22 - Spenchi
Sciacca 8 aprile 2005
Si
chiama così il cane di Mario, mio nipote, trovato cucciolo abbandonato
nel bosco di Ficuzza vicino a Palermo. Il pullman, che trasportava
alcune classi di bambini in gita scolastica, si era fermato a Ficuzza e
il cucciolo era stato raccolto da un alunno di Mario. Era una morbida
palla color latte con sfumature miele e faceva tenerezza. Il bambino che
l’aveva trovato era risoluto a portarlo con sé e Mario glielo permise,
pensando che avrebbe avuto problemi a collocarlo in un’altra famiglia se
i genitori del bambino si fossero opposti a tenerlo in casa. Gli
precisò che acconsentiva ad affidargli il cucciolo e se i genitori gli
avessero negato il consenso, Mario se ne sarebbe preso cura. La sua
bontà non gli consentiva che venisse abbandonato per la seconda volta.
Si
sa che in un momento di tenerezza può nascere uno slancio affettivo,
specialmente nei bambini che non riflettono sulle conseguenze.
I timori di Mario si avverarono quando il pullman dei gitanti fece ritorno a Sciacca.
I
genitori del suo alunno non vollero tenere il cane in casa e glielo
riportarono. Mario, che al pari del suo alunno si era intenerito per il
suo abbandono, decise di tenerlo con sé.
Nei primi mesi di vita lo affidò alla suocera che lo curò con amore, nutrendolo con un biberon da neonati.
Quando fu più grandicello lo portò nel giardino della sua casa, recintato da un’alta rete metallica.
Sono
passati due anni e il cane è ormai adulto, ma ancora giocherellone e
vivace. Il suo mantello è diventato color miele con chiazze bianche. E’
un bel bastardo, alto poco meno di un pastore tedesco e ha un occhio
castano e uno celeste. Mario e la moglie Io trattano come se fosse un
figlio.
Spenchi saluta festosamente la sua padrona
Purtroppo,
per motivi di lavoro, Mario e la moglie vivono a Palermo e tornano a
casa nei fine settimana. Spenchi sta solo tutto il giorno. Io, che abito
accanto, lo vedo malinconico accucciato davanti al cancello in attesa
dell’arrivo dei loro padroni, i quali, quando fanno ritornano a casa, lo
colmano di tante carezze e affettuosità, che il cane si sente ripagato
per la solitudine sofferta nella maggior parte della settimana. Talvolta
mi capita di sentire le scambievoli effusioni tra cane e padroni e io
ne provo piacere.
Nei giorni in cui il cane resta solo, il papà di
Mario viene in giardino due volte al giorno per portargli il cibo e
controllare la casa.
Stamattina, preoccupato per aver sentito dei
rumori nella casa disabitata, venne a bussare alla mia porta perché
insieme a Maria Elena andassi a vedere se fossero entrati dei ladri.
Dietro il cancello il cane abbaiava non tanto a me, che mi vede spesso e
mi conosce, ma a Maria Elena, che ha visto raramente e non riconosce
come una della famiglia. Varcato il cancello Spenchi si avventò contro
di lei mordendole il braccio.
Per fortuna Maria Elena indossava un
cappotto di piumino e i denti del cane non riuscirono a bucare il
braccio. Ma lasciarono tre segni viola sulla pelle, senza che fosse
uscito del sangue, uno strappo alla camicia e due buchi sulla manica del
piumino. Il papà di Mario lo rimproverò aspramente e il cane sembrò
capire l’errore. Mentre percorrevamo la stradella che conduce alla casa
accarezzavamo il cane per fargli capire che non gli eravamo ostili.
Entrati
in casa e controllato che nessun ladro fosse entrato e che i rumori
provenivano da una porta lasciata aperta e mossa dal vento, uscimmo
fuori e trovammo il cane accucciato dietro il portone ad attenderci.
Teneva la testa china e tutte e quattro le zampe erano colpite da uno
strano tremore. Guaiva sommessamente mostrando di avere capito l’errore
commesso con Maria Elena. Teneva la testa bassa e la coda tra le gambe,
quasi aspettandosi una punizione o forse per desiderio di essere
perdonato. Maria Elena gli accarezzò la testa ripetutamente chiamandolo
per nome. Spenchi smise di tremare, si alzò incoraggiato e scodinzolò la
coda accompagnandoci contento fino al cancello. Tutti e tre lo
accarezzammo emozionati per la sensibilità mostrata dall’animale.
