifiorire come prima e a giocare con Nerina come fratello e sorella.

Dalla prima battaglia sono passati parecchi anni. Come ogni anno ritornano le stagioni, così le battaglie si ripetono più volte l’anno con le immancabili sconfitte di Rossini, che non si riconosce più. E’ dimagrito, spelacchiato e coperto di cicatrici. Tra una battaglia el’altra non ce la fa a riprendersi. Vive nel terrore. Dei tre brutti ceffi quest’anno è rimasto solo quello nero a chiazze bianche che pare si sia fermato stabilmente nel nostro terreno. Rossini è l’ultimo a mangiare nella ciotola comune i resti lasciati da Nerina e dal Ceffo (ormai lo chiamo così).
Io mi sono presa a cuore la sorte del gatto rosso. Vorrei intervenire per difenderlo, ma non so come fare. Il Ceffo pare che abbia giurato a se stesso di ucciderlo. Calore o non, le battaglie continuano in qualsiasi tempo. Talvolta mi capita di assistere da vicino alla lotta e fremo nella difesa del povero imbelle. Quando mi capitano a tiro apro improvvisamente il rubinetto a cui è attaccato un tubo flessibile e scaglio contro di loro un getto di acqua a pressione per dividere i lottatori che fuggono via. Ma la tregua dura fino a quando io non mi allontano.
Rossini si mette a gridare ogni volta che vede il Ceffo, anche a distanza. Fugge su un albero, ma il nemico lo raggiunge lo stesso. Vorrei trovare una soluzione, che però mi sfugge. Se Rossini morisse al più presto, finirebbe la tortura e ne proverei sollievo. Se morisse il Ceffo non si risolverebbe niente, perché un altro verrebbe a prendere il suo posto e la lotta continuerebbe come prima. Se non ci fosse la femmina Nerina non ci sarebbe lotta e Rossini vivrebbe in pace.
Mia madre, che ascolta le mie apprensioni, mi dice: “Non c’è niente da fare. Lasciamo ai gatti risolvere i loro problemi secondo le leggi di Madre Natura. E’ Lei che ha creato i deboli e i forti e noi umani non possiamo lottare contro le leggi della Natura. Non ha colpa il Ceffo se è più forte e vince; non ha colpa Rossini se è stato creato debole e soccombe e soccomberà sempre fino alla morte.
Mi convinco che mia madre ha ragione e allora mi chiedo: “Quando morirà Rossini?”


Seconda parte

Un giorno affiorò all’improvviso nella mia memoria l’immagine di un gatto, morto da tempo, con un collarino di cuoio irto di chiodi. Glielo aveva messo la sua padrona per proteggerlo dai suoi simili più grandi di lui e prepotenti. Perché non fare la stessa cosa con Rossini? Se ci avessi pensato prima, quante ferite gli avrei evitato!


Senza por tempo in mezzo, presi un cinturino di cuoio dal ripostiglio e vi piantai dei chiodi di acciaio a distanza di un paio di centimetri l’uno dall’altro. Con l’aiuto di Maria Elena, che con pazienza attirò il gatto con i croccantini e con la voce suadente, immobilizzammo il gatto afferrandolo per la nuca e gli affibbiammo il collarino. Pensammo che il Ceffo al primo assalto si sarebbe trovato i chiodi tra i denti e non avrebbe più tentato di molestare la sua vittima. Il collarino chiodato mi sembrò l’uovo di Colombo! Il Ceffo si sarebbe arreso all’intelligenza superiore dell’uomo.
Ora aspettavo il risultato. E il risultato non si fece attendere. Gocce di sangue sul pavimento della veranda mi fecero immaginare il Ceffo con la bocca sfregiata. Invece apparve Rossini zoppicante, la zampa sinistra lacerata e gonfia. Che delusione! Che rabbia per aver sopravvalutato la mia intelligenza e sottovalutato quella del Ceffo! Certamente questo avrà trovato il modo di evitare i chiodi e di colpire alla zampa. Mi vergognavo di aver pensato che avevo risolto il problema della salvezza di Rossini.

Una mattina d’estate incontrai sulla spiaggia la signora Rosaria, che abita in una villetta di Sovareto a un centinaio di metri da casa mia. Mi disse che un gatto rosso stazionava spesso entro le mura del suo giardino. Volendo tenerselo, gli faceva trovare una ciotola di cibo, che il gatto gradiva. Da alcuni giorni però non si faceva vedere nella sua villetta, perciò mi chiese se io lo avessi visto.
Dalla descrizione capii che era Rossini e dissi alla signora che il gatto apparteneva a noi e che mia madre provvedeva alla sua alimentazione. Rimase delusa, ma accettò la situazione, pensando che si sarebbe procurata un altro gatto.
Io invece pensai che Rossini si sarebbe salvato dalle grinfie del Ceffo se si fosse persuaso a rimanere presso la casa della signora Rosaria. Ma come fare a persuaderlo?


 Quando vidi con raccapriccio un profondo e lungo squarcio sotto la gola pensai che stavolta non sarebbe sopravvissuto. Lo pensarono anche mia madre e Maria Elena. Se Fosse stato mansueto lo avremmo preso e portato dal veterinario, Solo Maria Elena riusciva ad attirarlo a sé per qualche minuto, ma era impossibile trattenerlo di più. Sarebbe sopravvenuta un’infezione e poi la morte. Col passare dei giorni la ferita si asciugava, ma i lembi restavano distanti oltre un centimetro. Un gonfiore enorme comparso dopo alcuni giorni rese necessario togliere il collarino che lo avrebbe soffocato. Fu di nuovo Maria Elena ad attirarlo e ad immobilizzarlo per qualche secondo, mentre io svelta sganciai il collarino. Rossini terrorizzato scappò via e per parecchio tempo evitò di farsi vedere da noi.
Contro le nostre previsioni Rossini sopravvisse. La ferita sotto la gola lentamente si asciugò e cicatrizzò. Era diventato un brutto gatto. Anche il Ceffo era brutto; anche lui aveva qualche sfregio procuratosi nelle battaglie, ma era sempre vincente e dominatore.

Dovendo io e Maria Elena partire per il Messico nel mese di ottobre, la mamma, che ha quasi ottantacinque anni, si sarebbe trasferita a Siracusa da mio fratello. Occorreva che qualcuno si prendesse cura dell’alimenazione di Nerina e di Rossini. Una mia cugina si offrì volontariamente di venire una volta al giorno a casa nostra a versare i croccantini nella ciotola e così partimmo tranquille.
Tornate a Sciacca, dopo il viaggio in Messico, trovammo Nerina, felice di rivederci e desiderosa di coccole. Di Rossini nessuna traccia. Davanti alla ciotola del cibo si vedevano solo Nerina e il Ceffo. Io pensai che Rossini, non vedendoci più, si fosse trasferito nella vicina villetta della signora Rosaria e che in fondo la nostra assenza era stata per lui la sua salvezza. Il Ceffo aveva vinto la sua battaglia: mancando Rossini rimaneva lui solo padrone del territorio e dominatore. Nerina però non dormiva abbracciata con lui, come faceva con Rossini. Se ne restava sempre in disparte e malinconica.
Nel mese successivo, rincasando, trovai una sorpresa: sdraiato sul muretto del porticato vidi Rossini. Era ben nutrito, florido, rimesso su. Lo chiamai, mi riconobbe, ma non si lasciò avvicinare, come sempre.
Perché era tornato? Speravo per il suo bene che se ne andasse per sempre. Se ne andò e per tanti giorni non lo vedemmo più. Ma la nostalgia della nostra casa o ancor più di Nerina lo ha sopraffatto. Ora vive con noi, dorme abbracciato con Nerina, quando il Ceffo è assente.
Stamattina ho visto una nuova ferita sopra l’occhio sinistro. Forse si è abituato alle botte e anche noi ci siamo rassegnati.


Terza parte

Sciacca 23 aprile 2009

Da oggi sono passati quasi sei anni.
Il Ceffo non si vede più da parecchi anni.
Nerina è scomparsa l'anno scorso.
Rossini è rimasto solo, ma è sempre malconcio.


 
Ecco come si presenta Rossini oggi 23 aprile 2009


Morte di Rossini

Trovato morto nello scantinato domenica 15 novembre 2009.
Ora mi chiedo: come è morto Rossini?
                                                                                                          




7- Due uova di colomba

Sciacca 25 giugno 2003


La signora Caterina con il marito, entrambi pensionati, in estate si stabiliscono nella loro villetta a Sovareto, vicino alla mia e vicino alla spiaggia, dove ogni mattina vanno a fare il bagno. Sono due brave persone.
Ieri mattina Caterina è dovuta andare nella sua casa di città ed è tornata a suo dire con una “sorpresa”. Mi disse di aver trovato in un vaso del balcone, in cui è piantato un gelsomino, due uova di colomba. Come se avesse trovato un tesoro raro, le ha prese e le ha portate a Sovareto per farle vedere come una curiosità alla sua nipotina di sei anni e a me. Era una curiosità per lei in quanto in vita sua aveva visto solo uova di gallina. Era certa che quelle due uova fossero di colomba perché aveva visto una bella colomba bianca che si aggirava sul balcone intorno al vaso.
“E ora che tua nipote ed io le abbiamo viste – le dissi – riportale nel vaso da dove le hai prese. La colomba sta soffrendo per la loro perdita”
“Cosa vuoi che me ne importi?” fu la risposta.
Uno delle due uova le era scappato di mano e si era lesionato, quindi era rovinato. Non valeva la pena scomodarsi per ritornare in città a restituire l’uovo sano alla colomba.
Io dissi che anche gli animali hanno un’anima. “Soffrono e gioiscono, né più né meno di noi. La loro anima non è razionale, come la nostra, è solo istintiva, ma è pur sempre un’anima, e la colomba sta soffrendo perché hai distrutto ciò che stava costruendo seguendo l’istinto della Natura”.
Mia madre, che era presente e si era accorta che Caterina c’era rimasta male per la mia disapprovazione, spostò il discorso sui gravi problemi che affliggono l’umanità dicendo che la sofferenza della colomba non conta niente rispetto alle sofferenze dei bambini brasiliani, che vivono per strada e muoiono di fame, o di quelli africani, dove la siccità li fa morire per denutrizione. Feci morire il discorso, perché mi sembrava inutile continuare. Le avrei detto che invece di spostare le uova dal nido, avrebbe potuto  accompagnare  la sua  nipotina  nella casa di città e  fargliele vedere  nel  posto dove

mamma colomba le aveva deposte. Magari allontanandosi dal balcone la bambina avrebbe visto mamma colomba posarsi sulle uova per covarle e così avrebbe assimilato dal vivo una bella lezione dalla Natura. Ha imparato invece che chiunque può strappare le uova dal nido, che all’uomo è permesso tutto e che gli animali non valgono niente. Da grande anche lei farebbe ciò che ha fatto la nonna.
Ma non le dissi niente per non far pesare le mie parole come un rimprovero. Visto che le due uova non servivano più a niente gliele chiesi per cuocerle e darle in pasto alle tartarughe che tengo in giardino. Le sgusciai a malincuore, pensando  che quelle due uova  sarebbero potute 
diventare due belle colombe bianche.

                                                                                                                             

 

 

8- Uno straordinario ospite a tavola 

 

Sciacca 27 giugno 2003 Aggiungi immagine
Stamattina sono uscita di buon’ora per andare alla Posta a pagare l’I.C.I. Uscita di casa tre passerotti saltellavano nella stradella e spiccarono il volo spaventati al rumore dei miei passi. Quell’immagine illuminò improvvisamente come un flash un ricordo molto lontano nel tempo, legato all’età dell’infanzia.
Abitavo a Ribera in una vecchia casa di via dei Gracchi al primo e secondo piano. D’estate tenevamo i balconi aperti per ventilare le stanze. Una mattina entrò nella stanza da pranzo, dal balcone aperto, un passerottino al suo primo volo. Io chiusi subito il balcone per lasciare che l’uccellino stesse un poco in casa per poterlo vedere da vicino ed anche per evitare che, incerto com’era nel volo, finisse in bocca ad un gatto di strada. Il passerotto non aveva paura. Si guardava intorno e di tanto in tanto saltava da un mobile all’altro, come per volersi esercitare. Io ero tutta presa da quella presenza. Non avevo nulla da fare e quell’uccellino esercitava in me un interesse nuovo. All’ora di pranzo la mamma invitò tutti quanti (eravamo in quattro) a sedere a tavola. Momentaneamente incuranti dell’uccellino, cominciammo a mangiare gli spaghetti. All’improvviso il passerotto saltò sulla tavola, calamitando la nostra attenzione. Trattenemmo il respiro per non spaventarlo. Egli si avvicinò a un piatto, afferrò col becco uno spaghetto e se lo trascinò fermandosi sull’orlo della tavola per mangiarselo in disparte. Lo mangiò tutto con tranquillità e soddisfazione. Noi eravamo stupefatti per la scena. Che ospite straordinario alla nostra tavola!