18 – E’ morta una Poltrona Spinosa
Sovareto 23-1-2005 domenica.
Stamattina
ho passato alcune ore in giardino a raccogliere e passare al setaccio
della terra, per scartare le pietre, che sono numerose nel mio
giardino. L’ ho mescolata con concime organico, ho riempito alcuni vasi e
piantato delle talee.
La mamma, che mi vedeva lavorare appoggiata al
parapetto della sua veranda, mi ha detto tranquillamente che forse era
morto uno dei suoi "cuscini di suocera".
Echinocactus grusonii o Poltrona Spinosa
Speravo
di aver capito male. Non può morire così una pianta che si guarda con
compiacimento da oltre un decennio, una pianta che è difficile da
riprodurre, che cresce lentamente.
Forse avevo capito male e continuai nel mio giardinaggio.
Finito il lavoro andai nella veranda della mamma a verificare.
La
grossa palla spinosa, che manteneva ancora il colore verde e le spine
gialle adunche, non sarebbe sembrata morta se non fosse apparsa un po’
inclinata, a differenza dell'altro "cuscino" accanto. Lo spinsi
lateralmente col manico delle cesoie che avevo ancora in mano, come a
volerlo raddrizzare, e mi accorsi che alla base era molliccio. Lo
pressai dal basso verso l'alto e l'involucro spinoso si staccò, come un
coperchio si solleva dalla pentola, lasciando scoprire un tronco
centrale ricoperto da una polpa gelatinosa.
La parte esterna spinosa, afflosciata a terra, mostra la putredine interna.
Ancora nel vaso il cuore della pianta, da cui si è staccato il manto spinoso
Peccato! Non so dire quanti anni siano passati da quando lo comprammo in un minuscolo vasetto, del diametro di pochi centimetri!
La
mamma mi chiese se era morto e le feci vedere la poltiglia che era
diventata. Non fece alcuna osservazione. Non gliene importava niente!
Disse solo che bisognava buttare la pianta morta e riutilizzare la
ciotola che l'ha contenuta per tanti anni.
Io le spiegai che le
piante grasse muoiono se ricevono molta acqua, specialmente in inverno, e
che bisogna togliere il sottovaso per permettere all'acqua
sovrabbondante di scivolar via dai fori. In questo inverno la stagione è
stata particolarmente piovosa come non si era mai visto prima.
Anch'io
ho trovato nel mio giardino alcune piante grasse morte per l'eccessiva
pioggia e mi sono amareggiata, ma non quanto per il grosso "cuscino di
suocera". Le mie piante morte erano di specie comuni e ne ho altri
esemplari. Sono state per me un campanello di allarme per mettere in
salvo tutte le mie grosse piante che tengo nei vasi all'aperto nei
balconi. Oltre ad alcuni Cuscini di suocera, ho dei grossi Ferocactus e
Cappelli di prete, comprati tanti anni fa e cresciuti meravigliosamente
sotto il mio sguardo affettuoso e mostrati con orgoglio a quanti si
fossero affacciati al mio balcone.
Vedendo che la pioggia, sempre
avara in Sicilia, quest'anno si mostra abbastanza generosa, un giorno
trascinai le grosse ciotole non senza fatica, aiutandomi con una corda
per trasferirle dal balcone alla veranda, al riparo dalla pioggia, dopo
averle liberate del sottovaso pieno di acqua piovana. Dopo un periodo di
bel tempo, poiché le ciotole erano numerose in veranda e mi davano
intralcio, le ho riportate al balcone. Quando prevedo la pioggia, riparo
i vasi con un vecchio grosso ombrellone da spiaggia.
A tavola dalla
mamma, per il consueto pranzo domenicale, chiedo perché non sia
dispiaciuta della morte della pianta quanto lo sono io. Mi risponde che
non vale la pena dispiacersi per una pianta e che ne ricomprerà
un'altra.
Dopo pranzo prendo la macchina fotografica e scatto alcune
foto a ciò che appare ora del cuscino di suocera, prima del totale
disfacimento.
Per quanto riguarda il nome della pianta, il mio libro
la chiama "Poltrona spinosa". Il suo nome scientifico è "Echinocactus
grusonii", il luogo d'origine il Messico centrale.