Quella non fu l’unica volta. Il passerotto a pranzo e a cena stava a mangiare alla nostra tavola senza alcun timore. Intanto le ali si irrobustivano. Dopo alcuni giorni pensammo che ormai potevamo tenere il balcone aperto e dargli la possibilità di volare via.
Il passerotto volò via, posandosi sul tetto della casa di fronte. “Che peccato – pensai – Ora si confonderà cogli altri uccelli e non lo rivedrò mai più”.
Il passerotto rimaneva ancora sul tetto e non osava spiccare il volo verso l’alto. Battei ripetutamente le mani e con mia grande sorpresa l’uccellino tornò al nostro balcone e poi rientrò a casa. Rimase a vivere ancora con noi per un’altra settimana circa. Tenevamo il balcone aperto e l’uccellino volava ogni giorno sullo stesso tetto e ritornava. A pranzo e a cena saltellava sulla nostra tavola e si serviva da solo dai nostri piatti, mangiando in disparte sull’orlo. Ci eravamo convinti che gli piaceva stare nella nostra casa e non sarebbe andato più via.
Un giorno però, dopo aver pranzato alla nostra tavola, volò come al solito sul tetto di fronte. Come al solito lo richiamai battendo le mani. Esitava. In alto passerotti adulti volavano e lui volgeva il capino ora a me ora ai suoi simili. Capii che stava facendo una scelta. Battei ancora le mani per attirarlo a me; gli altri miei familiari si affacciarono al balcone per ripetere il richiamo. Il passerotto spiccò il volo nel cielo, si confuse con gli altri e non lo vedemmo più.
                                                                                                                                                       
 

 

 

9 - Un albero creduto estinto

Sciacca 30 giugno 2003

Da quando Giovanni non è più tra i vivi spesso penso ad un albero di cui mi aveva più volte parlato, perché legato ai bei ricordi della sua infanzia. Io non gli prestavo tanta attenzione quando qualche volta me ne parlava e non gli facevo domande su quell’albero per me sconosciuto e inesistente, che era stato abbattuto non so per quale motivo. Forse me l’aveva detto il motivo, ma io non ne ero incuriosita. Ricordo che lo chiamava “caccamo”. Me lo diceva quando andavamo in campagna a Raganella a raccogliere le arance. Passando dietro la casa, a circa dieci metri, mi indicava il punto in cui si ergeva maestoso il “caccamo”. Io saprei trovare pressappoco il punto e ora mi cruccio perché non avevo ascoltato abbastanza e non gli avevo chiesto nulla dell’albero che non ho mai visto, che non mi ha mai interessato e che ora invece mi interessa. Mi interessa non come a un botanico, ma sentimentalmente, perché appartiene a un bel ricordo d’infanzia di una persona che mi manca tanto e che è sempre presente nella mia mente. Mi diceva che durante la guerra si era trasferito con la famiglia nella vecchia casa rurale di Raganella. Ora al suo posto ce n’è una nuova, che abbiamo costruito insieme. Atre famiglie si erano trasferite nelle vicinanze e Giovanni bambino giocava con i coetanei con la fionda o con la cerbottana, scagliandosi l’un contro l’altro i noccioli del “caccamo”. Diceva che l’albero era molto grande e i frutti molto piccoli e rotondi.
Questo è tutto quello che ricordo di ciò che aveva detto.
Ho cercato sul vocabolario e su una enciclopedia universale il termine “caccamo” e non ve l’ho trovato. Forse il termine è dialettale. Ho chiesto inutilmente a qualcuno se conoscesse un albero chiamato “caccamo”. Forse dovrei rivolgermi ai vecchi contadini, dato che le persone della mia età non lo conoscono. Forse il figlio del contadino che coltivava la terra di Raganella, e che è morto da parecchi anni, potrebbe saperlo.
Mi convinco che questa specie di albero sia estinta. I frutti non li ho mai visti sui banchi dei fruttivendoli.

Il pensiero del “caccamo” estinto mi fa pensare ad altri alberi che esistono ancor oggi, ma che sembrano destinati ad estinguersi: gli azzeruoli, i melograni, i gelsi. A Sovareto, nel terreno che circonda la mia casa, dove vivo stabilmente, ci sono tra gli ulivi due vecchi alberi di “azzeruolo”.
In periodo invernale non li distinguo mai perché non hanno le foglie e i nudi rami scuri si mimetizzano dietro la chioma sempreverde degli ulivi. Ogni anno, in un giorno di primavera, aprendo il balcone della cucina, appena alzata dal letto, mi appare lo spettacolo inaspettato di una grande chioma bianca che supera quella degli ulivi.
Lo stupore suscitato dallo spettacolo deriva dal fatto che a primavera mi accorgo dei mutamenti della natura guardando tutte le altre piante, ma non mi viene in mente di avvicinarmi agli azzeruoli per vederne le gemme o i fiori pronti a sbocciare.
L’azzeruolo si nasconde per tutto l’inverno alla mia vista, non vedo spuntare le gemme perché i rami sono alti e quando l’albero fiorisce mi appare all’improvviso in una mattina di primavera, quando apro le persiane della cucina. Vedo un solo albero; l’altro è più distante e seminascosto da un pino. I fiori sono bianchi e piccoli come quelli del mandorlo, che fiorisce prima.


 Ho letto sull’enciclopedia che sono profumati. Io non lo sapevo: i rami sono alti e il naso non arriva a loro. Ma la curiosità può essere soddisfatta appoggiando una scala a pioli sull’albero e salendo ia alto, cosa che mi prometto di fare la prossima primavera.
Abito a Sovareto da ventisette anni e ogni primavera il mio stupore si ripete. Vorrei vedere prima spuntare le gemme ed aspettarmi la fioritura. Finora non è accaduto: la fioritura dell’albero dimenticato appare sempre inaspettatamente.
I fiori durano parecchio tempo; quando non si vedono più, spuntano le foglie che formano una bella chioma verde chiara che spicca tra gli ulivi.
Nella tarda estate appaiono i frutti di colore rosso scuro. Sembrano mele in miniatura.
Quando maturano, cadono dall’albero formando a terra un tappeto rosso. Qualche volta ne raccolgo un po’ da terra, perché senza una scala non arrivo ai rami.
Le azzeruole sono più belle da vedere che a mangiarle. Sarebbero buone e invitanti se in inverno il cielo fosse generoso di pioggia. Invece la siccità aumenta di anno in anno e lo spessore della polpa, dolce e asprigna, si riduce fino a qualche millimetro. Così nessuno le raccoglie e restano a marcire a terra.
La mia vicina ha un alberello giovane di azzeruolo, le cui radici affondano in un vallone, che raccoglie le acque piovane che scorrono dal terreno soprastante in declivio. I frutti di quell’alberello sono più grossi e la polpa diù spessa e saporita. Parecchie volte mi ha invitato a mangiarli.
Ricordo che nel mio terreno c’era un altro azzeruolo dai frutti di color giallo chiaro. E’ stato estirpato perché troppo vecchio e secco.
Nessuno pianta più azzeruoli e frutti non ne ho mai visti sui banchi dei fruttivendoli. Quando moriranno gli alberi vecchi non se ne vedranno più e le future generazioni non sapranno che albero è l’azzeruolo, come io oggi non so com’era un “caccamo”.
La stessa cosa avverrà del melograno, che è anche un bellissimo albero ornamentale per il verde smagliante delle foglie, per il rosso vivo dei fiori e per la bellezza dei suoi frutti. Esiste un vecchio melograno a Raganella da cui ho staccato alcuni virgulti per farne talee. Due di esse hanno messo le radici e sono diventate alberelli, che ho piantato con mia grande gioia nel giardinetto di mia madre. Da qualche anno uno dei due ha cominciato a regalarci i suoi saporiti frutti.
Che dire dei gelsi? Raramente se ne vedono al mercato. Anni fa piantai un alberello nel mio giardino, che vorrei veder crescere e fruttificare. I suoi frutti sono scarsi e cadono a terra prima di arrivare alla maturazione. Colpa della siccità.
Sono per questo amareggiata. Amo tutti gli alberi del mio giardino: vecchi ulivi, aranci, mandarini, un bergamotto, un nespolo, oltre agli azzeruoli. Tutti soffrono la sete e stanno diventando sterili. Alcuni sono morti negli anni passati e quest’anno ho pregato il mio vicino Luigi di sradicarli col suo trattore. Ridotti in piccoli pezzi, li ho bruciati. Solo un arancio è rimasto disteso sul terreno come uno scheletro, con le radici in aria. Non sono riuscita a tagliarlo a pezzi per bruciarlo e mi fa pena vederlo. Quando si allenterà la morsa del caldo pregherò Luigi di tagliarlo con la sua motosega.
Ho una grande cisterna di acqua potabile, ma non posso usarla per salvare tutte le piante. L’acqua viene erogata dal Comune con parsimonia e non tutti i giorni. Potrei salvare qualche albero, ma non potrei sceglierne uno perché li amo tutti ugualmente. Così ho deciso di abbandonarli al loro destino.

Non ho pensato più al "caccamo" di Giovanni, rassagnata a non conoscerne il vero nome, quando dopo cinque anni, l'estate scorsa, inaspettatamente, ho scoperto il nome dell'albero che credevo estinto.
Mi trovavo con un numeroso gruppo di amici a Siracusa per assistere alle rappresentazioni classiche nel Teatro Antico. Durante una escursione alla Necropoli rupestre di Pantalica, in provincia di Siracusa, ci soffermammo all'ombra di un albero a riposarci, quando uno del gruppo, appassionato di botanica, ci indicò i piccoli frutti rotondi, dicendo che da bambino si divertiva con i coetanei a lanciare i noccioli con la cerbottana. Pensai all'albero di "caccamo" di cui mi parlava Giovanni e chiesi come si chiammasse. Mi rispose : - "Bergolaro o spaccasassi".



Foto del bagolaro di Pantalica

 Finalmente! Quel nome si era pronunciato inaspettatamente, senza che io lo cercassi più.
Guardai attentamente l'albero che avevo davanti e scattai alcune foto.
Non era maestoso come quello di cui mi aveva parlato Giovanni, ma piccolo perché giovane, e ricco di piccole bacche verdi, ancora acerbe, che diventano scure con la maturazione all'inizio dell'autunno.


Rami di un bagolaro di Pantalica con le  piccole bacche verdi ancora acerbe


 Frutti maturi

Ho saputo che è molto longevo e riesce a vivere anche due o tre secoli. Vive in ambienti aridi, su terreni calcarei, sassosi, dove l'apparato radicale, robusto e assai sviluppato, penetra nelle fessure delle rocce favorendone lo sgretolamento: da ciò deriva un altro nome volgare, "spaccasassi".
Ho saputo anche che il bagolaro viene chiamato anche "albero dei rosari" perché i suoi semi erano utilizzati per costruire il rosario.

Tornata a Sciacca ho rivisto l'albero nelle fotografie scattate a Pantalica e non mi è ancora capitato di vederne uno nella zona di Sciacca.


P.s. 23 ottobre 2013
Un anonimo lettore toscano mi ha informato che nella zona vecchia di San Gimignano c’è un imponete albero di bagolaro tra i più belli d’Italia (foto sotto)
     

 





                                                                                                                             



  12 - L’uva di Nietta

Sciacca 18 agosto 2003, lunedì.

Tanti anni fa i miei genitori avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno a Verdura, in riva al mare, per costruirvi una casetta e dare a noi, figli e nipotini, la possibilità di riunirci tutti insieme in estate a villeggiare.
Il proprietario terriero aveva loro venduto, a un prezzo conveniente, la striscia in riva al mare perché poco produttiva. Tutto il suo terreno era coltivato a vigneto e uliveto, anche la striscia a noi venduta; ma questa era danneggiata dall’acqua del mare, che entrando durante le mareggiate, lasciava la salsedine. Lungo il confine ovest correva un condotto di acqua che gli agricoltori della zona usavano per irrigare le colture. Nel terreno di mio padre c’era qualche ulivo, parecchie canne lungo il condotto e un solo filare di viti. Ma l’uva che pendeva polverosa dalle piante era da mosto, non buona da portare a tavola. Mio padre disse che l’avrebbe estirpato per creare spazio alla coltivazione di ortaggi. Mio padre aveva anche fatto costruire un pozzo e acqua ce n’era in abbondanza: un orticello sarebbe stato utile per uso della famiglia.
L’idea di estirpare le viti mi dispiacque. Dissi a mio padre:
- Perché non tentiamo di innestarvi l’uva da tavola ?
- Non vale la pena chiamare un innestatore per così poco.
- Lascia che tenti io. Ho imparato a innestare le rose. Imparerò a innestare le viti.
Mio padre fece ripulire il terreno dalle erbacce e dalle canne e lasciò il filare al suo posto.
Mi rivolsi a Luigi, mio vicino di casa, agricoltore, il quale mi spiegò che la vite si innesta in modo diverso da come io avevo imparato con le rose e me ne diede una dimostrazione con un ramoscello. Io provai davanti a lui a incidere un rametto, a staccare una gemma da un altro rametto e a incastrarla nella incisione. Provai la legatura con un filo di rafia e ringraziai Luigi della preziosa lezione. L’indomani Luigi mi portò dal suo vigneto alcune marze avvolte in una pezza bagnata. Corsi a Verdura con un coltellino affilato e un gomitolo di rafia e iniziai l’operazione d’innesto sotto gli occhi scettici di mio padre. Legai accuratamente con la rafia ogni gemma innestata, per darle modo di aderire strettamente al cilindro legnoso del ramo portainnesto, e al termine del lavoro andai a tuffarmi in mare per un bagno ristoratore. Nei giorni seguenti spesso controllavo se le gemme fossero vive. Pareva di sì. Dopo una settimana sciolsi i lacci, come mi aveva detto Luigi, e vidi che tutte le gemme che avevo innestato erano gonfie e vegete. Era già una vittoria. Le gemme avevano attecchito e sarebbero diventate nuovi rami, che avrebbero dato frutti diversi. Il mio compito era finito. Ora la natura doveva continuare la sua opera.
Finite le vacanze non pensai più alle viti. Una domenica dell’estate successiva andai a trovare i miei genitori con la mia famiglia. Vi trovai anche mio fratello con la sua famiglia. Era una gioia per tutti, grandi e piccini, ritrovarci insieme. Mi padre mi disse che a tavola ci sarebbe stata una sorpresa per me. Cosa poteva essere? Provai a indovinare. Mio padre sorridendo disse di non arrovellarmi perché non sarei riuscita a indovinare. Giunti alla fine del pasto, mio padre si allontanò dalla tavola e ritornò sorridente con un canestro di uva nera, bellissima.
- E’ questa la sorpresa? - dissi io delusa.
- Sì. Sai da dove proviene quest’uva? – disse mio padre.
- Dal mercato ortofrutticolo – risposi.
- No! L’ho raccolta stamattina dalle viti che tu hai innestato.
Guardavo incredula. I grappoli erano grossi, gli acini neri, gonfi e duri. Il canestro fu messo al centro della tavola perché tutti potessimo ammirare.
- Come si chiama questa qualità d’uva ? – qualcuno chiese.
Nessuno sapeva rispondere.
Mio padre disse: - Chiamiamola “Uva di Nietta”.
I bimbi batterono le mani e chiesero subito di mangiarla. Io volli che prima facessimo una foto ricordo.