Da oggi in poi la
chiamerò col nome di "Poltrona spinosa" e non più "Cuscino di suocera",
nome dispregiativo certamente per la suocera, non per la pianta. Se
avrò la fortuna di diventare anch'io suocera non vorrei essere
immaginata seduta sulle spine della mia pianta preferita.
16 - Tartarughe 15-1-2005
L’estate è calda e lunga in Sicilia e l’autunno è mite fino a dicembre.
Nell’estate di due anni fa mi regalarono due coppie di
tartarughe adulte e dopo qualche mese una più piccola di età, forse
proveniente dal Kossovo, che la proprietaria non poteva tenere più in
casa. Quest’ultima era la più bella e la più mansueta. La chiamavo la
kossovara, .
Io le sorvegliavo e le contavo ogni giorno. Mi
preoccupavo quando qualcuna si nascondeva alla mia vista e mi
tranquillizzavo quando l’indomani la rivedevo in giro. Il loro spazio,
circondato da una bassa recinzione di rete metallica, era quasi
interamente coperto da pietre piatte e da mattoni, perciò l’erba era
scarsa. Dovevo provvedere ogni giorno alla loro alimentazione, spargendo
qua e là foglie di lattuga, o mucchietti di pisellini cotti, di cui si
mostravano ghiotte, e anche avanzi di pasta col pomodoro o di minestra.
Inoltre dovevo fare la guardia al loro cibo, dopo essermi accorta che i
gatti del vicinato e le numerose gazze e tortore, che nidificano tra i
rami alti dei miei pini, mangiavano tutto alla svelta senza lasciare
briciole.
Mentre le due coppie erano selvatiche e si nascondevano
quando vedevano qualcuno in giro, la kossovara, abituata alle cure
dell’uomo, girava fiduciosa nell’ampio spazio a loro riservato,
Tutto
il giardino che circonda la mia casa non ha muri di recinzione. In mia
assenza chiunque, oltre agli animali randagi, può entrare e avvicinarsi
alla casa e anche alle tartarughe, quando io non ci sono.
Un giorno,
dopo aver notato l’assenza della Kossovara, vidi una scala appoggiata al
muro della mia casa, da cui sporge un lungo balcone. Dedussi che un
ladro di passaggio voleva salire in casa. La scala però arrivava sotto
la pensilina del balcone e il malintenzionato dovette desistere dai suoi
cattivi propositi. La scala era stata sottratta ai miei vicini, che
l’avevano lasciata fuori appoggiata ad un ulivo. Era il periodo della
raccolta delle olive. Pensai che il probabile ladro, vedendo la bella
tartaruga, se l’era portata con sé come magra consolazione per il
mancato bottino.
Il 9 ottobre dovevo partire con Maria Elena per il Messico, per una vacanza di undici giorni.
Avevo letto in un libretto che le tartarughe cadono in letargo nel mese
di ottobre, e questa notizia mi confortava, dovendo rimanere assente da
casa per tanto tempo. Non c’era nessuno che si sarebbe preso cura delle
mie bestiole. Il letargo avrebbe risolto il problema
dell’alimentazione.
Metà settembre, mentre indugiavo in giardino
guardando le mie tartarughe, il mio sguardo cadde su una pietra di
colore e forma diversi da quelle che si trovano nel luogo: era piatta,
tondeggiante e di colore verdastro. Incuriosita la raccolsi. Grande fu
la mia sorpresa nel vedere che non era una pietra, ma una tartaruga
neonata. Mi era sembrata una pietra piatta perché era capovolta e non
poteva più rigirarsi e tornare in piedi. Sarebbe morta se non l’avessi
raccolta.
Quindi le femmine adulte avevano deposto le uova chissà
dove, senza che mi fossi accorta di nulla. Cercai in giardino nella
speranza di trovarne delle altre. Non ne trovai. Pensai alla sorpresa
che avrebbe avuto anche Maria Elena, la sera, al ritorno dall’ufficio!
La
portai in casa e la deposi in una scatola di cartone con una fogliolina
di lattuga. La guardavo con tenerezza, pensando che la vita che si
rinnova dà una grande gioia. Il carapace era molle come la cartilagine,
il colore delle piastre maculate era lucido e vivo.
Quando Maria Elena fu di ritorno, le dissi che c’era un “fiocco rosa “ in giardino.
- Che significa?
- Non sai che significa un “fiocco rosa “?
- Non lo so. Dimmi che è successo.