Maria Elena, sette anni, raccoglie l'uva
Mio fratello aveva portato con sé la macchina fotografica e immortalammo la mia uva. Io e mio padre ci abbracciammo soddisfatti. Avevo quel giorno provato la gioia della creazione, gioia che si rinnovava ogni estate quando la mamma portava a tavola la mia uva.
Purtroppo il filare non ebbe lunga vita. Un inverno, più burrascoso degli altri anni, il mare infuriato e ruggente invase il campo e formò sul terreno un lago salato. Passarono parecchi giorni prima che la terra si asciugasse. Ormai però la salsedine era penetrata nelle radici e aveva inaridito le piante. All’arrivo della primavera le viti non avevano né foglie né gemme. Erano morte e mio padre non poté più mettere a tavola la mia uva. Che desolazione! Nel campo si erano salvate soltanto le canne, che crescevano rigogliose e invasive più di prima.
Avevo provato la gioia della creazione; ora provavo il dolore della distruzione.
Dell’uva di Nietta rimangono soltanto le foto conservate in un album.

                                                                                                                                 Nietta


10 -VERDURA * * * 2003

Sciacca 14 luglio 2003

Vacanze selvagge

Avevo lasciato la mia casa di Ribera per vivere a Sciacca una nuova vita con Giovanni, quando i miei genitori, insieme allo zio Vincenzo, comprarono due piccoli appezzamenti di terreno a Verdura, in riva al mare per trascorrervi l’estate. Il proprietario terriero ci aveva venduto, a un prezzo a noi conveniente, la striscia in riva al mare perché improduttiva. Tutto il suo terreno era coltivato a vigneto e uliveto, anche la striscia a noi venduta; ma questa era danneggiata dall’acqua del mare, che entrando durante le mareggiate, lasciava la salsedine. A lui interessava la terra dal punto di vista agricolo; a noi da quello dei vacanzieri. Tutta la costa di Verdura è tuttora coltivata a frutteti e la spiaggia pietrosa e selvaggia non è mai stata presa in considerazione come zona turistica. Da lunedì a sabato non si vedevano bagnanti. Un po’ di gente si vedeva solo la domenica, quando le altre spiagge venivano prese d’assalto e a Verdura si poteva trovare tanto spazio sia in acqua per il bagno, che sulla spiaggia per prendere il sole.

Verdura 1970 - Il muro di cinta del nostro terreno, eretto subito dopo l'acquisto. Negli anni successivi il muro fu spazzato via dalle mareggiate insieme alla strada di terra battuta e a un forno di pietra che lo zio Vincenzo aveva costruito addossato al muro. Una seconda recinzione di paletti e rete metallica , come si vede nella foto sottostante del 1981, fu portata via un'altra volta. Per fermare l'avanzamento del mare mio padre e lo zio costruirono dei cubi di calcestruzzo, uno accanto all'altro , per formare una barriera protettiva; ma dopo alcuni anni furono trascinati sott'acqua. Ogni anno assistevamo impotenti all'avanzare del mare. Una volta, in pieno inverno una violenta ondata entrò dentro la casa che trovammo circondata dall'acqua e allagata all'interno. Si diceva allora che l'avanzamento del mare in direzione delle nostre case fosse causato dalla costruzione di frangiflutti nelle vicine spiagge di Seccagrande e San Giorgio e che la recente costruzione dei forti argini lungo la vicina foce del fiume Verdura influisse sulla trasformazione della costa, proprio nel nostro terreno che ogni anno veniva visibilmente eroso dal mare.
La spiaggia di Verdura nel 1973
Verdura Novembre 1976 - Paesaggio desolato dopo una violenta mareggiata

Verdura novembre 1976 - La mareggiata ha allagato il nostro terreno

Verdura novembre 1976 : la casa dello zio Vincenzo non ancora finita.
La nostra casa sarà costruita in seguito 

 
Verdura 1979 : la nostra rustica casa

Verdura 1980

Paesaggio di Verdura nel 1980

Verdura 1980 - Sullo sfondo Caltabellotta

La strada che costeggia la riva, battuta per lo più dai mezzi agricoli dei contadini, è polverosa e a un livello più alto rispetto alla spiaggia. Il livello si abbassa poco prima di arrivare al nostro appezzamento e fino alla foce del fiume Verdura. La zona prende il nome dal fiume che l’attraversa. La massa dei vacanzieri non gradisce Verdura perché deserta, scomoda. Non una casa, non un luogo dove stare all’ombra; non sabbia dove possano giocare i bambini, ma pietre tonde e levigate dalle onde, pietre di tutte le dimensioni, grandi, medie, piccole, piccolissime; bianchissime, come cotte dal sole, ma anche colorate e variegate come il marmo. Una sola costruzione troneggia sulla costa in quel punto più alta sul livello del mare: una robusta torre a pianta quadrata, fatta costruire dall’imperatore Carlo V intorno al 1530, per avvistare i pirati saraceni che infestavano il Mediterraneo. Ora la torre appartiene ad una famiglia che ne ha modificato l’interno, adibendolo ad abitazione per il periodo delle vacanze estive. Io ho visitato l’interno. Le mura molto spesse non fanno penetrare la calura estiva, una scala esterna porta al primo piano, dove c’è un’unica stanza grande quadrata adibita a soggiorno e cucina. Una scala interna porta al piano superiore, dove ci sono le camere da letto.
L’interno non è comodo, ma molto suggestivo, perché diverso dalle normali abitazioni e soprattutto per la posizione alta sul livello del mare, da cui si può ammirare una vista superba. A ovest si vede il profilo di Sciacca, che si affaccia sul mare. Pare di toccarla con un dito. A est si vede il borgo di Seccagrande, oltre il fiume Verdura, luogo di villeggiatura preferito dagli abitanti di Ribera. A nord il profilo frastagliato di Caltabellotta, che si innalza fino a quasi mille metri sul livello del mare. Tale profilo continua fino a formare secondo la mia fantasia la sagoma di un gigante disteso.

Sagoma del Gigante addormentato


Fin da bambina mi pareva di vedere nella linea dei monti un gigante addormentato. In lontananza vedevo la fronte, il naso aquilino, la bocca e il mento. La linea continuava diritta formando la lunghezza del corpo fino ad un innalzamento in cui mi sembrava di vedere i piedi uniti.
Verdura 1980 - Pecore al pascolo

Caltabellotta e le alture circostanti viste dal mare sembravano azzurrine per la lontananza. Il nucleo dell’antico paese si vedeva spiccare bianco come se fosse racchiuso nella conca di una mano.


Torre di Verdura. I magazzini accanto sono stati demoliti

Di fronte alla torre c’era un vecchio magazzino sospeso sull’orlo della costa, che le onde ogni anno erodevano fino a far crollare la parete che si affacciava sul mare. Il magazzino, che era rimasto con tre pareti, lasciava vedere l’interno con le volte e gli archi.

1980 - Il silos, ora demolito, di fronte alla Torre
A qualche metro dal magazzino si ergeva un silos cilindrico, una volta dipinto di rosso, ora scolorito dal tempo, sormontato da un tetto scuro a forma di cappello cinese. Dei pioli di ferro orizzontali incassati nel muro formavano una scala stretta su cui ci si poteva arrampicare fino al tetto.
A tutti noi piaceva Verdura, soprattutto da quando eravamo proprietari di un pezzo di terra tutto nostro, che subito facemmo recintare con un muro per sottrarci alla vista indiscreta dei rari passanti. Il terreno confinava con un condotto di acqua sorgiva, che attraversava i campi e si versava in mare. In un angolo mio padre e mio zio sistemarono un tetto di canne per creare una zona d’ombra e posero un lungo tavolo rustico per il pranzo. Ai quattro lati del tavolo furono sistemate delle panche rustiche e così iniziò la villeggiatura più bella della nostra vita. Si portò pure una cucina a gas portatile per cucinare il minestrone e un rustico barbecue costruito da un fabbro per arrostire la carne o il pesce.





Verdura 1981 - Nelle due foto soprastanti una parte del muro di cinta e il cancello sono ancora in piedi.

Verdura 25 marzo 1983- Nella foto quasi tutto il muro è scomparso. Il forno è ancora in piedi, ma negli anni successivi anch'esso sarà inghiottito dal mare insieme al cancello.


Verdura luglio 1983 - Si vedono i cubi di calcestruzzo, costruiti da mio padre e dallo zio, utilizzando i ciottoli del luogo. La strada costiera non esisteva più e gli agrigoltori, per raggiungere i loro appezzamenti, passavano con i loro mezzi agricoli nel nostro terreno, davanti alle nostre case.



Nel tardo pomeriggio, dopo cena, si raccoglievano in una cassetta le stoviglie lavate nell’acqua corrente del condotto e, sistematele nel bagagliaio dell’auto, si riportavano a casa a Ribera. L’indomani mattina si ritornava a Verdura.
Niente radio, o televisione, o telefono, o rubinetti per lavarci; non c’era nulla che ci ricordasse gli agi della civiltà moderna. C’erano soltanto la terra sotto i nostri piedi, il cielo azzurro sulla nostra testa e il mare, ora azzurro, ora verde, ora grigio, a seconda della luminosità del cielo. Il tempo sembrava essersi fermato alla preistoria.
L’abbigliamento era ridotto all’indispensabile: costume da bagno e copricostume. Dopo pranzo si portavano i piatti da lavare, spesso in riva al mare: si immergevano nelle onde e poi si sciacquavano nell’acqua sorgiva del condotto. Di pomeriggio gli adulti di solito facevano un pisolino distesi su dei materassini a terra; io e i cugini invece esploravamo la costa in cerca di patelle, che in abbondanza si vedevano attaccate agli scogli sott’acqua. Il corpo della patella è una ventosa. Se il mollusco viene sfiorato dalla mano, avverte il pericolo e si attacca tenacemente allo scoglio ed è impossibile staccarlo. Io imparai a coglierlo di sorpresa infilando la lama del coltello rapidamente di sorpresa tra la ventosa e lo scoglio. Le mangiavamo crude, dopo averle sgusciate.
Poi scoprimmo i ricci di mare. Muniti di maschera subacquea, pinne e respiratore nuotavamo sott’acqua tenendo la canna del respiratore fuori, cercando i fondali bassi con i ricci. Avvistatili, ci calavamo nel fondo in apnea e con una forchetta staccavamo i ricci, che mettevamo in un sacco di rete. Era un godimento la pesca dei ricci perché ci permetteva di guardare i fondali bellissimi nella loro varietà, di incontrare pesci singoli o a gruppi. Mi piacevano i fondali coperti di alghe chiare simili alle lattughe tenere; invece quelli coperti di alghe scure ondeggianti come i capelli di una medusa, mi incutevano paura. Immaginavo che potessero nascondere strane creature o chissà quali insidie. Io evitavo sempre i fondali con le alghe scure. Mia cugina invece li cercava perché a suo dire esse nascondevano i ricci più grossi. La vedevo allargare le alghe con le mani e prendere i ricci, che erano davvero più grossi di quelli attaccati agli scogli. Una volta, nuotando tranquillamente su un fondale poco profondo, mi trovai sull’orlo di un precipizio. Il fondale si abbassava all’improvviso apparendo scuro per la profondità. Provai un senso di sgomento e rapidamente tornai indietro, segnalandomi il posto per non tornarci mai più. La maggiore quantità di ricci si raccoglievano in una zona di mare a metà distanza tra la Torre e il nostro terreno. Il punto preciso della spiaggia da cui tuffarci era uno scoglio a forma di poltrona che si intravedeva sotto la superficie. Il fondale all’inizio era un po’ profondo, poi saliva gradatamente fino a un metro e mezzo circa sott’acqua. Lì lo spettacolo era impressionante: i ricci coprivano come un immenso tappeto nero una vasta distesa sottomarina. Non potevamo posare i piedi sul fondo per timore di pungerci sugli aculei. Ne staccavamo con la forchetta tanti contemporaneamente e riempivamo i nostri sacchi a rete, che portavamo a riva. Spaccavamo il guscio con i coltelli o meglio con le forbici e ci apparivano le uova gialle o arancioni raggruppate in forma di stella marina. Che squisitezza! Che scorpacciate! Non potevamo mangiarli tutti, erano troppi.. Alcuni sacchi li portavamo ai familiari che aspettavano i frutti della nostra pesca. Imparammo a distinguere le femmine dai maschi. Questi ultimi hanno gli aculei più lunghi e sembrano più grandi. Apertili e visto che non c’erano uova, capimmo che erano maschi e li lasciammo stare in pace in fondo al mare. I maschi erano pochissimi rispetto alle femmine.
Le nostre giornate trascorrevano intense, a diretto contatto con la natura. A volte lo zio Vincenzo proponeva di esplorare i viottoli di campagna prima del bagno. Le sorprese non mancavano nelle nostre passeggiate. I viottoli erano limitati da rigogliose piante di more, generose di frutti maturi, che raccoglievamo e portavamo direttamente alla bocca. Spesso attraversavamo la pineta. Gli agricoltori del luogo chiamavano impropriamente pineta due filari di pini che si ergevano ai lati di una strada che costeggiava il condotto dell’acqua. Sotto i pini si godeva l’ombra e la frescura. Talvolta si incontravano delle famiglie accampate sotto gli alberi con tende o roulottes con le quali scambiavamo qualche parola.
Un’altra scoperta delle nostre passeggiate furono le chioccioline in letargo, attaccate agli steli delle erbe secche o sulle foglie dei cardi selvatici. Ne raccoglievamo tante e le mangiavamo a cena con l’intingolo di acqua, limone e aglio.
Ogni sera tornavamo a casa, fisicamente stanchi per le nuotate, le passeggiate, le scorpacciate di aria e di sole, ma soddisfatti di quanto la natura ci offriva ogni giorno, senza chiedere niente in cambio.