Le mostrai la tartarughina in una scatola. La prese con visibile gioia e se la mise nel palmo della mano:
- Com’è piccola? Gli occhi sono due punte di spillo! Non è più grande di una moneta!
La
fotografò con la sua digitale accanto ad una tazzina da caffé, al
telefonino, ad una penna, al suo pollice per confrontare la grandezza.
La
fotografò pure accanto ad una squadra millimetrata, come aveva visto
fare alla Polizia scientifica, per fissarne la misura: quattro
centimetri, dalla testa alla coda.
Di giorno la tenevo libera in veranda, la sera la tenevo in casa dentro la scatola.
A
dieci giorni dalla partenza per il Messico mi accorsi che la femmina
più grossa aveva uno strano bitorzolo vicino all’orecchio sinistro.
Tutta la testa era deforme.
- “Sarà stata morsicata da un insetto” – pensai.
La
tenni sotto osservazione per alcuni giorni. Il bitorzolo non accennava
a scomparire; inoltre la tartaruga schivava il cibo che le portavo,
preferendo stare appartata. Era evidente che stava male.
Per
sollecitazione di mio figlio Ignazio, la portai dal veterinario, che
diagnosticò una cisti e mi prescrisse una pomata antibiotica da passare
sulla parte malata, nella speranza che la guarigione sarebbe avvenuta
nel giro di una settimana.
Alla vigilia della partenza affidai la
tartaruga malata e la neonata a Ignazio, che le portò con sé nella sua
casa ad Aci Castello, dove si sarebbe preso cura di loro durante la mia
vacanza in Messico. Inoltre mi assicurò che avrebbe portato la tartaruga
malata da un veterinario di Catania, specializzato in malattie dei
rettili.
Ci restava solo un giorno per preparare le valigie, e
affrontare il lungo viaggio in aereo nel continente oltre l’Atlantico.
Con la mente sgombra da ogni preoccupazione, scesi in giardino per
rilassarmi un po’ guardando le tre tartarughe rimaste.
In mia assenza
si sarebbero arrangiate da sole con le poche erbe estive e con le
foglie di alcune piante grasse che mostravano di non disdegnare.
Quel
giorno ebbi un’altra sorpresa: trovai un'altra neonata, ancora più
piccola della precedente, e un’altra ancora, morta, capovolta, con un
grosso foro nel piastrone. Pensai che una gazza l’avesse mangiata.
A chi affidare la neonata viva?
L’unico
vicino di casa a cui affidare l’ultima neonata era mio nipote Mario.
Gliela diedi in una scatola di cartone insieme ad una lattuga e un po’
d’acqua in un coperchio da barattolo, raccomandandogli di non farle
mancare mai una foglia di lattuga e di tenerla sempre in casa fino al
mio ritorno.
Mentre mi trovavo in viaggio seppi da una telefonata a
Ignazio che il veterinario di Catania aveva asportato chirurgicamente la
cisti alla femmina malata, che si riprendeva bene ed era fuori
pericolo..
* * *
Letargo o semiletargo?
All’inizio
dell'inverno, pensando che durante il letargo le tartarughe siano
incapaci di difendersi dai cani randagi o dai topi, le radunai in
veranda, al coperto. Di notte le trasferivo in cucina, dove i topi non
potevano arrivare. Il 20 dicembre smisero di mangiare e non si mossero
dal loro alloggio, perciò credei che da questa data fosse iniziato il
letargo. Le trasferii in cucina, dove non mi avrebbero dato alcun
fastidio.
Bisognerebbe correggere quel libro in cui avevo letto che
il letargo comincia in ottobre. L’autore non ha tenuto conto delle
differenze climatiche tra le varie zone in cui le tartarughe vivono.
Stavano
chete a dormire. Ma quando, abbassatasi la temperatura, accesi i
termosifoni, si svegliarono e si misero a girare per la stanza come
forsennate, arrecandomi non poco disturbo: dovevo tenere le porte
chiuse, per timore che uscissero e si nascondessero in un altro posto
della mia grande casa e perciò sarebbero sfuggite al mio controllo. Le
misi in corridoio, lontano dal radiatore, dove la temperatura si
manteneva più bassa. Mi sembrava un posto buono per far passare loro
l'inverno. Al buio dentro una cassetta coperta, si muovevano appena, non
avevano bisogno di cibo o di altro. Con lo stomaco e gli intestini
vuoti non sporcavano e non si muovevano nell'esiguo spazio in cui le
avevo collocate. Ma poi dubitai che il corridoio fosse un luogo adatto
per il letargo: "Se stessero in giardino, come vuole Madre Natura,
rimarrebbero immobili ad ogni ora del giorno?" Quando stavano in
giardino, avevo osservato che appena il sole si alzava nel cielo e i
raggi arrivavano nel loro nascondiglio, si svegliavano, si riscaldavano e
si mettevano in moto; perciò passeggiavano, mangiavano e
soddisfacevano i loro bisogni. Prima che il sole tramontasse tornavano a
nascondersi e a immobilizzarsi.
Ricavai allora da una grande scatola
di cartone una casa adatta a loro. In una parete tagliai una comoda
apertura per farle uscire ed entrare a loro piacimento. Di notte tenevo
la casa di cartone in corridoio; in tarda mattinata le spostavo in
veranda.
Gennaio 2005 – Nella veranda inondata dal sole le tartarughe
in letargo si svegliano ed escono dalla casetta di cartone.
Appena
i raggi arrivavano alla loro casetta di cartone, si svegliavano ed
uscivano fuori a scaldarsi. Io scendevo in giardino a cercare un'erba
che piace a loro, che conosco col nome di "cardella. Talvolta offrivo
loro il cuore tenero di una lattuga o qualche cucchiaiata di minestra.
Si mettevano in cerchio a mangiare. Le due piccoline si davano da fare
più delle altre, aiutandosi con le zampette e con la bocca. Crescevano a
vista d'occhio.
Al tramonto quasi tutte entravano spontaneamente nella casetta e non si muovevano più, fino a nuovo giorno.
La mancanza di calore sembrava paralizzarle.
Le
raccoglievo tutte e sei insieme e le trasferivo al sicuro in corridoio,
dove la temperatura era meno bassa rispetto all'esterno.
Mi
meravigliavo nel vedere spesso i tentativi insistenti dei due maschi per
accoppiarsi con le femmine, che invece si mostravano restie. A questo
punto credei che non sarebbero mai cadute completamente in letargo.
Con
l’abbassarsi della temperatura smisero di mangiare e si limitarono a
uscire dalla casetta quando il sole le scioglieva dal torpore, ma solo
per poco tempo.
Con l’arrivo dei primi tepori di marzo cominciai a
pensare ad una diversa sistemazione delle mie tartarughe. Nel mio
giardino non c'è recinto in muratura e quindi nessuna protezione; la
bassa rete metallica serve solo per non farle fuggire, non a difenderle
da eventuali ladri o animali randagi. Inoltre i pini non fanno crescere
le erbe adatte alla loro alimentazione.
Invece il vicino giardino di
mia madre è circondato da un muretto, sormontato da un'alta rete
metallica. Lì le mie tartarughe sarebbero più protette; inoltre potrei
coltivare lattughe e ortaggi, in modo che le mie care bestiole abbiano
sempre cibo fresco a portata di bocca.
Il risveglio
Una
domenica di marzo cominciai a lavorare nel giardino di mia madre per
preparare il terreno dove costruire un nuovo recinto per le mie
tartarughe.
Trascorsi altri due giorni all'aria aperta per
smontare il vecchio recinto delle tartarughe e ricostruirlo nel nuovo
terreno che avevo scelto. Fu una faticaccia, ma salutare. Divelsi i
paletti per ripiantarli nel nuovo sito e sradicai con la falce le
erbacce. Pranzai dalla mamma e continuai a lavorare anche dopo
pranzo. Lasciai il lavoro a metà pomeriggio, giusto in tempo per rifare
la doccia (ero zuppa di sudore e assetata) e correre in città per una
faccenda da sbrigare. Prima di rincasare, comprai una quarantina di
piantine di lattuga e una bustina di semi di spinaci, da mettere entro
il recinto appena costruito.
Tornata a casa trovai le tartarughe
tutte fuori dalla casetta a riscaldarsi ancora all'ultimo sole che
lambiva la veranda. Avevano mangiato gran parte dell’erba che avevo
raccolto per loro in giardino. Potevo quindi dire a metà marzo che le
tartarughe si erano completamente svegliate.
L’indomani pensai
che era venuto il momento di trasferirle nel nuovo sito, tranne le
piccoline: temevo che il recinto non fosse ancora sicuro per loro.