Dopo alcuni anni le cose cambiarono. Mio padre e mio zio decisero di costruire, ognuno nel proprio terreno, una grande stanza da soggiorno con angolo cottura e un bagno. Così nacquero due casette, una accanto all’altra, senza alcuna licenza edilizia. Io non abitavo più a Ribera con i miei genitori, ma a Sciacca. Mio fratello, che si era sposato cinque mesi prima di me, si era stabilito prima ad Augusta, poi a Siracusa, dove tuttora vive. Ma durante le vacanze estive il luogo di riunione di tutta la famiglia era la nuova casetta di Verdura, con una sola stanza grande, ma con tanto spazio intorno. La sera i miei genitori con mio fratello e mia cognata ritornavano nella casa di Ribera, distante dieci chilometri dal mare, per continuare la serata e per dormirvi la notte. Io ritornavo nella mia casa di Sciacca, distante pure dieci chilometri dal mare, ma in direzione opposta, dove mi aspettava Giovanni. Lui era sempre impegnato con il suo lavoro di avvocato e non poteva passare le giornate a Verdura. Lo faceva soltanto la domenica. Io lasciavo Vedura soltanto per trascorrere all’estero una vacanza di due settimane con lui, nel mese di agosto.
Anche se a Verdura c’era una casa con alcune comodità (la corrente elettrica e quindi il frigorifero e alcuni elettrodomestici) le vacanze continuarono ad avere il sapore selvaggio degli anni precedenti.
Con la nascita di tre bambini, due da me, uno da mio fratello, i miei genitori pensarono che era venuto il momento di ingrandire la casa per evitare di viaggiare ogni giorno e per vivere stabilmente al mare durante l’estate. Si aggiunsero quattro camerette da letto e un altro bagno. Anche i miei zii fecero la stessa cosa, per poter ospitare i loro due figli, anche loro sposati.
Ci ritrovavamo ogni anno a Verdura tutti quanti: nonni, zii, cugini, nipotini.
Da sinistra: Mio nipote Giuseppe, i miei figli Ignazio e Maria Elena in una foto del 1981

Verdura 1981 - Colazione in veranda


Verdura 1982 -Maria Elena, Giuseppe e Ignazio intorno alla cuginetta Renée


Verdura 1983 : la nostra casa seminascosta dalle canne selvatiche


La più piccina è Renée

 
Verdura 1984 - Piera, Renée e Maria Elena prendono il sole sui cubi
Verdura 1985 - Nella foto è visible come si sia accorciata la distanza dalla casa al mare.
La barca delle nostre vacanze


Verdura 1986 - Ignazio ha trovato a galla un grosso pesce ucciso da un bombarolo notturno


Verdura 1986 - Dei cubi, faticosamente costruiti nel 1983, rimane qualche traccia sulla spiaggia


Ricordi di Verdura 25 anni dopo .....

Sciacca 23 marzo 2004 martedì
Lettera a Nella
Oggi la giornata mi sembra strana perché piove, fa un po' di freddo ed io sto a casa senza far nulla. Mi pare strano non far nulla! Sono uscita stamattina con mia madre solo per andare in banca a versare gli assegni che ieri abbiamo ricevuto nello studio del notaio per la vendita del terreno e della casa di Verdura.
Se da un canto la vendita mi è dispiaciuta perché mi pare di aver buttato via un periodo bello della mia vita trascorsa insieme ai miei familiari, dall'altro la ragione mi convince che era inevitabile e che quel luogo, che per tutti noi è stato caro e che sarà trasformato da "Sir Rocco Rorte & Family" in un villaggio turistico, sarebbe stato ugualmente distrutto dalla erosione del mare che da tempo fa vedere i suoi effetti.
Non si può tornare indietro e le fasi della vita sono irripetibili. Restano solo i bei ricordi, le foto, i filmati, conservati nel cassetto. Non soltanto i luoghi, che son fatti di pietre, cambiano, ma anche noi con essi.
Potrei oggi immergermi sott'acqua per ore a pescare ricci con maschera e pinne, come facevo una volta? Non ne avrei più la forza fisica, né la voglia.
Potrei esplorare i bei fondali di Verdura e incontrarvi i pesci, le attinie, le meduse, le stelle marine, le patelle attaccate agli scogli? Certo che no.
E che dire delle lunghe remate sulla tavola del surf per esplorare la costa più lontano? E delle passeggiate a piediin cerca di more lungo i sentieri di campagna e di chioccioline attaccate ai cardi selvatici? 
Maria Elena sugli sci
Maria Elena dopo una corsa sugli sci


E delle corse dei bambini sulla superficie del mare con gli sci nautici?
E poi, diventati ragazzi, sul Wind surf?
Ignazio sul Wind surf

I bei ricordi del passato mi emozionano, ma non vorrei che si potesse tornare indietro.
Nietta

VERDURA oggi
La nostra casa (a sinistra) e quella dello zio Vincenzo (a destra), trasformate in ristorante, sono state collegate da una passerella che unisce le rispettive terrazze
Paesaggio verde
Prato verde con palme

Campo da golf - Sullo sfondo riconosco la nostra casa


VERDURA ieri e oggi a confronto

La nostra casa nel 1983 * * * * * * * La nostra casa trasformata in ristorante
La casa dello zio ********* oggi trasformata in ristorante
Paesaggio naturale nel 1970 **** Paesaggio esotico oggi
Sentiero limitato da un canneto selvatico ****************** Lago artificiale con palme

                                                                                                                                                                  

                                                                                              

  

 

13 e 14 - Due racconti dal viaggio in Messico



San Juan Chamula 15-10-2004






Chiesa di San Juan Chamula 


E’ passato un mese dal breve viaggio in Messico (tredici notti e dieci giorni sono pochi per un paese grande sei volte e mezzo l’Italia), viaggio che ho cercato di dilatare guardando e riguardando le riprese con la telecamera, scorrendo sul monitor del computer le seicento fotografie digitali scattate, aggiungendo sotto ogni foto uno scritto per fissare nella memoria quello che ho appreso sul luogo fotografato e le sensazioni provate. Tutto mi è piaciuto del viaggio: le piramidi immense di Teotihuacàn, quelle di Palenque e di Chichèn Itza soffocate dalla giungla e tante altre che non immaginavo così numerose. Sapevo delle favelas di Città del Messico, viste più di una volta nei documentari televisivi, ma non sapevo nulla del Chiapas. Per questa mia ignoranza il Chiapas ha lasciato nella mia mente una traccia molto forte insieme a una sensazione di mistero che emana da tutto ciò che è stato sconosciuto, che non è stato mai immaginato e che perciò si rivela all’improvviso, cogliendoci impreparati e attoniti.
L’unica strada che attraversa il Chiapas è tagliata nella giungla verdissima.
Dopo ogni curva i rilievi della Sierra Madre ricoperti di foreste apparivano nella loro lussureggiante vegetazione in colori e forme sempre diverse che io cercavo di catturare con la telecamera per
portarmele a casa e rivederle, timorosa che la memoria, con il trascorrere del tempo, avrebbe sbiadito immagini e colori.

Sito archeologico di Palenque


Ciò però che mi ha scosso di più del Chiapas è il villaggio indigeno di San Juan Chamula. Gli abitanti sono discendenti dei Maya.


Ragazza Maja tzotzil vestita a festa, fotografata con noi nel villaggio di Zinacantàn


               

   Ritratto della ragazza Maja tzotzil


Pelle bruna, olivastra, statura piccola, capelli neri, lisci, lucidi. La scuola è obbligatoria sulla carta, ma la maggior parte dei bambini non ci vanno, perché è distante dalle loro capanne e non hanno mezzi di trasporto se non le proprie gambe.
La guida ci aveva raccomandato di non fotografare e di non filmare. Nei tempi passati gli indigeni non consentivano le visite degli stranieri, perché gelosi della loro vita privata e delle loro tradizioni.



Ora consentono che gli stranieri entrino a pagamento nella loro unica chiesetta perché hanno bisogno di denaro per mantenerla.
Nel villaggio c’è una sola stradina con alcune case in muratura, per lo più negozi. Sono considerati ricchi quei pochi che hanno in casa l’acqua e l’elettricità. La stradina arriva in una grande spianata di terra battuta senza case intorno, dove uomini e donne del luogo, accoccolati a terra, espongono la loro povera mercanzia su delle stuoie. I bimbi, scalzi e sporchi, tendevano una mano e chiedevano un peso. La guida ci aveva raccomandato di non dare alcuna moneta ai bambini, per non abituarli all’accattonaggio.
Alcune bimbe portavano addosso un fratellino o una sorellina più piccola dentro un telo di stoffa che le avvolgeva e che si annodava sul petto.
Donne e bambine portano rozze gonne pelose di lana nera spessa e ruvida, nonostante il caldo.
La Chiesetta, unico edificio della piazza, è bianca, con decorazioni verdi e blu, sormontata da tre campane e una croce. Di fronte alla chiesa una grande croce si erge su un podio di tre gradini. Dietro si estende la giungla a perdita d’occhio, che nasconde le capanne degli indigeni. Nessun segno della nostra civiltà era visibile. Il tempo sembrava fermo all’epoca precedente l’arrivo degli spagnoli.

Interno della chiesa di San Juan Chamula
Entrammo senza immaginare quello che ci aspettava. Il fumo dell’incenso e le luci di miriadi di candele accese sul pavimento e su alcuni tavolinetti offrivano uno spettacolo allucinante, simile ad una cappella di cimitero il giorno dei Morti, dove si accendono i lumini. Ma i lumini della chiesetta di Chamula erano moltiplicati per mille. Le famiglie stavano accoccolate sul pavimento coperto di aghi di pino (non c’erano banchi o sedie) e una sola persona per ogni gruppo pregava litaniando nella lingua locale in modo lento, ripetitivo, per un tempo interminabile. Erano presenti anche i bambini, che se ne stavano tranquilli accanto ai familiari.
Oltre alle candele ardenti, si vedevano allineate a terra, attorno ad ogni gruppo familiare, tante lattine di Coca-Cola e di altre bibite. La Coca-Cola, legata nella mia mente alle immagini del mondo moderno, mi sembrò una nota stonata in quell’atmosfera primitiva.
La guida diceva che dopo un’ora e mezzo di monotona litania, l’orante cade in trance. Colui che prega, spiegava la guida, è lo sciamano, che chiede al santo, a cui si rivolge, un favore: ad esempio la guarigione di un ammalato. Egli fa da tramite tra la terra e il cielo.
Ci fermammo ad osservare un gruppetto di persone che seguiva assorto la preghiera di uno sciamano. Nessuno, neanche i bambini, si lasciava distrarre dalla nostra presenza. Accanto a lui stava inginocchiata una donna dall’aspetto sofferente. A lei erano rivolte le sue attenzioni. Dopo aver imposto la mano sulla sua testa e averla segnata sulla fronte, lo sciamano le fece bere alcune pozioni, che la donna accettò, fiduciosa nel miracolo della guarigione. Alla fine del rito lo sciamano sollevò in alto, verso il fumo dell’incenso, una gallina, che se ne era stata cheta cheta, come stordita, sul pavimento accanto a lui. Tre volte la sollevò in alto, poi le tirò il collo e l’animale, dopo qualche fremito, si acquetò per sempre sul pavimento.
Chiesi sottovoce alla guida se la gallina sarebbe finita in pentola. Mi rispose che con quel rito lo sciamano aveva trasferito la malattia dal corpo della donna ammalata alla gallina, che per questo era stata sacrificata. Pertanto la gallina andava buttata via.
Prima della venuta degli spagnoli, gli indios facevano alle loro divinità dei sacrifici umani. Avendoli gli invasori spagnoli vietati e imposta la religione cattolica, gli indigeni continuarono i sacrifici sostituendo gli esseri umani con gli animali, quasi sempre galline.
Girando lo sguardo verso un altro gruppo di persone, a pregare era una donna mentre allattava un bimbo. Come lo sciamano, ripeteva le stesse parole, con lo stesso monotono ritmo. Accanto a lei, distesa e con le zampe legate, un’altra gallina se ne stava immobile, come se fosse stata drogata. Anch’essa fece la stessa fine. Maria Elena, che non aveva mai visto ammazzare una gallina, era inorridita. Io le spiegai che da bambina parecchie volte avevo visto la mia mamma o la nonna ammazzare allo stesso modo il pollo che veniva portato fumante sulla tavola e che quell’immagine di morte, una volta per me abituale, ora lontana nel ricordo e rinvenuta nella memoria, non suscitava in me lo stesso raccapriccio che in lei.
Girammo il perimetro della chiesa per guardare le statue dei santi nelle nicchie. A differenza delle nostre statue, quelle di Chamula (ma anche tutte le altre del Messico) erano vestite con abiti di stoffa. I santi, che hanno gli stessi nomi dei nostri, portavano parrucche di capelli veri e ciglia vere incollate sul bordo delle palpebre. Ai miei occhi nessuna sacralità emanava da quelle statue; anzi avevano qualcosa di carnevalesco. Pur movendoci in silenzio nella chiesa, mi pareva però di violare con la sola nostra presenza, con la nostra curiosità, l’intima spiritualità di quella gente, gelosa del proprio culto e delle proprie tradizioni. Prima di lasciare la chiesa, mi fermai un po’ a guardare per l’ultima volta quello strano luogo. Uscii all’aria aperta con la strana sensazione di aver fatto un salto indietro nei primordi della storia.
Riflettei che l’uomo, da quando ha cominciato a pensare, ha considerato se stesso superiore agli altri esseri viventi, ma ha sentito sempre il limite delle sue capacità, sia fisiche che intellettive, di fronte a fenomeni naturali non controllabili dalle sue forze. Nacque nella sua mente l’idea della divinità che può tutto, che sa tutto ciò che a lui non è dato sapere. Gli esseri viventi nascono e muoiono. Ma l’uomo, che si considera superiore, non può rassegnarsi alla transitorietà della vita terrena; perciò si è creata una vita ultraterrena dove possa continuare a esistere, ma solo lui, per l’eternità.
Ho visto pregare gli indios di Chamula davanti alle statue dei santi cattolici. Ho visto pregare i cinesi davanti alle statue dei templi buddisti. Ho visto pregare i fedeli cattolici nelle nostre chiese. Ho pensato che questo intimo desiderio di contatto con il divino accomuna tutti gli uomini della terra, in qualsiasi longitudine e latitudine si trovino e a qualsiasi religione appartengano, monoteistica o politeistica.
Tutte le religioni del mondo hanno la stessa radice.
Nietta


Panico a Chichén Itzà 18-10-2004
Non posso dimenticare del viaggio in Messico un'esperienza che non mi era mai capitata nella vita: la discesa dalla piramide di Chichén Itzà, l'ultima tra le tante piramidi scalate in quel grande paese.

Foto aerea della Piramide di Kukulcàn, il Tempio di Venere e il Tempio dei Guerrieri con annesso gruppo delle Mille Colonne a Chichén Itzà



Foto: Chichén Itzà: Piramide di Kukulcàn.
La somma dei 91 gradini di ciascuna scalinata, cui va aggiunto il basamento superiore, dà un totale di 365, pari ai giorni dell'anno.
Non è la piramide più alta, ma la più ripida, con una scala di 91 gradini su ognuno dei quattro lati, in un'unica rampa che termina con una terrazza stretta come il balcone di una casa; ma il balcone ha la ringhiera. Lassù, dove non c'era alcuna ringhiera, fui colta da un attacco di panico mai provato prima. Mi pareva di essere sul cornicione di un grattacielo. Mi addossai a un muro, mi liberai della telecamera dandola a Maria Elena, che non si accorse del mio disagio. Che mi importava delle riprese?





Foto- Chichén Itzà: mi accingo a salire la Piramide di Kukulcàn, inconsapevole di ciò che mi aspetta

Foto: Anche Lia, sorridente, si accinge alla scalata della Piramide di Chichén Itzà














Volevo avere le mani libere per potermi aggrappare a qualcosa. Chiusi gli occhi per non vedere quanto ero lontana dalla terra. Entrai nell'unica stanza chiusa e mi rifiutai di guardare fuori. Vicino a me c'era una lattina vuota di Coca-Cola lasciata da qualche turista, a cui si erano attaccate una moltitudine di vespe. Essere assaltate dalle vespe in quel momento mi sembrava il male minore. I turisti, soddisfatti della visita alla piramide, a poco a poco cominciavano la discesa. Vederli andar via accresceva in me la paura. Tra poco sarei rimasta sola.

Rimasta la penultima, e non potendo restare lassù, mi decisi a iniziare la discesa.
Al bordo del primo gradino era ancorato un anello metallico a cui era legata una grossa corda che arrivava al pianterreno. Si vede bene nell'ultima foto. Il primo passo da fare era arrivare all'anello, vicino all'orlo del precipizio. Lo guardai per memorizzare la distanza e con gli occhi chiusi per non vedere il vuoto, mi sedetti a terra per sentirmi più sicura, e strisciai fino all'anello e alla corda. Afferratala con la destra e tastando con la sinistra il primo gradino, iniziai la discesa all'indietro, sempre con gli occhi chiusi. Avevo pregato un compagno di viaggio (l'ultimo nella discesa) di scendere dopo di me perché mi guidasse. Ad un certo punto, credendo di essere quasi alla fine, aprii gli occhi, ma li richiusi terrorizzata trovandomi a metà scala. Li riaprii non appena ebbi toccato terra.
Non mi aspettavo una reazione simile. Nei giorni precedenti avevo scalato piramidi anche più alte, senza problemi, in quanto la scala era divisa in più rampe, separate da ampie terrazze, che non mi facevano sentire sull'orlo di un precipizio. Il panorama che si vede da lassù è spettacolare: si ha l'impressione di essere più vicini al cielo che alla terra.
Ma non saprò mai dire cosa si vede dalla piramide di Chichén Itzà. 
                                                                                                     


 

 

17 - Palme da cocco 

                  Sciacca 19-1-05

 


E' stata un'avventura portare in Italia alcune piantine dal Messico. Non ho portato solo le palme da cocco, ma anche tre piantine grasse, per le quali non mi preoccupo tanto, dato che molte cactacee provenienti dal Messico vivono bene anche da noi. Amo moltissimo le piante grasse e compro tutte quelle che vedo in vendita e che non ho ancora. Nei negozi di piante e fiori di Sciacca non ne trovo più di nuove. Girando per il Messico mi è capitato di vedere le stesse piante che coltivo nei miei balconi.


Se ben ricordo, la prima piantina grassa, dura, con la pelle spessa di colore verde chiaro e con qualche spina nera, la presi da un grosso vaso posto davanti ad un negozio di souvenirs, nei pressi del sito archeologico di Theotiuacan, vicino a Città del Messico. C’erano parecchi turisti che entravano ed uscivano dal negozio, intenti a guardare la varietà di oggetti che venivano offerti alla nostra curiosità e non mi fu difficile strappare un rametto senza farmi vedere e nasconderlo nella borsa. Contenta dell'operazione, entrai anch'io nel negozio, grande e bello da fotografare e filmare per la vivacità dei colori, che mi attraeva più degli oggetti in vendita.



La seconda piantina la presi da un grosso vaso posto sul marciapiede davanti alla vetrina di un negozio a Oaxaca.
La pianta grassa vista davanti al negozio era per me nuova e perciò non me ne sarei andata da quel luogo senza avere strappato una piccola porzione staccabile con le dita.
Mi guardai intorno per assicurarmi che nessuno mi vedesse e, fingendo di guardare con Maria Elena gli oggetti esposti nella vetrina, staccai una pezzetto di piantina, ricoperta di spine morbide e la nascosi in tasca.
La terza piantina la presi in una zona aperta nei pressi del sito archeologico di Mitla, vicino a Oaxaca. Non c'era nessuno vicino a me e staccai una foglia senza alcun problema. Somiglia a una pianta di ficodindia, con le foglie molto più piccole e le spine nascoste in ciuffetti di peluria bianca.
Lasciavo le tre piantine grasse sul davanzale della finestra della camera d’albergo o nel balcone, alla luce, per tutta la giornata.
So per esperienza che le piante grasse resistono per parecchio tempo fuori della terra, perciò ero sicura che sarebbero rimaste in vita per tutto il tempo del viaggio e che le avrei portate in Italia.
Quando si lasciava l'albergo e si partiva per un altro luogo, le piantine, sistemate in un sacchettino di cellofan trasparente con dei fori, viaggiavano con me nella borsa. Nei tragitti in pullman o in aereo avevo cura di tirarle fuori alla luce. Una compagna di viaggio, che un giorno si accorse delle mie piantine, mi disse:
"Non hai sentito cosa ha detto la guida? E' proibito portare all'estero le piante messicane".
Io non l'avevo sentito, perché non sempre ascoltavo la guida, ma le credetti; perciò da quel momento fui guardinga. Negli aeroporti e in aereo tenevo il sacchetto con le piantine nascosto nella borsa, che cercavo di tenere il più possibile aperta per farvi arrivare la luce.

Il giorno prima di lasciare il Messico ci trovavamo a Playa del Carmèn, un villaggio sulla spiaggia tropicale del Mar dei Caraibi, ricca di palme da cocco. Le avevo osservate prima a Palenque e fotografate, cariche dei grossi frutti, che non avevo mai visto prima. Nei nostri giardini vivono bene le palme da dattero, ma i frutti non arrivano a maturazione. Le palme da cocco, a confronto con quelle da dattero, mi sembravano più gentili per il fusto liscio e sottile e i rami più leggeri e flessibili. Mi sarebbe piaciuto procurarmi i semi e provare a metterli in un vaso e non sapevo a chi chiedere come si riproducono.


Noci di cocco all'albero

Nel sito archeologico di Palenque, accaldate e assetate per la temperatura, io e Maria Elena avevamo comprato una grossa noce di cocco.

La venditrice aveva praticato un forellino e infilata una cannuccia perché ne aspirassimo il liquido. Ce n'era tanto che una sola noce bastò a dissetarci tutte e due. Poi la venditrice con un macete scortecciò la noce dalla buccia verde, la spaccò in due e ce la restituì per mangiarne la polpa che, a differenza di quella del cocco che compriamo nei nostri supermercati, è morbida e più sottile, ma dello stesso sapore.



Nel mio giardino e in quello di mia madre ci sono alcune belle palme di due specie diverse. Mi chiedevo: "Se le palme da dattero, che sono piante tropicali, vivono bene nella nostra area mediterranea, perché non dovrebbero viverci anche quelle da cocco?" Poi riflettevo che mai avevo visto nella nostra area palme da cocco. Deducevo che non possono attecchire nel nostro clima. Insomma mi sentivo troppo ignorante in materia di palme. Pensai che al ritorno in Italia avrei fatto qualche ricerca nell'enciclopedia o in qualche altro libro, e che non avrei potuto mai portare una palma da cocco in Italia.
Invece non fu così. La fortuna mi venne incontro e mi offrì l'opportunità di portarmi in Italia ben cinque piantine di noce da cocco. Incredibile!
Gli ultimi due giorni del viaggio, come accennato sopra, li passammo a Playa del Carmèn, nello Yucatàn. Il giardino che circondava l'albergo era ricco di palme che arrivavano fino alla spiaggia. Il clima era molto umido e caldo.
Cercavo di adocchiare qualche piantina che fosse nata ai piedi di una palma. Ce n'era qualcuna, ma troppo grande per poterla staccare. La mattina dell'ultimo giorno vidi a sinistra del vialetto che percorrevamo per andare alla spiaggia, una zona ombrosa (la fitta vegetazione lasciava passare poca luce). Maria Elena, che era con me, mi indicò uno strano animale, della grandezza di un gattino, che sembrava abituato alla vista dell'uomo. L'animaletto andò subito via. Un sedile sotto gli alberi ci invitò a sederci. Mi guardavo intorno per scorgere altri animali. Vidi fuggevolmente delle iguane e poi... ciuffi di fili verdi a poca distanza da me. Guardai attentamente e riconobbi in quei ciuffi delle neonate piantine di palme da cocco.
Erano lì, davanti a me, in un terreno umido e morbido. Non occorreva una zappa. Erano così piccole che bastavano le sole dita per sradicarle. Non feci niente. Quel vialetto era un passaggio obbligato per raggiungere la nostra camera d'albergo. Dopo cena, tornando in camera, ci saremmo fermate in quel posto poco illuminato e avremmo preso le piantine con un po' di terra, senza essere viste da nessuno. Da quando avevo saputo del divieto di portare piante messicane all'estero, mi pareva di commettere un reato. Ma il desiderio di portare a casa mia una di quelle piantine era così forte, che avrei trasgredito la legge messicana.
Di sera, prima di rientrare in camera, sradicai un ciuffo di piantine che si staccarono con le radici integre e le avvolsi in un tovagliolo di carta. Erano cinque. Con un bicchiere di plastica raccolsi un po' di terra e tornammo in camera. Prima di mettere in ordine le valigie per la partenza dell'indomani sistemai le cinque piantine nel bicchiere di plastica avendo cura di coprire le radici con la terra umida.
L'indomani mattina partimmo per l'aeroporto di Cancun, dove un agente faceva il controllo delle valigie. Le mie cinque palme e le tre piantine grasse erano chiuse nel bagaglio a mano. Quando l’agente mi chiese cosa avessi nella borsa, io risposi tranquilla che non avevo niente di particolare. Poi mi chiese:
"Ha frutta? Ha piante?"
Io allibii per la domanda che non mi aspettavo e risposi ancora di no apparentemente con disinvoltura. Mi fece passare senza controllare la borsa e passò a ripetere le stesse domande al passeggero successivo.
Ora le mie piantine sono a casa. Quelle grasse le ho piantate insieme in una ciotola in veranda per averle sott'occhio ogni mattina. Le cinque palme le ho divise in cinque vasetti, che ho collocato in giardino ai piedi di una euforbia, in modo che quando mi affaccio dal balcone o dalla finestra possa vederle subito.
 

 Ora sono passati tre mesi dal viaggio in Messico. Le tre piantine grasse sono vive, ma ancora non hanno messo radici. Delle cinque palme da cocco tre sono morte subito. Le due rimaste sono ancora verdi. Anzi in un uno dei due vasi sono nate due nuove foglioline di palma, come se la piantina avesse germogliato. Ho però il dubbio che le due nuove foglioline siano della palma da cocco. Da una vicina grossa palma tanti datteri secchi cadono a terra e germogliano con la pioggia. Non potrebbero le due nuove foglioline essere nate da un dattero, portato nel vaso dal vento o da un uccello? E' troppo presto per avere qualche certezza.
Mentre scrivo piove e fa freddo. Chissà se le mie palmette, nate nella calda costa dei Caraibi, sopravvivranno a questo inverno?


 

 

10 – Il cardellino e la banana

Sciacca 2 luglio 2003

Quando venni ad abitare a Siacca, Mario, il nipotino di Giovanni, aveva cinque anni. Il bambino era vivace e grazioso ed era coccolato in famiglia.
Un giorno d’agosto i genitori, che erano soliti andare al mare, dove Mario si divertiva insieme al fratello, di due anni maggiore, decisero invece di andare a trovare un amico che villeggiava a San Calogero. Questa diversione di programma dispiacque al bambino, che si mise a strillare e a battere i piedi non appena si rese conto che quel giorno non si andava sulla spiaggia. Il papà attraversava le vie della città al volante dell’auto, innervosito dai suoi strilli. Invano cercava di rabbonirlo, con promesse allettanti. Vedendo un negozio di uccelli lungo la strada in cui stavano passando, la mamma pensò che forse un uccellino in gabbia lo avrebbe incuriosito e distratto dal pensiero del mare. Fermarono l’auto davanti al negozio e vi entrarono. Mario si incuriosì al frastuono degli uccelli saltellanti e cinguettanti nelle gabbie appese alle pareti.
Comprarono un cardellino in gabbia e lo posarono sul sedile posteriore, accanto al bambino.