Poteva esserci qualche varco da cui fuggire, qualche nascondiglio tra le
pietre in cui restare incastrate o capovolgersi. Le tartarughe di
terra, come le mie, se si capovolgono muoiono, perché il loro scudo
molto convesso le fa rimanere con le zampe in aria e, se non hanno
qualche appiglio, restano capovolte fino a morire soffocate.
Adagiai
entro il recinto la casetta di cartone delle tartarughe ancora
addormentate, certa che il calore del sole le avrebbe svegliate, e misi
le piccoline in una cassetta, per timore di perderle, se lasciate libere
in un grande spazio. Sentivo quel giorno esplodere la primavera e
volevo che anche le tartarughe ne godessero.
Accortami che mi era
rimasta una lunga striscia di rete metallica, creai un recinto più
piccolo dentro quello grande e, prima di aspettare che le bestiole si
svegliassero da sole, le tirai fuori tutte quante e le lasciai libere
nel recinto più piccolo. Lavorando in giardino, le avrei avuto
facilmente sott'occhio. Scavai un solco lungo il recinto all'interno,
concimai la terra smossa e piantai le lattughine, coprendo le radici con
la terra soffice, dopo aver tolto le pietre, di cui la terra è piena.
Alla fine coprii il solco con una striscia di rete per proteggere le
piantine dalla voracità delle tartarughe.
Ogni tanto guardavo i miei
animali, già svegli. I due piccolini si davano da fare beccando le
foglioline di acetosella; il più piccolo dei maschi adulti, più sveglio
di tutti, invece corteggiava una delle due femmine, più grossa di lui.
Piantate
tutte le lattughe e sparsi i semi di spinaci, feci scorrere
abbondantemente l'acqua nel solco e mi sedetti sull'erba per guardare
le tartarughe e riposarmi. Era mezzogiorno. Lo spettacolo offertomi
dalle tartarughe era incredibile. Le ultime nate sonnecchiavano
seminascoste a mezz'ombra sotto alcune foglie. I due maschi adulti
sembravano impazziti dalla voglia di accoppiarsi con una sola delle due
femmine (quella che era stata operata). L'altra femmina camminava
indisturbata, esplorando con curiosità la lunghezza del recinto.
Il
corteggiamento è alquanto strano. Il maschio insegue minaccioso la
femmina, urtandola a colpi di piastrone sulla parte posteriore della
corazza. I colpi si sentono anche a distanza. La femmina scappa e il
maschio la insegue e la spinge sgarbatamente per intimidirla.
Poi
vidi entrare in azione il secondo maschio. La femmina scappava avanti e i
due maschi la spingevano a colpi di piastrone. Alla fine questa cedeva
(mi pareva malvolentieri) e avveniva l'accoppiamento. I due maschi,
instancabili si davano il cambio. In quest'orgia mi sconcertò vedere un
maschio accoppiarsi con l'altro. L'avevo visto anche l'anno scorso. “
L'omosessualità allora esiste anche negli animali? – pensai.
L'inseguimento
e l'accoppiamento durò tutta la mattinata, senza pause. Ad un certo
punto uno dei due maschi si accorse dell'altra femmina e partì
all'attacco con lei. Ma l'attenzione per questa durò poco.
Io mi chiedevo:
- Dopo il letargo invernale, dopo il digiuno e la perdita di peso, chi dà loro così tanta energia?
Sono convinta che il Sole faccia questo miracolo.
Essendo ora di pranzo e riposatami abbastanza, lasciai le mie tartarughe alle loro orge e me ne tornai nella mia casa.
Mi auguro che nasceranno altri piccoli e si allarghi la famiglia.
Al
tramonto del sole le raccolsi tutte quante nella casetta di cartone e
le riportai nel corridoio della mia casa per il sonno notturno.
La
mattina seguente le rimisi nel recinto. Nel pomeriggio andai a trovarle:
l'atmosfera era completamente diversa, rasserenante al mio sguardo. La
frenesia del giorno prima non c'era più. Alcune girovagavano pigramente
entro il recinto, altre si godevano il sole.
Mia madre dice che sono animali stupidi e forse si stupisce che io perda tempo con loro.
Sparsi nel terreno alcune foglie di lattuga e tutte quante si misero a mangiare, mostrando di essere affamate.