La soluzione sembrò ottima. Mario smise di strillare e si interessò al cardellino che saltellava nella gabbia accanto a lui. Era la prima volta che vedeva un uccello da vicino. Infilava il ditino tra le sbarre della gabbia per toccarlo, ma la bestiola si ritraeva spaventata. I genitori poterono conversare indisturbati fino a quando giunsero a San Calogero. Parcheggiarono l’auto sulla strada fuori del cancello della villetta dell’amico, lasciarono l’uccellino nel sedile posteriore, chiusero i finestrini ed entrarono nella villetta. Mario, distratto dall’ambiente nuovo in cui si trovava, non pensò al cardellino. Terminata la visita e ritornati in auto, trovarono l’uccellino senza vita, ucciso dal gran caldo. Mario non capiva perché la bestiola, che prima saltellava vivacemente, ora non si muoveva. I genitori spiegarono che non si muoveva perché era morto.
“Che significa morto?” Spiegarono il concetto di vita e di morte come meglio poterono, ma il bambino non capiva. Come poteva capire un concetto così misterioso anche per noi adulti? Le parole erano buttate al vento. Mario non voleva ascoltare nessun discorso; voleva l’uccellino vivo e basta. Si mise a strillare e a battere i piedi: voleva l’uccellino vivo. Per tutto il viaggio di ritorno non sentì ragione alcuna. Il padre, irritato dagli strilli e dalla calura di agosto, per rabbonirlo gli promise che sarebbero tornati nel negozio e avrebbero comprato un altro uccellino. Mario strillava ancora di più: voleva comunicare ai genitori che non gli interessava un altro uccellino, ma solo quello che era morto e voleva che tornasse in vita. Ma come spiegare a un bambino di cinque anni che dalla morte non si ritorna?
Il bambino continuò a piangere. Ritornarono nel negozio, ma Mario si rifiutò di scendere dall’auto. Voleva solo il suo cardellino vivo. Esausti i genitori tornarono a casa, rinunciando ad altri tentativi di persuasione. Il bimbo continuò a piangere fino all’esaurimento delle sue forze. La storia non ebbe alcun seguito. Quell’episodio rimase unico. Da quella prima brutale esperienza Mario aveva capito il concetto di morte e che in natura ci sono delle leggi contro cui l’uomo non può combattere.

Un episodio simile, ma meno brutale, capitò a mio figlio Ignazio all’età di appena tre anni. Prima di tornare a casa, dove il bambino era rimasto, sorvegliato dalla nonna, comprai per lui delle banane. Quando le vide, Ignazio manifestò il desiderio di mangiarne una. Rapidamente sbucciai la più grossa fino a pochi centimetri dal gambo e gliela offrii. La sua reazione fu una esplosione di rabbia. Non dovevo sbucciarla! Doveva essere lui a farlo!
Si sa che le prime esperienze sono preziose per i bambini. Ma in quel momento non pensai che sbucciando la banana avevo tolto a mio figlio il piacere di sperimentare un atto nuovo. Ma come fare a riparare l’errore? Mi parve logico offrirgli un’altra banana integra per permettergli che la sbucciasse lui. Ma la logica degli adulti non sempre viene subito compresa dai bambini, che imparano prima dall’esperienza personale, senza la quale le parole sono vuote di significato. E’ l’esperienza che dà significato alle parole.

Ignazio strillava perché non voleva sbucciare un’altra banana, ma quella che avevo sbucciato io. Voleva che la banana da me sbucciata tornasse integra, come Mario voleva che il cardellino stecchito tornasse in vita. Mi arresi di fronte a tanta irrazionalità.

All’improvviso mi balenò in mente un’idea. Mentre Ignazio continuava a piangere stizzito, presi ago, ditale e filo e cucii i lembi della buccia.
Ignazio smise di piangere guardando meravigliato l’operazione che si compiva sotto i suoi occhi. Alla fine gli porsi la banana con la buccia cucita che prese in mano con uno sguardo incredulo. La guardava incuriosito, la rigirava nelle sue mani divertito e infine mi abbracciò con un sorriso.
Quell’esperienza fu una lezione di vita per lui e anche per me. Lui imparò che gli eventi sono irreversibili; io imparai che per i bambini l’esperienza personale è la migliore maestra.

                                                                                                                                





 

 

15 - Le luci di Betlemme

23-12-2004 giovedì

Ieri un’ispettrice di polizia entrò nell’ufficio di Maria Elena per chiederle il permesso di accendere le luci di Betlemme. Maria Elena non sapeva di che cosa si trattasse, ma il tono particolare della richiesta, la parola Betlemme e la prossimità del Natale le fece intuire che il permesso si poteva concedere. Tutti gli uffici allora si misero in fermento e si accesero miriadi di candele e lumini e ceri anche con l’immagine di Padre Pio.Tempo fa un gruppo di boyscout avevano portato in Sicilia da un viaggio in Terrasanta una candela, accesa a Betlemme. Prima che la candela si consumasse molte altre ne furono accese finché la luce è arrivata in Sicilia. Le candele si sono consumate, ma se ne accendono di nuove con la stessa luce, che così si mantiene viva all’infinito.
Ogni credente ieri ha acceso la sua candela per portarla a casa e diffondere la luce divina anche nelle abitazioni di parenti e amici.
Ieri negli uffici era un brulichio di luci molto suggestivo. Un agente, che abita in un paese della provincia, lasciato l'ufficio dopo il lavoro, ha portato con sé in auto la sua candela accesa e ha guidato f
ino al suo paese con una sola mano, mentre con l’altra teneva la candela, badando che non cadesse e non si spegnesse. Per precauzione teneva sul sedile accanto una bottiglia piena d’acqua che potesse servirgli nella eventualità che la candela, sfuggendogli di mano, potesse bruciare la tappezzeria dell’auto. Giunto a casa col cuore palpitante di gioia per il dono che portava ai suoi cari, vide purtroppo la luce spegnersi all’improvviso nello scendere dall’automobile. Non si scoraggiò per il brutto segno. L’indomani portò da casa in ufficio una pentola con coperchio dove la candela ha viaggiato senza problemi, fino a raggiungere la sua abitazione.
Le luci di Betlemme mi hanno fatto pensare alle miriadi di luci accese nella povera chiesetta di Chamula nel Chiapas. Mi piacerebbe sapere come gli indios del Chiapas festeggino il Natale, ma non so dove attingere notizie.

                                                                                     
                                                                                                                                 




21 - Falce e rastrello

Sciacca 10 marzo 2005 giovedì

Stamattina io e Maria Elena Elena ci siamo alzate prima del solito, alle 5,30, e siamo uscite in anticipo per fare rifornimento di benzina e bere un caffé al bar.
La primavera si avverte anche dalla luce dell'alba. Nei mesi scorsi uscivamo col buio.
Ho fatto amicizia con un cane solitario. La prima volta che mi accorsi di lui, in piazza Saverio Friscia, non capivo perchè fosse fuori a quell'ora senza il padrone. La piazza è quasi sempre deserta all'alba e il cane gironzolava nei paraggi.
Non pensai che fosse un randagio, perché il suo aspetto mostrava buona salute. Solo ora, dopo averlo notato ogni mattina in quest'ultimi giorni, ho capito che si tratta di un cane senza padrone.
Lo chiamai e si avvicinò a me, mansueto, scodinzolando la coda e chiedendo con lo sguardo una carezza. Io e Maria Elena eravamo appena uscite dal chiosco del bar per il caffé e il cane ci seguì fino alla fermata dell'autobus.
Per associazione di idee, pensai alla triste fine di quel cane randagio di Sovareto, di cui avevo scritto la storia. Rivedevo nella memoria come mi apparve l’ultima volta che lo incontrai, il corpo sgangherato, la pelle flaccida che aveva perso il pelo, gli occhi senza sguardo, e pensai ai sensi di colpa che mi avevano punto per non averlo aiutato quando ero ancora in tempo.
Maria Elena mi fece osservare che il cane color miele di Piazza Saverio Friscia non avrebbe fatto la stessa fine. In piazza e nell’ adiacente Viale della Vittoria ci sono una paninoteca, addossata al recinto della Villa Comunale, dei bar, un supermercato, una salumeria. Ci saranno ogni giorno avanzi sufficienti per la sua alimentazione. Mi sentii rincuorata per la sua sorte.

Tornata a casa, il pensiero dell'imminente risveglio delle tartarughe mi ha ispirato l'idea, pensata da tanto tempo, di creare per loro un habitat migliore nel giardino della mamma, che è circondato da un muro, da cui sarebbero protette dagli animali randagi e anche dalla curiosità di bambini malintenzionati di passaggio.

Ho staccato dal muro, a cui era appesa, la mia bella falce e, calzati gli stivali di gomma, mi son messa a estirpare l'erba, bagnata dalla pioggia notturna, aiutandomi con la falce e le mani.
E' la seconda volta che faccio questo lavoro nella mia vita e ho provato lo stesso benessere della prima, due anni fa. Ricordo l'emozione di aver sentito l'odore della terra bagnata, dei finocchi selvatici, quando venivano tagliati, dell'acetosella e dei cardi spontanei . Ricordo che la mia falce risparmiava le belle piante di acanto, che quest'anno sono più numerose e rigogliose per le piogge abbondanti dell'autunno e dell'inverno. Da quando ho imparato a riconoscere l'acanto attraverso un bel servizio televisivo su questa pianta, che cresce spontanea a Siracusa, che gli artisti greci presero a modello per decorare i capitelli corinzi dei templi, io lo guardo crescere nel mio giardino con compiacimento.
Stamattina ho lavorato con la schiena china fino alle otto e un quarto: ho liberato un rettangolo di terra dall'acetosella e dall’avena selvatica, ho spianato col rastrello qualche lieve ondulazione, tolto le pietre, che ho ammassato a ridosso del muro di cinta. Un'ora e mezzo di lavoro in tutto.
Mi sono sentita più sciolta e leggera, certa di aver bruciato un po' di calorie e, spero, anche un po' di colesterolo. Questo lavoro ha fatto bene al corpo e anche allo spirito. "Mens sana in corpore sano" , ci hanno detto i latini, ma bisogna provare per credere. Mi sento bene nel corpo e nello spirito, quasi in simbiosi con i tre regni della Natura.
Il sole sta salendo nel cielo: si prospetta una bella giornata di luce.
                                                                                                                            
 

22 - Spenchi 

 

Sciacca 8 aprile 2005

Si chiama così il cane di Mario, mio nipote, trovato cucciolo abbandonato nel bosco di Ficuzza vicino a Palermo. Il pullman, che trasportava alcune classi di bambini in gita scolastica, si era fermato a Ficuzza e il cucciolo era stato raccolto da un alunno di Mario. Era una morbida palla color latte con sfumature miele e faceva tenerezza. Il bambino che l’aveva trovato era risoluto a portarlo con sé e Mario glielo permise, pensando che avrebbe avuto problemi a collocarlo in un’altra famiglia se i genitori del bambino si fossero opposti a tenerlo in casa. Gli precisò che acconsentiva ad affidargli il cucciolo e se i genitori gli avessero negato il consenso, Mario se ne sarebbe preso cura. La sua bontà non gli consentiva che venisse abbandonato per la seconda volta.
Si sa che in un momento di tenerezza può nascere uno slancio affettivo, specialmente nei bambini che non riflettono sulle conseguenze.
I timori di Mario si avverarono quando il pullman dei gitanti fece ritorno a Sciacca.
I genitori del suo alunno non vollero tenere il cane in casa e glielo riportarono. Mario, che al pari del suo alunno si era intenerito per il suo abbandono, decise di tenerlo con sé.
Nei primi mesi di vita lo affidò alla suocera che lo curò con amore, nutrendolo con un biberon da neonati.


Quando fu più grandicello lo portò nel giardino della sua casa, recintato da un’alta rete metallica.
Sono passati due anni e il cane è ormai adulto, ma ancora giocherellone e vivace. Il suo mantello è diventato color miele con chiazze bianche. E’ un bel bastardo, alto poco meno di un pastore tedesco e ha un occhio castano e uno celeste. Mario e la moglie Io trattano come se fosse un figlio.

Spenchi saluta festosamente la sua padrona
Purtroppo, per motivi di lavoro, Mario e la moglie vivono a Palermo e tornano a casa nei fine settimana. Spenchi sta solo tutto il giorno. Io, che abito accanto, lo vedo malinconico accucciato davanti al cancello in attesa dell’arrivo dei loro padroni, i quali, quando fanno ritornano a casa, lo colmano di tante carezze e affettuosità, che il cane si sente ripagato per la solitudine sofferta nella maggior parte della settimana. Talvolta mi capita di sentire le scambievoli effusioni tra cane e padroni e io ne provo piacere.
Nei giorni in cui il cane resta solo, il papà di Mario viene in giardino due volte al giorno per portargli il cibo e controllare la casa.
Stamattina, preoccupato per aver sentito dei rumori nella casa disabitata, venne a bussare alla mia porta perché insieme a Maria Elena andassi a vedere se fossero entrati dei ladri. Dietro il cancello il cane abbaiava non tanto a me, che mi vede spesso e mi conosce, ma a Maria Elena, che ha visto raramente e non riconosce come una della famiglia. Varcato il cancello Spenchi si avventò contro di lei mordendole il braccio.
Per fortuna Maria Elena indossava un cappotto di piumino e i denti del cane non riuscirono a bucare il braccio. Ma lasciarono tre segni viola sulla pelle, senza che fosse uscito del sangue, uno strappo alla camicia e due buchi sulla manica del piumino. Il papà di Mario lo rimproverò aspramente e il cane sembrò capire l’errore. Mentre percorrevamo la stradella che conduce alla casa accarezzavamo il cane per fargli capire che non gli eravamo ostili.
Entrati in casa e controllato che nessun ladro fosse entrato e che i rumori provenivano da una porta lasciata aperta e mossa dal vento, uscimmo fuori e trovammo il cane accucciato dietro il portone ad attenderci. Teneva la testa china e tutte e quattro le zampe erano colpite da uno strano tremore. Guaiva sommessamente mostrando di avere capito l’errore commesso con Maria Elena. Teneva la testa bassa e la coda tra le gambe, quasi aspettandosi una punizione o forse per desiderio di essere perdonato. Maria Elena gli accarezzò la testa ripetutamente chiamandolo per nome. Spenchi smise di tremare, si alzò incoraggiato e scodinzolò la coda accompagnandoci contento fino al cancello. Tutti e tre lo accarezzammo emozionati per la sensibilità mostrata dall’animale.
                                                                                                                                  

 

 

18 – E’ morta una Poltrona Spinosa

Sovareto 23-1-2005 domenica.

Stamattina ho passato alcune ore in giardino a raccogliere e passare al setaccio della terra, per scartare le pietre, che sono numerose nel mio giardino. L’ ho mescolata con concime organico, ho riempito alcuni vasi e piantato delle talee.
La mamma, che mi vedeva lavorare appoggiata al parapetto della sua veranda, mi ha detto tranquillamente che forse era morto uno dei suoi "cuscini di suocera".

Aggiungi immagineEchinocactus grusonii o Poltrona Spinosa

Speravo di aver capito male. Non può morire così una pianta che si guarda con compiacimento da oltre un decennio, una pianta che è difficile da riprodurre, che cresce lentamente.
Forse avevo capito male e continuai nel mio giardinaggio.
Finito il lavoro andai nella veranda della mamma a verificare.
La grossa palla spinosa, che manteneva ancora il colore verde e le spine gialle adunche, non sarebbe sembrata morta se non fosse apparsa un po’ inclinata, a differenza dell'altro "cuscino" accanto. Lo spinsi lateralmente col manico delle cesoie che avevo ancora in mano, come a volerlo raddrizzare, e mi accorsi che alla base era molliccio. Lo pressai dal basso verso l'alto e l'involucro spinoso si staccò, come un coperchio si solleva dalla pentola, lasciando scoprire un tronco centrale ricoperto da una polpa gelatinosa.

 La parte esterna spinosa, afflosciata a terra, mostra la putredine interna.





Ancora nel vaso il cuore della pianta, da cui si è staccato il manto spinoso

Peccato! Non so dire quanti anni siano passati da quando lo comprammo in un minuscolo vasetto, del diametro di pochi centimetri!
La mamma mi chiese se era morto e le feci vedere la poltiglia che era diventata. Non fece alcuna osservazione. Non gliene importava niente! Disse solo che bisognava buttare la pianta morta e riutilizzare la ciotola che l'ha contenuta per tanti anni.
Io le spiegai che le piante grasse muoiono se ricevono molta acqua, specialmente in inverno, e che bisogna togliere il sottovaso per permettere all'acqua sovrabbondante di scivolar via dai fori. In questo inverno la stagione è stata particolarmente piovosa come non si era mai visto prima.
Anch'io ho trovato nel mio giardino alcune piante grasse morte per l'eccessiva pioggia e mi sono amareggiata, ma non quanto per il grosso "cuscino di suocera". Le mie piante morte erano di specie comuni e ne ho altri esemplari. Sono state per me un campanello di allarme per mettere in salvo tutte le mie grosse piante che tengo nei vasi all'aperto nei balconi. Oltre ad alcuni Cuscini di suocera, ho dei grossi Ferocactus e Cappelli di prete, comprati tanti anni fa e cresciuti meravigliosamente sotto il mio sguardo affettuoso e mostrati con orgoglio a quanti si fossero affacciati al mio balcone.
Vedendo che la pioggia, sempre avara in Sicilia, quest'anno si mostra abbastanza generosa, un giorno trascinai le grosse ciotole non senza fatica, aiutandomi con una corda per trasferirle dal balcone alla veranda, al riparo dalla pioggia, dopo averle liberate del sottovaso pieno di acqua piovana. Dopo un periodo di bel tempo, poiché le ciotole erano numerose in veranda e mi davano intralcio, le ho riportate al balcone. Quando prevedo la pioggia, riparo i vasi con un vecchio grosso ombrellone da spiaggia.
A tavola dalla mamma, per il consueto pranzo domenicale, chiedo perché non sia dispiaciuta della morte della pianta quanto lo sono io. Mi risponde che non vale la pena dispiacersi per una pianta e che ne ricomprerà un'altra.
Dopo pranzo prendo la macchina fotografica e scatto alcune foto a ciò che appare ora del cuscino di suocera, prima del totale disfacimento.
Per quanto riguarda il nome della pianta, il mio libro la chiama "Poltrona spinosa". Il suo nome scientifico è "Echinocactus grusonii", il luogo d'origine il Messico centrale.
Da oggi in poi la chiamerò col nome di "Poltrona spinosa" e non più "Cuscino di suocera", nome dispregiativo certamente per la suocera, non per la pianta. Se avrò la fortuna di diventare anch'io suocera non vorrei essere immaginata seduta sulle spine della mia pianta preferita.                                                                                                                                  


 

 

 

16 - Tartarughe 15-1-2005

L’estate è calda e lunga in Sicilia e l’autunno è mite fino a dicembre.
Nell’estate di due anni fa mi regalarono due coppie di tartarughe adulte e dopo qualche mese una più piccola di età, forse proveniente dal Kossovo, che la proprietaria non poteva tenere più in casa. Quest’ultima era la più bella e la più mansueta. La chiamavo la kossovara, .
Io le sorvegliavo e le contavo ogni giorno. Mi preoccupavo quando qualcuna si nascondeva alla mia vista e mi tranquillizzavo quando l’indomani la rivedevo in giro. Il loro spazio, circondato da una bassa recinzione di rete metallica, era quasi interamente coperto da pietre piatte e da mattoni, perciò l’erba era scarsa. Dovevo provvedere ogni giorno alla loro alimentazione, spargendo qua e là foglie di lattuga, o mucchietti di pisellini cotti, di cui si mostravano ghiotte, e anche avanzi di pasta col pomodoro o di minestra. Inoltre dovevo fare la guardia al loro cibo, dopo essermi accorta che i gatti del vicinato e le numerose gazze e tortore, che nidificano tra i rami alti dei miei pini, mangiavano tutto alla svelta senza lasciare briciole.
Mentre le due coppie erano selvatiche e si nascondevano quando vedevano qualcuno in giro, la kossovara, abituata alle cure dell’uomo, girava fiduciosa nell’ampio spazio a loro riservato,
Tutto il giardino che circonda la mia casa non ha muri di recinzione. In mia assenza chiunque, oltre agli animali randagi, può entrare e avvicinarsi alla casa e anche alle tartarughe, quando io non ci sono.
Un giorno, dopo aver notato l’assenza della Kossovara, vidi una scala appoggiata al muro della mia casa, da cui sporge un lungo balcone. Dedussi che un ladro di passaggio voleva salire in casa. La scala però arrivava sotto la pensilina del balcone e il malintenzionato dovette desistere dai suoi cattivi propositi. La scala era stata sottratta ai miei vicini, che l’avevano lasciata fuori appoggiata ad un ulivo. Era il periodo della raccolta delle olive. Pensai che il probabile ladro, vedendo la bella tartaruga, se l’era portata con sé come magra consolazione per il mancato bottino.
Il 9 ottobre dovevo partire con Maria Elena per il Messico, per una vacanza di undici giorni.
Avevo letto in un libretto che le tartarughe cadono in letargo nel mese di ottobre, e questa notizia mi confortava, dovendo rimanere assente da casa per tanto tempo. Non c’era nessuno che si sarebbe preso cura delle mie bestiole. Il letargo avrebbe risolto il problema dell’alimentazione.

Metà settembre, mentre indugiavo in giardino guardando le mie tartarughe, il mio sguardo cadde su una pietra di colore e forma diversi da quelle che si trovano nel luogo: era piatta, tondeggiante e di colore verdastro. Incuriosita la raccolsi. Grande fu la mia sorpresa nel vedere che non era una pietra, ma una tartaruga neonata. Mi era sembrata una pietra piatta perché era capovolta e non poteva più rigirarsi e tornare in piedi. Sarebbe morta se non l’avessi raccolta.
Quindi le femmine adulte avevano deposto le uova chissà dove, senza che mi fossi accorta di nulla. Cercai in giardino nella speranza di trovarne delle altre. Non ne trovai. Pensai alla sorpresa che avrebbe avuto anche Maria Elena, la sera, al ritorno dall’ufficio!
La portai in casa e la deposi in una scatola di cartone con una fogliolina di lattuga. La guardavo con tenerezza, pensando che la vita che si rinnova dà una grande gioia. Il carapace era molle come la cartilagine, il colore delle piastre maculate era lucido e vivo.
Quando Maria Elena fu di ritorno, le dissi che c’era un “fiocco rosa “ in giardino.
- Che significa?
- Non sai che significa un “fiocco rosa “?
- Non lo so. Dimmi che è successo.
Le mostrai la tartarughina in una scatola. La prese con visibile gioia e se la mise nel palmo della mano:
- Com’è piccola? Gli occhi sono due punte di spillo! Non è più grande di una moneta!
La fotografò con la sua digitale accanto ad una tazzina da caffé, al telefonino, ad una penna, al suo pollice per confrontare la grandezza.





La fotografò pure accanto ad una squadra millimetrata, come aveva visto fare alla Polizia scientifica, per fissarne la misura: quattro centimetri, dalla testa alla coda.




Di giorno la tenevo libera in veranda, la sera la tenevo in casa dentro la scatola.
A dieci giorni dalla partenza per il Messico mi accorsi che la femmina più grossa aveva uno strano bitorzolo vicino all’orecchio sinistro. Tutta la testa era deforme.
- “Sarà stata morsicata da un insetto” – pensai.
La tenni sotto osservazione per alcuni giorni. Il bitorzolo non accennava a scomparire; inoltre la tartaruga schivava il cibo che le portavo, preferendo stare appartata. Era evidente che stava male.
Per sollecitazione di mio figlio Ignazio, la portai dal veterinario, che diagnosticò una cisti e mi prescrisse una pomata antibiotica da passare sulla parte malata, nella speranza che la guarigione sarebbe avvenuta nel giro di una settimana.
Alla vigilia della partenza affidai la tartaruga malata e la neonata a Ignazio, che le portò con sé nella sua casa ad Aci Castello, dove si sarebbe preso cura di loro durante la mia vacanza in Messico. Inoltre mi assicurò che avrebbe portato la tartaruga malata da un veterinario di Catania, specializzato in malattie dei rettili.
Ci restava solo un giorno per preparare le valigie, e affrontare il lungo viaggio in aereo nel continente oltre l’Atlantico. Con la mente sgombra da ogni preoccupazione, scesi in giardino per rilassarmi un po’ guardando le tre tartarughe rimaste.
In mia assenza si sarebbero arrangiate da sole con le poche erbe estive e con le foglie di alcune piante grasse che mostravano di non disdegnare.
Quel giorno ebbi un’altra sorpresa: trovai un'altra neonata, ancora più piccola della precedente, e un’altra ancora, morta, capovolta, con un grosso foro nel piastrone. Pensai che una gazza l’avesse mangiata.
A chi affidare la neonata viva?
L’unico vicino di casa a cui affidare l’ultima neonata era mio nipote Mario. Gliela diedi in una scatola di cartone insieme ad una lattuga e un po’ d’acqua in un coperchio da barattolo, raccomandandogli di non farle mancare mai una foglia di lattuga e di tenerla sempre in casa fino al mio ritorno.
Mentre mi trovavo in viaggio seppi da una telefonata a Ignazio che il veterinario di Catania aveva asportato chirurgicamente la cisti alla femmina malata, che si riprendeva bene ed era fuori pericolo..

* * *
Letargo o semiletargo?

All’inizio dell'inverno, pensando che durante il letargo le tartarughe siano incapaci di difendersi dai cani randagi o dai topi, le radunai in veranda, al coperto. Di notte le trasferivo in cucina, dove i topi non potevano arrivare. Il 20 dicembre smisero di mangiare e non si mossero dal loro alloggio, perciò credei che da questa data fosse iniziato il letargo. Le trasferii in cucina, dove non mi avrebbero dato alcun fastidio.
Bisognerebbe correggere quel libro in cui avevo letto che il letargo comincia in ottobre. L’autore non ha tenuto conto delle differenze climatiche tra le varie zone in cui le tartarughe vivono.
Stavano chete a dormire. Ma quando, abbassatasi la temperatura, accesi i termosifoni, si svegliarono e si misero a girare per la stanza come forsennate, arrecandomi non poco disturbo: dovevo tenere le porte chiuse, per timore che uscissero e si nascondessero in un altro posto della mia grande casa e perciò sarebbero sfuggite al mio controllo. Le misi in corridoio, lontano dal radiatore, dove la temperatura si manteneva più bassa. Mi sembrava un posto buono per far passare loro l'inverno. Al buio dentro una cassetta coperta, si muovevano appena, non avevano bisogno di cibo o di altro. Con lo stomaco e gli intestini vuoti non sporcavano e non si muovevano nell'esiguo spazio in cui le avevo collocate. Ma poi dubitai che il corridoio fosse un luogo adatto per il letargo: "Se stessero in giardino, come vuole Madre Natura, rimarrebbero immobili ad ogni ora del giorno?" Quando stavano in giardino, avevo osservato che appena il sole si alzava nel cielo e i raggi arrivavano nel loro nascondiglio, si svegliavano, si riscaldavano e si mettevano in moto; perciò passeggiavano, mangiavano e soddisfacevano i loro bisogni. Prima che il sole tramontasse tornavano a nascondersi e a immobilizzarsi.
Ricavai allora da una grande scatola di cartone una casa adatta a loro. In una parete tagliai una comoda apertura per farle uscire ed entrare a loro piacimento. Di notte tenevo la casa di cartone in corridoio; in tarda mattinata le spostavo in veranda.

Gennaio 2005 – Nella veranda inondata dal sole le tartarughe
in letargo si svegliano ed escono dalla casetta di cartone.


Appena i raggi arrivavano alla loro casetta di cartone, si svegliavano ed uscivano fuori a scaldarsi. Io scendevo in giardino a cercare un'erba che piace a loro, che conosco col nome di "cardella. Talvolta offrivo loro il cuore tenero di una lattuga o qualche cucchiaiata di minestra. Si mettevano in cerchio a mangiare. Le due piccoline si davano da fare più delle altre, aiutandosi con le zampette e con la bocca. Crescevano a vista d'occhio.
Al tramonto quasi tutte entravano spontaneamente nella casetta e non si muovevano più, fino a nuovo giorno.
La mancanza di calore sembrava paralizzarle.
Le raccoglievo tutte e sei insieme e le trasferivo al sicuro in corridoio, dove la temperatura era meno bassa rispetto all'esterno.
Mi meravigliavo nel vedere spesso i tentativi insistenti dei due maschi per accoppiarsi con le femmine, che invece si mostravano restie. A questo punto credei che non sarebbero mai cadute completamente in letargo.
Con l’abbassarsi della temperatura smisero di mangiare e si limitarono a uscire dalla casetta quando il sole le scioglieva dal torpore, ma solo per poco tempo.
Con l’arrivo dei primi tepori di marzo cominciai a pensare ad una diversa sistemazione delle mie tartarughe. Nel mio giardino non c'è recinto in muratura e quindi nessuna protezione; la bassa rete metallica serve solo per non farle fuggire, non a difenderle da eventuali ladri o animali randagi. Inoltre i pini non fanno crescere le erbe adatte alla loro alimentazione.
Invece il vicino giardino di mia madre è circondato da un muretto, sormontato da un'alta rete metallica. Lì le mie tartarughe sarebbero più protette; inoltre potrei coltivare lattughe e ortaggi, in modo che le mie care bestiole abbiano sempre cibo fresco a portata di bocca.