Il
bellissimo gatto della vicina, Figaro, apparve all'improvviso,
fermandosi guardingo per la mia insolita presenza. Mi chiesi se fosse
un pericolo per le tartarughe più piccole; ma poi scacciai questa
preoccupazione, pensando che lo stesso gatto veniva nel recinto dello
scorso anno a rubare la minestra o i pisellini cotti, che mettevo su un
mattone per le mie bestiole. Le lasciai ai loro trastulli per tornare a
riprenderle all'imbrunire. Preferivo che trascorressero la notte al
sicuro, in casa. Ne trovai cinque: mancava la più piccina. Son brave le
piccoline a nascondersi. Si infilano in qualche buco o si mimetizzano
sotto l'erba. Strappai con le mani tutta l'erba per scoprire il terreno.
Man mano cresceva l'ansia. Non c'era.
- Potrebbe averla mangiata Figaro.
- Forse no. Mancano le tracce.
- Forse ha trovato un varco in qualche parte del reticolato che non aderisce bene al terreno e si è allontanata.
Ispezionai
tutto il perimetro, senza concludere nulla. Andai a prendere il
rastrello per grattare il terreno. Strappai fino all'ultimo filo d'erba,
rastrellai le pietre di piccole dimensioni (le grosse le avevo già
tolte prima) senza capire dove fosse andata a finire.
Mi stavo rassegnando con dispiacere alla sua perdita, quando la vidi tra i denti del rastrello .
Che sollievo! Ero contenta. Si era incuneata sotto le pietre, a loro volta nascoste dall'erba.
Un pericoloso incidente
Avevo
messo nel recinto piccolo un sottovaso rettangolare e riempito d'acqua
in modo che potessero bere. L'altezza dell'acqua era di qualche
centimetro. Il sottovaso mi pareva adatto anche per le due piccine, che
non si sarebbero annegate. Stamattina, prima di uscire con la mamma,
vidi due tartarughe grandi immobili nell'acqua a godersi il sole. Non
restava altro spazio se le compagne avessero voluto immergersi anche
loro.
Il sottovaso era troppo piccolo per tutte. Ne presi un altro,
circolare, molto più grande lo collocai poco distante da quello
rettangolare. Pensando che le piccine si sarebbero annegate nella vasca
circolare, perché il livello dell'acqua superava la loro altezza, lo
inclinai un poco in modo che in un lato l'acqua fosse bassa, adatta a
loro, e nella parte opposta più alta, buona per le grandi. Tutto mi
pareva a posto e ben fatto.
Nel pomeriggio, anziché scendere in
giardino, preferii distendermi a letto per leggere il libro di una mia
amica da poco pubblicato. Prima che tramontasse il sole, scesi nel mio
giardino per raccogliere le ultime arance da un albero vicino alla casa e
poi andai in quello della mamma per dare un’occhiata alle tartarughe.
Prima
di varcare il cancello la mamma mi disse che una era capovolta e una
piccolina stava in acqua. Io le dissi che bisognava rimetterla in piedi,
altrimenti sarebbe morta soffocata. La mamma non lo sapeva e si
affrettò a rimetterla in piedi.
Avvicinatami al recinto vidi la più
piccina in acqua nella vasca grande e nella parte più profonda,
completamente immersa. La testa era giù. Intuii che fosse annegata. La
presi immediatamente in mano: non era rigida, ma non dava segni di vita.
Che scoramento! Che rabbia!
Avevo
pensato che le piccine in quel punto si sarebbero annegate, ma non
avevo pensato di mettere nella vasca delle pietre in modo che avrebbero
avuto un appiglio per tenersi, per salirvi e tenere la testa fuori
dall'acqua. Il fondo del grande sottovaso di plastica è liscio e perciò
la piccina era scivolata nel punto più profondo, senza trovare qualcosa a
cui aggrapparsi.
Pensai a un bambino che annega in una piscina per adulti, quando sfugge al loro controllo. E' successo qualche volta.
Mi
sentivo colpevole di aver causato la sua morte. Non c'era più rimedio;
pensavo che la sera avrei dato la brutta notizia a Maria Elena, che
avrebbe provato lo stesso mio dispiacere.
Mentre scorrevano tali
pensieri nella mia mente, tenevo la piccina a testa in giù, pressando il
molle piastrone con il pollice, nell'estremo tentativo di farle uscire
l'acqua dai polmoni. La pressione le fece uscire il collo e aprire la
bocca da cui uscì qualche goccia d'acqua. Continuai senza speranza a
premere più volte, fin quando le uscì un flebile fischio. Scorata la
depositai a terra, al sole. Non sapevo quanto tempo fosse stata
sott'acqua.
Pensai che sarebbe stato meglio separare le adulte dalle
neonate, mettendo le prime nel recinto più grande e lasciando le due
neonate in quello più piccolo.
Come prevedevo, dato uno sguardo
al grande spazio in cui improvvisamente si trovarono, le adulte si
diressero correndo verso il muretto fitto di piante, sotto cui
scomparvero. Nel recinto piccolo erano rimaste quella annegata, immobile
sotto l'ultimo raggio di sole, e la sorellina, che cercava un
nascondiglio per passarvi la notte. Le presi tutte e due e le misi in
una scatola di cartone in veranda per portarmele a casa. Indugiai un
poco pensierosa per quanto era accaduto a causa della mia imprudenza. Ad
un tratto mi parve che l'annegata avesse mosso una zampetta. Credei che
fosse uno scherzo della mia vista. La presi in mano e la toccai in
tutti i punti. Era appena percepibile qualche movimento delle zampe e
della testa. Allora non era morta!
Ero incredula. Continuai a
stimolarla e i suoi movimenti, anche se piccolissimi, si vedevano.
Chiamai mia madre e gliela feci vedere. Anche lei constatò che era viva.
Fu contenta più per me che per quell’esserino risorto. La rimisi
nella scatola al sole e aspettai per vedere come sarebbe stata la
ripresa. Nell'attesa io e mia madre iniziammo una partita a carte.
Tramontato il sole, misi le due piccine in libertà sul tavolo dove
giocavamo, per averle sotto controllo. Quella sana girava incuriosita
attorno all'orlo del tavolo; l'altra, senza forze, stava ferma, ma ogni
tanto girava la testa.
Finita la partita, me ne tornai a casa con le
due tartarughine, rasserenata e contenta. Per mia colpa si era annegata,
ma con il mio intuito si è salvata. Pensai di chiamarla Mosina, in
ricordo di Mosè salvato dalle acque del Nilo.
26 - Fiori bianchi
Sciacca 7 maggio 2009
La
primavera è sempre bene accolta dopo il grigiore invernale. Chi vive in
una casa circondata da terreno si accorge, prima di chi vive in città,
dei segnali che annunziano l’esplosione della nuova vita. Quando apro i
balconi che si affacciano su un filare di aranci sono investita da un
penetrante profumo di zagara. Se giro sotto gli alberi sono inoltre
gratificata dalla vista dei carnosi fiori bianchi. Macchie fitte di
acanti mettono in bella mostra le grandi foglie lucide, da cui si
innalzano gli steli fioriti.
Nessuno ha piantato l’acanto nel mio terreno e non ricordo
quando vidi la prima piantina. Nei terreni circostanti non se ne vedono.
Nel mio la pianta si è moltiplicata nel corso degli anni e si trova per
lo più lungo il perimetro del terreno. Non può crescere nell’interno
perché il mio vicino, Luigi, quando col trattore ara il suo terreno
confinante col mio, fa un giretto intorno alla mia casa per estirpare le
erbacce tralasciando tutto ciò che è nel perimetro. Quando ho voglia di
stare all’aperto, a contatto diretto con la terra, prendo la falce per
tagliare le erbacce risparmiate dal trattore e lascio vivere gli acanti.
Ieri all’imbrunire, durante un mio giretto, mi apparve
all’improvviso un fascio di fiori mai visti prima: fiori bianchi,
all’interno dei quali spiccava un lucido bottone nero. Speravo che i
fiori vivessero ancora fino all’indomani mattina per poterli fotografare
alla luce vivida del sole. Spuntavano da una pianta che non mi era
nuova per averla vista nel mio terreno e che consideravo erbaccia. Quei
fiori candidi mi sembravano come il cigno della favola del “Brutto
anatroccolo”.
Fiori bianchi
Insetto sul cardo selvatico
Acanto
Stamattina con la macchina fotografica mi diressi nel bordo
dove avevo visto i fiori e con mio cruccio non ve li trovai: gli steli
ritti mostravano i calici senza petali. Peccato!
Ma la speranza di fotografare i miei bei fiori non andò delusa: ne
trovai un altro fascio nelle vicinanze che fotografai con gioia. Ma
fotografai anche un insetto posato su un bel fiore di cardo, dei
fiorellini minuscoli di campo e naturalmente i fiori di acanto.