Il risveglio

Una domenica di marzo cominciai a lavorare nel giardino di mia madre per preparare il terreno dove costruire un nuovo recinto per le mie tartarughe.

Trascorsi altri due giorni all'aria aperta per smontare il vecchio recinto delle tartarughe e ricostruirlo nel nuovo terreno che avevo scelto. Fu una faticaccia, ma salutare. Divelsi i paletti per ripiantarli nel nuovo sito e sradicai con la falce le erbacce. Pranzai dalla mamma e continuai a lavorare anche dopo pranzo. Lasciai il lavoro a metà pomeriggio, giusto in tempo per rifare la doccia (ero zuppa di sudore e assetata) e correre in città per una faccenda da sbrigare. Prima di rincasare, comprai una quarantina di piantine di lattuga e una bustina di semi di spinaci, da mettere entro il recinto appena costruito.
Tornata a casa trovai le tartarughe tutte fuori dalla casetta a riscaldarsi ancora all'ultimo sole che lambiva la veranda. Avevano mangiato gran parte dell’erba che avevo raccolto per loro in giardino. Potevo quindi dire a metà marzo che le tartarughe si erano completamente svegliate.
L’indomani pensai che era venuto il momento di trasferirle nel nuovo sito, tranne le piccoline: temevo che il recinto non fosse ancora sicuro per loro. Poteva esserci qualche varco da cui fuggire, qualche nascondiglio tra le pietre in cui restare incastrate o capovolgersi. Le tartarughe di terra, come le mie, se si capovolgono muoiono, perché il loro scudo molto convesso le fa rimanere con le zampe in aria e, se non hanno qualche appiglio, restano capovolte fino a morire soffocate.
Adagiai entro il recinto la casetta di cartone delle tartarughe ancora addormentate, certa che il calore del sole le avrebbe svegliate, e misi le piccoline in una cassetta, per timore di perderle, se lasciate libere in un grande spazio. Sentivo quel giorno esplodere la primavera e volevo che anche le tartarughe ne godessero.
Accortami che mi era rimasta una lunga striscia di rete metallica, creai un recinto più piccolo dentro quello grande e, prima di aspettare che le bestiole si svegliassero da sole, le tirai fuori tutte quante e le lasciai libere nel recinto più piccolo. Lavorando in giardino, le avrei avuto facilmente sott'occhio. Scavai un solco lungo il recinto all'interno, concimai la terra smossa e piantai le lattughine, coprendo le radici con la terra soffice, dopo aver tolto le pietre, di cui la terra è piena. Alla fine coprii il solco con una striscia di rete per proteggere le piantine dalla voracità delle tartarughe.
Ogni tanto guardavo i miei animali, già svegli. I due piccolini si davano da fare beccando le foglioline di acetosella; il più piccolo dei maschi adulti, più sveglio di tutti, invece corteggiava una delle due femmine, più grossa di lui.
Piantate tutte le lattughe e sparsi i semi di spinaci, feci scorrere abbondantemente l'acqua nel solco e mi sedetti sull'erba per guardare le tartarughe e riposarmi. Era mezzogiorno. Lo spettacolo offertomi dalle tartarughe era incredibile. Le ultime nate sonnecchiavano seminascoste a mezz'ombra sotto alcune foglie. I due maschi adulti sembravano impazziti dalla voglia di accoppiarsi con una sola delle due femmine (quella che era stata operata). L'altra femmina camminava indisturbata, esplorando con curiosità la lunghezza del recinto.
Il corteggiamento è alquanto strano. Il maschio insegue minaccioso la femmina, urtandola a colpi di piastrone sulla parte posteriore della corazza. I colpi si sentono anche a distanza. La femmina scappa e il maschio la insegue e la spinge sgarbatamente per intimidirla.
Poi vidi entrare in azione il secondo maschio. La femmina scappava avanti e i due maschi la spingevano a colpi di piastrone. Alla fine questa cedeva (mi pareva malvolentieri) e avveniva l'accoppiamento. I due maschi, instancabili si davano il cambio. In quest'orgia mi sconcertò vedere un maschio accoppiarsi con l'altro. L'avevo visto anche l'anno scorso. “ L'omosessualità allora esiste anche negli animali? – pensai.
L'inseguimento e l'accoppiamento durò tutta la mattinata, senza pause. Ad un certo punto uno dei due maschi si accorse dell'altra femmina e partì all'attacco con lei. Ma l'attenzione per questa durò poco.
Io mi chiedevo:
- Dopo il letargo invernale, dopo il digiuno e la perdita di peso, chi dà loro così tanta energia?
Sono convinta che il Sole faccia questo miracolo.
Essendo ora di pranzo e riposatami abbastanza, lasciai le mie tartarughe alle loro orge e me ne tornai nella mia casa.
Mi auguro che nasceranno altri piccoli e si allarghi la famiglia.
Al tramonto del sole le raccolsi tutte quante nella casetta di cartone e le riportai nel corridoio della mia casa per il sonno notturno.
La mattina seguente le rimisi nel recinto. Nel pomeriggio andai a trovarle: l'atmosfera era completamente diversa, rasserenante al mio sguardo. La frenesia del giorno prima non c'era più. Alcune girovagavano pigramente entro il recinto, altre si godevano il sole.
Mia madre dice che sono animali stupidi e forse si stupisce che io perda tempo con loro.
Sparsi nel terreno alcune foglie di lattuga e tutte quante si misero a mangiare, mostrando di essere affamate.
Il bellissimo gatto della vicina, Figaro, apparve all'improvviso, fermandosi guardingo per la mia insolita presenza. Mi chiesi se fosse un pericolo per le tartarughe più piccole; ma poi scacciai questa preoccupazione, pensando che lo stesso gatto veniva nel recinto dello scorso anno a rubare la minestra o i pisellini cotti, che mettevo su un mattone per le mie bestiole. Le lasciai ai loro trastulli per tornare a riprenderle all'imbrunire. Preferivo che trascorressero la notte al sicuro, in casa. Ne trovai cinque: mancava la più piccina. Son brave le piccoline a nascondersi. Si infilano in qualche buco o si mimetizzano sotto l'erba. Strappai con le mani tutta l'erba per scoprire il terreno. Man mano cresceva l'ansia. Non c'era.
- Potrebbe averla mangiata Figaro.
- Forse no. Mancano le tracce.
- Forse ha trovato un varco in qualche parte del reticolato che non aderisce bene al terreno e si è allontanata.
Ispezionai tutto il perimetro, senza concludere nulla. Andai a prendere il rastrello per grattare il terreno. Strappai fino all'ultimo filo d'erba, rastrellai le pietre di piccole dimensioni (le grosse le avevo già tolte prima) senza capire dove fosse andata a finire.
Mi stavo rassegnando con dispiacere alla sua perdita, quando la vidi tra i denti del rastrello .
Che sollievo! Ero contenta. Si era incuneata sotto le pietre, a loro volta nascoste dall'erba.

Un pericoloso incidente

Avevo messo nel recinto piccolo un sottovaso rettangolare e riempito d'acqua in modo che potessero bere. L'altezza dell'acqua era di qualche centimetro. Il sottovaso mi pareva adatto anche per le due piccine, che non si sarebbero annegate. Stamattina, prima di uscire con la mamma, vidi due tartarughe grandi immobili nell'acqua a godersi il sole. Non restava altro spazio se le compagne avessero voluto immergersi anche loro.
Il sottovaso era troppo piccolo per tutte. Ne presi un altro, circolare, molto più grande lo collocai poco distante da quello rettangolare. Pensando che le piccine si sarebbero annegate nella vasca circolare, perché il livello dell'acqua superava la loro altezza, lo inclinai un poco in modo che in un lato l'acqua fosse bassa, adatta a loro, e nella parte opposta più alta, buona per le grandi. Tutto mi pareva a posto e ben fatto.
Nel pomeriggio, anziché scendere in giardino, preferii distendermi a letto per leggere il libro di una mia amica da poco pubblicato. Prima che tramontasse il sole, scesi nel mio giardino per raccogliere le ultime arance da un albero vicino alla casa e poi andai in quello della mamma per dare un’occhiata alle tartarughe.
Prima di varcare il cancello la mamma mi disse che una era capovolta e una piccolina stava in acqua. Io le dissi che bisognava rimetterla in piedi, altrimenti sarebbe morta soffocata. La mamma non lo sapeva e si affrettò a rimetterla in piedi.
Avvicinatami al recinto vidi la più piccina in acqua nella vasca grande e nella parte più profonda, completamente immersa. La testa era giù. Intuii che fosse annegata. La presi immediatamente in mano: non era rigida, ma non dava segni di vita.
Che scoramento! Che rabbia!
Avevo pensato che le piccine in quel punto si sarebbero annegate, ma non avevo pensato di mettere nella vasca delle pietre in modo che avrebbero avuto un appiglio per tenersi, per salirvi e tenere la testa fuori dall'acqua. Il fondo del grande sottovaso di plastica è liscio e perciò la piccina era scivolata nel punto più profondo, senza trovare qualcosa a cui aggrapparsi.
Pensai a un bambino che annega in una piscina per adulti, quando sfugge al loro controllo. E' successo qualche volta.
Mi sentivo colpevole di aver causato la sua morte. Non c'era più rimedio; pensavo che la sera avrei dato la brutta notizia a Maria Elena, che avrebbe provato lo stesso mio dispiacere.
Mentre scorrevano tali pensieri nella mia mente, tenevo la piccina a testa in giù, pressando il molle piastrone con il pollice, nell'estremo tentativo di farle uscire l'acqua dai polmoni. La pressione le fece uscire il collo e aprire la bocca da cui uscì qualche goccia d'acqua. Continuai senza speranza a premere più volte, fin quando le uscì un flebile fischio. Scorata la depositai a terra, al sole. Non sapevo quanto tempo fosse stata sott'acqua.
Pensai che sarebbe stato meglio separare le adulte dalle neonate, mettendo le prime nel recinto più grande e lasciando le due neonate in quello più piccolo.

Come prevedevo, dato uno sguardo al grande spazio in cui improvvisamente si trovarono, le adulte si diressero correndo verso il muretto fitto di piante, sotto cui scomparvero. Nel recinto piccolo erano rimaste quella annegata, immobile sotto l'ultimo raggio di sole, e la sorellina, che cercava un nascondiglio per passarvi la notte. Le presi tutte e due e le misi in una scatola di cartone in veranda per portarmele a casa. Indugiai un poco pensierosa per quanto era accaduto a causa della mia imprudenza. Ad un tratto mi parve che l'annegata avesse mosso una zampetta. Credei che fosse uno scherzo della mia vista. La presi in mano e la toccai in tutti i punti. Era appena percepibile qualche movimento delle zampe e della testa. Allora non era morta!
Ero incredula. Continuai a stimolarla e i suoi movimenti, anche se piccolissimi, si vedevano. Chiamai mia madre e gliela feci vedere. Anche lei constatò che era viva. Fu contenta più per me che per quell’esserino risorto. La rimisi nella scatola al sole e aspettai per vedere come sarebbe stata la ripresa. Nell'attesa io e mia madre iniziammo una partita a carte. Tramontato il sole, misi le due piccine in libertà sul tavolo dove giocavamo, per averle sotto controllo. Quella sana girava incuriosita attorno all'orlo del tavolo; l'altra, senza forze, stava ferma, ma ogni tanto girava la testa.
Finita la partita, me ne tornai a casa con le due tartarughine, rasserenata e contenta. Per mia colpa si era annegata, ma con il mio intuito si è salvata. Pensai di chiamarla Mosina, in ricordo di Mosè salvato dalle acque del Nilo.                                                                                  
                                                










26 - Fiori bianchi

Sciacca 7 maggio 2009

La primavera è sempre bene accolta dopo il grigiore invernale. Chi vive in una casa circondata da terreno si accorge, prima di chi vive in città, dei segnali che annunziano l’esplosione della nuova vita. Quando apro i balconi che si affacciano su un filare di aranci sono investita da un penetrante profumo di zagara. Se giro sotto gli alberi sono inoltre gratificata dalla vista dei carnosi fiori bianchi. Macchie fitte di acanti mettono in bella mostra le grandi foglie lucide, da cui si innalzano gli steli fioriti.
Nessuno ha piantato l’acanto nel mio terreno e non ricordo quando vidi la prima piantina. Nei terreni circostanti non se ne vedono. Nel mio la pianta si è moltiplicata nel corso degli anni e si trova per lo più lungo il perimetro del terreno. Non può crescere nell’interno perché il mio vicino, Luigi, quando col trattore ara il suo terreno confinante col mio, fa un giretto intorno alla mia casa per estirpare le erbacce tralasciando tutto ciò che è nel perimetro. Quando ho voglia di stare all’aperto, a contatto diretto con la terra, prendo la falce per tagliare le erbacce risparmiate dal trattore e lascio vivere gli acanti.
Ieri all’imbrunire, durante un mio giretto, mi apparve all’improvviso un fascio di fiori mai visti prima: fiori bianchi, all’interno dei quali spiccava un lucido bottone nero. Speravo che i fiori vivessero ancora fino all’indomani mattina per poterli fotografare alla luce vivida del sole. Spuntavano da una pianta che non mi era nuova per averla vista nel mio terreno e che consideravo erbaccia. Quei fiori candidi mi sembravano come il cigno della favola del “Brutto anatroccolo”.




Fiori bianchi


Insetto sul cardo selvatico



Acanto

Stamattina con la macchina fotografica mi diressi nel bordo dove avevo visto i fiori e con mio cruccio non ve li trovai: gli steli ritti mostravano i calici senza petali. Peccato!
Ma la speranza di fotografare i miei bei fiori non andò delusa: ne trovai un altro fascio nelle vicinanze che fotografai con gioia. Ma fotografai anche un insetto posato su un bel fiore di cardo, dei fiorellini minuscoli di campo e naturalmente i fiori di acanto.
































                                                                                                                                  









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